Decolonizzazione
di Adolfo Miaja de la Muela
Decolonizzazione
Sommario: 1. Delimitazione storica del concetto; comparazione fra la decolonizzazione odierna e la conquista dell'indipendenza da parte delle repubbliche americane. 2. Antecedenti della decolonizzazione: a) l'autodeterminazione nel pensiero di Wilson e i mandati internazionali della Società delle Nazioni; b) il problema coloniale alla Conferenza di San Francisco. 3. Il regime dei territori non autonomi nell'evoluzione dell'ONU sino al 1960. 4. Collegamento operato dall'ONU tra la decolonizzazione e la protezione internazionale dei diritti dell'uomo. 5. Forze motrici della decolonizzazione e prime fasi della sua attuazione pratica. 6. La decolonizzazione dell'Africa Nera e dell'Algeria. 7. La Dichiarazione sulla concessione dell'indipendenza ai paesi e ai popoli coloniali; la risoluzione 1.514 (XV) dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite: a) genesi della risoluzione; b) contenuto della Dichiarazione; c) conseguenze della risoluzione. 8. Il Comitato per la decolonizza- zione delle Nazioni Unite e la sua opera. 9. Il caso della Namibia. 10. La decolonizzazione economica, i principi di amicizia e di cooperazione tra gli Stati e il nuovo ordine economico internazionale. □ Bibliografia.
1. Delimitazione storica del concetto; comparazione fra la decolonizzazione odierna e la conquista dell'indipendenza da parte delle repubbliche americane
Il fatto storico più importante della seconda metà del sec. XX è certamente la conquista dell'indipendenza da parte di parecchie decine di unità politiche, in passato dipendenti da potenze straniere sotto forma di colonie, protettorati, mandati internazionali o territori sottoposti al regime di tutela o amministrazione fiduciaria.
Il termine ‛decolonizzazione', col quale si designa oggi tale processo storico, è relativamente recente e comunque posteriore di qualche anno alla nascita del fenomeno: esso manca, per esempio, in un'opera specializzata come il Dictionnaire de la terminologie de droit international, pubblicato a Parigi nel 1960 sotto la direzione di J. Basdevant. Già pochi anni dopo, tuttavia, il termine era universalmente compreso in tutta l'ampiezza del suo significato, che abbraccia sia gli aspetti politici che quelli economici, come anche le varie forme assunte dal processo di decolonizzazione nei singoli casi.
In realtà, la decolonizzazione seguita alla seconda guerra mondiale è lungi dall'essere un fenomeno unico nella storia: sono sempre esistiti popoli che, sottomessi in una forma o nell'altra ad altri popoli, hanno profittato delle circostanze propizie per liberarsi da tale soggezione. In particolare, si può ricordare un altro imponente processo di decolonizzazione: quello che, iniziato con la ribellione vittoriosa delle colonie inglesi del Nordamerica contro la metropoli, in circa mezzo secolo doveva estendersi a tutto il continente per culminare nell'emancipazione della maggior parte delle colonie spagnole e portoghesi. Questo richiamo al caso americano si rivela utile, in quanto in esso è possibile riscontrare accanto a una caratteristica comune - quella cioè di dare origine a nuovi Stati - anche certi caratteri specifici che lo differenziano profondamente dalla decolonizzazione odierna.
1. In entrambe le Americhe, i movimenti di emancipazione furono diretti da uomini di razza bianca e di formazione europea e cristiana (i creoli, come venivano chiamati nei paesi di lingua spagnola e francese per distinguerli dagli aborigeni). Se un qualche ruolo fu svolto da elementi indigeni, non andò oltre la partecipazione a movimenti diretti da coloni di origine europea.
Una volta ottenuta l'indipendenza, la norma era che i bianchi che avevano diretto i movimenti d'indipendenza assumevano le cariche di governo e la direzione dei nuovi Stati.
Al contrario, i movimenti che hanno condotto alla decolonizzazione odierna hanno avuto quali protagonisti, sia al livello dei capi che a quello delle masse, i veri colonizzati, vale a dire le popolazioni (autoctone o no) discendenti da quelle esistenti all'epoca in cui fu instaurata la colonizzazione straniera. Se in qualche caso eccezionale - come è avvenuto in qualche paese africano - una minoranza bianca ha assunto la direzione del movimento d'indipendenza e, dopo la vittoria, ha conservato i posti di comando al fine di mantenere la discriminazione contro gli indigeni, bisogna dire che, in quel territorio, il problema della de- colonizzazione rimane irrisolto.
La decolonizzazione, dunque, non è una realtà sinché la popolazione indigena (ovvero l'etnia o le etnie predominanti in ciascun paese) non sia padrona del governo e dell'amministrazione.
2. Da quanto abbiamo detto si desume un'altra differenza tra la decolonizzazione americana della fine del Settecento e del primo Ottocento e quella odierna. Allora, l'interesse era rivolto quasi esclusivamente all'indipendenza politica, mentre i problemi economici rimanevano sullo sfondo. Oggi, al contrario, nessuna popolazione - e neppure i suoi leaders - si riterrebbe soddisfatta della raggiunta emancipazione politica, ma aspira a integrarla con l'indipendenza economica, simboleggiata (sebbene questo non ne esaurisca interamente il contenuto) dal ‟diritto dei popoli alla sovranità sulle proprie risorse e ricchezze naturali": tale è la formula adottata, a partire dalla risoluzione 1.803 (XVII) del 1962, da varie risoluzioni dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Una simile rivendicazione appare comprensibile se si tien conto che, al momento della conquista dell'indipendenza, la maggioranza delle risorse e ricchezze dei paesi ex coloniali era in possesso di stranieri (individui o imprese).
Mentre, dunque, l'indipendenza raggiunta dagli Stati Uniti e poi da altri paesi americani costituiva in sé una conclusione (nei limiti in cui si può parlare di conclusione a proposito di fenomeni storici), l'emancipazione odierna di più di una cinquantina di nuovi Stati rappresenta bensì il termine di un processo politico, ma comporta al contempo l'avvio di un altro processo attinente alla sfera economica.
3. Al tempo in cui gli Stati Uniti conquistarono l'indipendenza, mancava qualsiasi organizzazione internazionale. Quando il processo di emancipazione investì l'America Centrale e Meridionale, esisteva invece, se non un'organizzazione nel senso attuale, certamente un suo antecedente, la Santa Alleanza, che si astenne però dal prendere una qualsiasi posizione nei confronti dei movimenti di emancipazione (cionondimeno, è proprio il timore di possibili intromissioni da parte della Santa Alleanza uno dei motivi che spiegano la proclamazione della dottrina di Monroe, nella misura in cui questa poté contribuire al consolidamento degli Stati di recente costituzione).
Quando, nella seconda metà del sec. XX, ha avuto inizio la decolonizzazione odierna, esistevano invece varie organizzazioni internazionali, tra le quali in particolare una con vocazione universale: le Nazioni Unite, che svolgerà un ruolo capitale sia nel processo di decolonizzazione politica sia nella sua continuazione sul piano economico, diventando il centro propulsivo dell'eliminazione dei gravami che pesano sulle ricchezze dei paesi di nuova indipendenza per effetto del loro passato coloniale.
Avendo accennato a queste caratteristiche, che distinguono la decolonizzazione odierna dai movimenti d'indipendenza del passato, possiamo ora approfondire l'esame del nostro tema.
2. Antecedenti della decolonizzazione
Come in tutte le materie che riguardano le relazioni internazionali o il diritto internazionale, se vogliamo spiegare un qualsiasi fenomeno attuale è opportuno ricercarne gli antecedenti nell'epoca di transizione - in tutti i campi - costituita dal periodo tra le due guerre mondiali; ciò faciliterà la messa a fuoco del problema all'interno della costellazione di forze esistente dopo il 1945 e del nuovo ordine internazionale stabilito dalla Carta delle Nazioni Unite.
a) L'autodeterminazione nel pensiero di Wilson e i mandati internazionali della Società delle Nazioni
L'idea di una self-determination, o diritto dei popoli a disporre del proprio destino, si trova in diversi discorsi del presidente Wilson durante la prima guerra mondiale; non però nei suoi famosi Quattordici punti, che dovevano servire come base dei futuri Trattati di pace del 1919 e 1920 e nei quali si fa appena qualche concessione al classico principio della nazionalità (quasi sempre riguardo all'area europea). Dei popoli coloniali fa cenno soltanto il plinto quinto, nel quale si promette: ‟Una riconsiderazione di tutte le pretese coloniali, per cui gli interessi delle popolazioni abbiano un peso eguale a quello delle pretese dei governi, il cui diritto sia oggetto di discussione".
Il diritto dei popoli - compresi quelli che non avevano mai conosciuto la colonizzazione - all'autodeterminazione non era un elemento costitutivo del diritto internazionale in vigore tra il 1919 e il 1939, come si può desumere dal rapporto, che la Commissione di giuristi (Larnaude, Struycken e Huber) nominata dal Consiglio della Società delle Nazioni presentò sulla controversia tra Finlandia e Svezia per la sovranità sulle isole Åland: ‟Sebbene nel pensiero politico moderno, soprattutto dopo la guerra mondiale, un posto importante sia occupato dal principio che i popoli possono disporre di se stessi, conviene tuttavia far notare che esso non è iscritto nel Patto della Società delle Nazioni. E la sua consacrazione in un certo numero di trattati non può bastare perché lo si consideri una delle norme positive del diritto delle genti. All'opposto, salvo il caso di contrarie stipulazioni in trattati internazionali, il diritto di disporre del territorio nazionale è uno degli attributi della sovranità di ciascuno Stato. Il diritto internazionale non riconosce a frazioni di popoli, in quanto tali, il diritto di separarsi con un semplice atto di volontà dallo Stato di cui sono parte, e neppure riconosce ad altri Stati il diritto di esigere una tale separazione. In generale, è cosa che riguarda esclusivamente la sovranità di ciascuno Stato regolarmente costituito il concedere o il rifiutare a una parte della propria popolazione il diritto di determinare, attraverso il plebiscito o in altro modo, il proprio destino politico. Una controversia fra Stati a tale proposito ricade dunque, in circostanze normali, in una sfera di problemi che il diritto internazionale lascia alla competenza esclusiva di uno di tali Stati (‟Journal officiel de la Société des Nations", ottobre 1920, suppl. speciale n. 3).
Se non una piena applicazione del principio dell'autodeterminazione dei popoli, qualcosa di simile fu stabilito, nel Patto della Società delle Nazioni, con la creazione dei mandati internazionali, mediante i quali si tentò di coonestare - col ricorso a un nuovo istituto giuridico - la spartizione dei territori arabi soggetti all'Impero Ottomano e delle colonie tedesche (spartizione decisa dai futuri vincitori già nel corso della guerra mondiale).
Dei tre tipi di mandati stabiliti dall'art. 22 del Patto della Società delle Nazioni, il mandato di tipo ‛A' riguardava ‟talune comunità già appartenenti all'Impero Ottomano, le quali hanno raggiunto un grado di sviluppo tale che la loro esistenza come nazioni indipendenti può essere provvisoriamente riconosciuta, salvo il consiglio e l'assistenza amministrativa di una potenza mandataria finché non siano in grado di reggersi da sé". Il mandato ‛A' fu applicato alla Siria e al Libano, la cui amministrazione fu affidata alla Francia, e all'‛Irāq, affidato alla Gran Bretagna, la quale ebbe pure il mandato per la Palestina con il compito particolare di crearvi un centro nazionale (Home foyer) ebraico. Il mandato per la Transgiordania era stato riservato per gli Stati Uniti; ma, quando questi ultimi si rifiutarono di ratificare il Patto della Società delle Nazioni, fu anch'esso affidato alla Gran Bretagna.
Con l'eccezione della Palestina, la funzione mandataria venne assolta - per i mandati di tipo ‛A' - in un tempo relativamente breve. Al termine della seconda guerra mondiale, tanto la Siria e il Libano che l'Irāq e la Transgiordania avevano conseguito l'indipendenza, fatto che costituì - al di fuori dell'area cristiana - la prima realizzazione del principio dell'autodeterminazione dei popoli.
Per i mandati di tipo ‛B' (colonie ex tedesche dell'Africa centrale) e ‛C' (Africa del Sud-Ovest e arcipelaghi del Pacifico), invece, l'art. 22 del Patto della Società delle Nazioni non stabiliva la medesima transitorietà prevista per i mandati di tipo ‛A'; e infatti nessuno dei territori soggetti a mandati di tipo ‛B' e ‛C' aveva conseguito l'indipendenza al termine della seconda guerra mondiale.
b) Il problema coloniale alla Conferenza di San Francisco
Nella seconda guerra mondiale aveva acquistato un rilievo assai maggiore un fenomeno già riscontrato durante la prima: la presenza sui campi di battaglia, tra le file degli eserciti vittoriosi, di uomini di colore i quali, al ritorno nelle colonie, dovevano trasformarsi in attivi promotori della propria indipendenza; e si trattava di gruppi molto più numerosi dell'esigua minoranza intellettuale formatasi nelle università europee e americane.
Durante la guerra, il loro desiderio d'indipendenza non era rimasto senza incoraggiamenti - anche se mai troppo espliciti - da parte dei capi della grande coalizione vittoriosa. Uomini di formazione e concezioni politiche cosi diverse come Roosevelt e Stalin professavano, sebbene con motivazioni diverse, una comune avversione al colonialismo; atteggiamento questo che, naturalmente, non era condiviso né dalla Gran Bretagna né dalla Francia.
Data questa contrapposizione negli atteggiamenti delle grandi potenze, il problema coloniale non poteva raggiungere una soluzione globale alla Conferenza di San Francisco (aprile-giugno 1945), convocata per elaborare la Carta delle Nazioni Unite sulla base del progetto di Dumbarton Oaks e con il vincolo rappresentato dagli accordi presi a Jalta da Churchill, Roosevelt e Stalin.
Cionondimeno, giacché era chiamata a subentrare nelle funzioni della Società delle Nazioni, la Conferenza di San Francisco non poté evitare di occuparsi della sorte di quei mandati che non erano sfociati nell'indipendenza del territorio amministrato.
A San Francisco nessuno - neppure la delegazione sovietica - richiese l'indipendenza immediata di tali territori né quella delle colonie allora esistenti, sebbene l'inclusione, nella Carta, del principio di autodeterminazione dei popoli fosse generalmente interpretata come un auspicio di libertà, sia pure senza scadenze precise, per i popoli soggetti a una qualsivoglia forma di colonialismo. La posizione più conservatrice fu quella assunta dalla delegazione britannica, la quale indicò come via da seguire quella delle concessioni progressive di autonomia, che avevano trasformato l'Impero britannico in una comunità di nazioni liberamente associate.
La soluzione adottata a San Francisco prese come base un working paper approntato dal delegato degli Stati Uniti Stassen, sulla cui base dovevano essere redatti i capp. XI e XII della Carta delle Nazioni Unite (v. UNCIO, 1945, t. X, pp. 701-706).
La soluzione di compromesso raggiunta tra le diverse posizioni sostenute alla Conferenza consisté nella distinzione, universalmente accettata, tra due diversi regimi amministrativi per i paesi non ancora giunti all'indipendenza: il regime dell'international trusteeship (nel testo spagnolo della Carta administración fiduciaria e in quello francese tutelle) e quello previsto per i cosiddetti ‛territori non autonomi', categoria nella quale dovevano essere incluse tutte le altre dipendenze degli Stati (colonie, protettorati, ecc.).
Il regime di amministrazione fiduciaria doveva applicarsi ai territori che si trovavano sotto mandato nel 1945, a quelli che dovevano essere ceduti, nei trattati di pace, dalle potenze sconfitte, e a quelli che sarebbero stati volontariamente posti sotto tale regime dagli Stati amministratori. Nessuna amministrazione fiduciaria di quest'ultima specie fu costituita; circa i territori ceduti dalle potenze sconfitte, fu attuata soltanto l'amministrazione fiduciaria sulla Somalia italiana, di cui fu incaricata la stessa Italia per un periodo di dieci anni; circa gli ex mandati, infine, ce ne fu uno che non acquisì il nuovo status: l'Africa del Sud-Ovest ex tedesca. Un organo dell'ONU appositamente costituito, il Consiglio per l'amministrazione fiduciaria, fu incaricato di vigilare sulla gestione delle potenze amministratrici.
Le restanti dipendenze extraeuropee - ma anche alcune europee, come Gibilterra, Malta e Cipro - rimasero soggette al medesimo regime coloniale che per l'innanzi, mentre dalla situazione prevista per i territori non autonomi rimasero escluse quelle dipendenze inglesi che avevano già imboccato la strada del self-government, che avrebbe loro procurato prima o poi lo status di dominions.
Inizialmente, i poteri di controllo dell'ONU nei confronti delle potenze amministratrici dei territori non autonomi erano minimi, e si basavano sul cap. XI della Carta, composto di due articoli che sarà opportuno riportare.
Art. 73. I membri delle Nazioni Unite, i quali abbiano o assumano la responsabilità dell'amministrazione di territori la cui popolazione non abbia ancora raggiunto una piena autonomia, riconoscono il principio che gli interessi degli abitanti di tali territori sono preminenti, e accettano come sacra missione l'obbligo di promuovere al massimo, nell'ambito del sistema di pace e di sicurezza internazionale istituito dal presente Statuto, il benessere degli abitanti di tali territori, e, a tal fine, l'obbligo: a) di assicurare, con il dovuto rispetto per la cultura delle popolazioni interessate, il loro progresso politico, economico, sociale e educativo, il loro giusto trattamento e la loro protezione contro ogni abuso; b) di sviluppare l'autogoverno delle popolazioni, di prenderne in debita considerazione le aspirazioni politiche e di assisterle nel progressivo sviluppo delle loro libere istituzioni politiche, in armonia con le circostanze particolari di ogni territorio e delle sue popolazioni, e del loro diverso grado di sviluppo; c) di rinsaldare la pace e la sicurezza internazionale; d) di promuovere misure costruttive di sviluppo, d'incoraggiare ricerche, e di collaborare tra loro, e, quando e dove ne sia il caso, con gli istituti internazionali specializzati, per il pratico raggiungimento dei fini sociali, economici e scientifici enunciati in questo articolo; e) di trasmettere regolarmente al Segretario Generale, a scopo d'informazione e con le limitazioni che possono essere richieste dalla sicurezza e da considerazioni costituzionali, dati statistici e altre notizie di natura tecnica, riguardanti le condizioni economiche, sociali ed educative nei territori di cui sono rispettivamente responsabili, eccezion fatta per quei territori cui si applicano i capp. XII e XIII.
Art. 74. I membri delle Nazioni Unite riconoscono altresì che la loro politica nei riguardi dei territori cui si riferisce questo capitolo, non meno che nei riguardi dei loro territori metropolitani, deve basarsi sul principio generale del buon vicinato in materia sociale, economica e commerciale, tenuto il debito conto degli interessi e del benessere del resto del mondo.
La distinzione tra il regime di amministrazione fiduciaria e il regime previsto per i territori non autonomi può essere chiarita dalle seguenti caratteristiche giuridiche: mentre le potenze amministratrici di territori non autonomi derivano il proprio titolo giuridico dal diritto internazionale classico, e hanno conseguito il titolo all'epoca in cui tale diritto regolava le condizioni di acquisizione valida di colonie e protettorati, gli Stati incaricati di un'amministrazione fiduciaria derivano il proprio titolo a governare il territorio a essa soggetto da un trattato - posteriore alla Carta - stipulato tra tutti gli Stati interessati, trattato al quale debbono conformare il proprio operato.
In secondo luogo, mentre l'esercizio del potere di emanare leggi e regolamenti nei territori soggetti ad amministrazione fiduciaria dev'essere esercitato in conformità con gli Accordi di tutela, approvati dall'Assemblea, nei territori non autonomi l'esercizio di tali poteri è un effetto della sovranità preesistente dello Stato amministratore.
Infine, mentre la Carta istituisce uno speciale organismo, il Consiglio per l'amministrazione fiduciaria, fornito di ampie competenze di controllo nei confronti delle potenze amministratrici, a San Francisco nessun organismo parallelo fu istituito che avesse competenze analoghe riguardo all'amministrazione dei territori non autonomi. Quest'ultima differenza tra i due regimi doveva però attenuarsi considerevolmente quando l'Assemblea generale delle Nazioni Unite, valendosi della sua facoltà d'istituire organi sussidiari, creò una Commissione per i territori non autonomi, la quale, con successive proroghe del suo mandato e ampliamenti delle sue competenze, doveva trasformarsi in uno degli organi più vitali dell'Organizzazione, destinato a diventare il terreno della battaglia condotta dai paesi del Terzo Mondo che ne erano membri, quasi sempre con l'appoggio degli Stati socialisti e ispanoamericani e, non di rado, anche degli Stati Uniti (v. Garde Castillo, 1959).
Frutto di una soluzione di compromesso tra posizioni assai diverse, il sistema costituito a San Francisco rappresentò l'espressione di un equilibrio di forze, che gli avvenimenti immediatamente successivi dovevano rendere sempre più instabile. Già nel 1947 uno dei primi commentatori della Carta scriveva: ‟Non è la possibilità di equivoci concettuali che rappresenta il vero pericolo, ma l'opposizione tra due diversi atteggiamenti psicologici, che produrrà necessariamente due diversi metodi d'interpretazione; e c'è da temere che questa situazione possa soltanto aggravarsi" (v. Karckenbeeck, 1947, pp. 269-270).
D'altra parte, la portata minima che, sin dalla sua entrata in vigore, si poteva attribuire al cap. XI della Carta è quella che già allora indicava un altro dei suoi studiosi: ‟A nostro avviso, a uno Stato non sarà possibile, per ricusare l'intervento delle Nazioni Unite, sostenere che l'amministrazione di un territorio non autonomo è cosa che ricade essenzialmente nella giurisdizione interna dei singoli Stati, nel senso dell'art. 2, comma 7 della Carta" (v. Mathiot, 1946, p. 182).
A trent'anni di distanza dall'entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite, è cosa agevole - sia riguardo allo sviluppo delle relazioni amichevoli tra gli Stati che riguardo all'esercizio dei poteri conferiti al Consiglio economico e sociale dell'Organizzazione - non soltanto riscontrare in qual modo si siano adempiute queste predizioni di taluni dei suoi primi commentatori, ma anche dare una valutazione adeguata delle menzioni che, negli artt. 1 e 55, la Carta medesima fa del diritto dei popoli all'autodeterminazione. I primi commentatori della Carta, di norma, prestarono scarsa attenzione a tali riferimenti alla libera autodeterminazione dei popoli, considerandoli una ratifica così delle promesse fatte da Churchill e da Roosevelt nella Carta Atlantica come anche di idee formulate da Wilson molti anni innanzi; promesse e idee che ritenevano incapaci di produrre mutamenti radicali nel diritto internazionale vigente tra le due guerre mondiali (v. Ross, 1950; v. Goodrich e Hambro, 1948).
Analisi giuridiche successive (v. Scelle, 1957, pp. 385-397; v. Heydte, 1964, pp. 137-152) hanno mostrato in seguito la grande complessità del concetto di autodeterminazione dei popoli, il quale è suscettibile di molteplici interpretazioni, non tutte egualmente conformi allo spirito e alla lettera della Carta; d'altra parte, è stato appunto il carattere alquanto equivoco del concetto di autodeterminazione che ne ha consentito in genere l'applicazione - senza indugiare in discussioni circa la sua portata - a favore del conseguimento dell'indipendenza da parte dei popoli per l'innanzi soggetti a dominio straniero.
Mentre questi paesi raggiungevano l'indipendenza, la regolamentazione del regime coloniale contenuta nel cap. XI della Carta, e unificata per tutti i territori dipendenti, entrava a far parte del diritto internazionale, sebbene non fosse per il momento prevista alcuna specie di controllo, salvo quello risultante dall'obbligo fatto agli Stati amministratori di fornire certe informazioni al Segretario Generale dell'ONU (v. Virally, 1972, p. 239).
3. Il regime dei territori non autonomi nell'evoluzione dell'ONU sino al 1960
Come si poteva prevedere, dato il carattere compromissorio della soluzione adottata nella Conferenza di San Francisco, sia l'Assemblea generale che la Commissione per i territori non autonomi si trasformarono in palestre nelle quali i paesi anticolonialisti dovevano riuscire a indebolire progressivamente le posizioni degli Stati colonialisti. Schematicamente, i principali punti di frizione tra i due gruppi di Stati, rispetto al regime dei territori non autonomi, sono stati i seguenti:
1. Nei primi anni di vita dell'Organizzazione, parecchie potenze coloniali impugnarono la legittimità - in base alla Carta - dell'istituzione della Commissione per i territori non autonomi; tale posizione si dimostrò però minoritaria e gli argomenti usati per difenderla risultarono sempre più deboli.
2. Destino da riservare alle informazioni ricevute dal Segretario Generale. La maggioranza dei membri dell'Organizzazione si mostrò incline a includere nella competenza praticamente illimitata dell'Assemblea generale (facoltà di discutere ogni sorta di problemi e di formulare raccomandazioni a loro riguardo) anche la facoltà di occuparsi delle informazioni ricevute dal Segretario Generale; anche a questo riguardo una certa resistenza - anche se non maggiore che nel caso precedente - fu opposta dagli Stati amministratori dei territori in questione.
3. Sorse la disputa se la richiesta, prevista dall'art. 73 della Carta, d'informazioni sulle condizioni economiche, sociali ed educative escludesse - come pretendevano gli Stati colonialisti - le informazioni circa i problemi politici. In questo caso la resistenza aveva un fondamento più solido - almeno badando alla lettera della Carta -, il che provocò il protrarsi della discussione sino al 1954, data nella quale la risoluzione 848 (IX) dell'Assemblea generale dichiarò essere raccomandabile la trasmissione volontaria di informazioni su argomenti politici, invitando gli Stati amministratori a prestare all'Organizzazione, sotto questo riguardo, tutta la collaborazione possibile.
4. Dopo un'ampia discussione del tema, nella risoluzione 142 (II) del 1947 l'Assemblea generale disciplinò la forma che dovevano assumere le informazioni previste dall'art. 73 della Carta, nel senso di rendere obbligatoria la risposta a tutti i quesiti, salvo per ciò che riguardasse il governo dei territori non autonomi: materia nella quale gli Stati amministratori conservavano la facoltà di rispondere o non rispondere alle richieste d'informazioni.
5. Estinzione dell'obbligo di trasmettere le informazioni al Segretario Generale o, in altre parole, verificarsi di fatti suscettibili di rendere inapplicabile la qualifica di non autonomo a un territorio sino allora trattato come tale.
Circa questo punto il comportamento dell'Assemblea fu condizionato dalle circostanze specifiche di ciascun caso. Il primo Stato che manifestò il proposito di cessare di trasmettere le informazioni fu l'Olanda in rapporto all'Indonesia, quando quest'ultima conseguì l'indipendenza. L'Assemblea generale si limitò a prendere nota della comunicazione ricevuta dal governo dei Paesi Bassi.
Segui una notificazione degli Stati Uniti, nella quale il governo americano manifestava il proposito di cessare l'invio d'informazioni riguardanti Puerto Rico, giacché tale territorio aveva raggiunto la condizione giuridica di ‛Stato associato': l'Assemblea accettò l'estinzione dell'obbligo, non senza aggiungere però - nella risoluzione 748 (VIII) - un paragrafo in cui rivendicava la propria competenza a decidere se un territorio non autonomo avesse o non avesse acquisito l'autogoverno: era un'importante dichiarazione di principio, la cui portata doveva rivelarsi in seguito.
6. Possibilità di un'autonomia economica, sociale e culturale non accompagnata dall'autonomia politica. Tale ipotesi fu discussa in varie sessioni dell'Assemblea generale in riferimento a Malta, dipendenza inglese a proposito della quale la Gran Bretagna si considerava sciolta dall'obbligo di trasmettere informazioni circa le condizioni sociali, economiche ed educative, in quanto tali materie erano passate sotto la competenza di un governo costituitosi nell'isola. L'argomento non persuase l'Assemblea generale la quale, nella risoluzione 648 (II), dichiarò che, perché un territorio possegga l'autonomia in ambiti specifici come quello economico, sociale ed educativo, condizione preliminare è il godimento della pienezza dell'autogoverno.
7. Definizione delle caratteristiche la cui esistenza in un territorio dimostra la raggiunta pienezza dell'autogoverno. Per l'Assemblea generale, tale pienezza può essere conseguita in tre modi diversi: a) attraverso l'indipendenza; b) attraverso altri sistemi di autogoverno (chiara allusione alla situazione delle ex colonie britanniche trasformate in dominions); e c) attraverso la libera associazione, su un piede di uguaglianza, con la ex metropoli o con qualche altro paese.
Tutte queste risoluzioni dell'Assemblea generale dovevano stimolare potentemente il desiderio d'indipendenza delle popolazioni dei territori soggetti al regime coloniale: esse si sapevano infatti sostenute dal fermo appoggio dei paesi del blocco socialista, come anche dei paesi afroasiatici, che andavano progressivamente conquistando l'indipendenza. A essi si associavano quasi sempre, nelle deliberazioni dell'ONU, i paesi ispanoamericani, che insieme disponevano di una ventina di voti, utilizzati in genere a favore di ogni iniziativa che tendesse a indebolire gradualmente la posizione degli Stati colonialisti nei confronti delle loro dipendenze.
Questo indebolimento si manifesta sempre più chiaramente in un altro fenomeno, di grande portata giuridica: si sottraggono cioè le relazioni tra metropoli e colonie a quella zona di domaine reservé o di giurisdizione esclusivamente nazionale degli Stati che, a norma del comma 7 dell'art. 2 della Carta, costituirebbe il fondamento dell'incompetenza degli Organi dell'ONU a giudicare circa dette relazioni. A partire dal 1945 le relazioni tra metropoli e colonie dovevano subire un crescente processo d'internazionalizzazione, con il risultato di favorire il processo ognora più intenso dell'emancipazione dei popoli coloniali.
Nel sistema dell'ONU, nel quale la maggiore estensione dei poteri e funzioni conferiti all'Assemblea generale è bilanciata dalla minore intensità di tali poteri e funzioni, che si riducono all'effettuazione di ricerche e alla formulazione di raccomandazioni, era inevitabile la tensione - già rivelatasi nelle posizioni suaccennate riguardo ai problemi posti dal regime dei territori non autonomi - tra gli Stati che, attenendosi alla lettera della Carta, rifiutavano di riconoscere valore vincolante alle risoluzioni dell'Assemblea generale in questa materia e gli Stati (la maggioranza) che consideravano invece vincolanti per tutti le risoluzioni votate dall'Assemblea.
La frizione più grave si ebbe quando l'Assemblea generale - dopo l'ingresso nell'Organizzazione (1955) di parecchi Stati, tra i quali due, Spagna e Portogallo, con dipendenze coloniali - dichiarò la propria competenza a determinare quali territori ricadessero nell'ambito del cap. XI della Carta.
Appena entrati nell'ONU, Spagna e Portogallo sostennero di non essere vincolati dal cap. XI della Carta in quanto non si consideravano Stati amministratori di territori non autonomi. Con un provvedimento interno il Portogallo aveva mutato la denominazione di colonie, attribuita sino a poco tempo prima alle sue dipendenze, in quella di ‛Territori d'Oltremare', nella convinzione che tale mutamento di denominazione bastasse a esonerarlo dagli obblighi previsti dal cap. XI della Carta. Una posizione identica fu sostenuta dalla Spagna, per la quale l'attribuzione della qualifica di ‛provincie' al Sahara, a Ifni e alla Guinea Equatoriale liberava il governo spagnolo dai suddetti obblighi.
In questa situazione l'Assemblea generale, dopo aver affermato la propria competenza a determinare quali territori fossero da qualificarsi come non autonomi, e di conseguenza a determinare se gli Stati amministratori fossero soggetti al cap. XI, il 15 dicembre del 1960 - un giorno dopo l'approvazione della risoluzione 1.514 (XV), la più importante in materia di decolonizzazione - approvò la 1.541 (XV), che stabiliva i ‟principi che debbono servire da guida agli Stati membri nel determinare se esista o non esista l'obbligo di trasmettere le informazioni previsto dal comma e dell'art. 73 della Carta". La risoluzione si richiama al fatto che dinanzi al rifiuto del Portogallo e della Spagna di fornire informazioni sui territori da loro amministrati l'Assemblea generale, nella risoluzione 1.467 (XIV) del 1959, aveva designato un Comitato di sei membri con l'incarico di studiare i principî che debbono guidare gli Stati nel determinare se tale obbligo sia o non sia loro applicabile. Il lavoro preparatorio del Comitato fu approvato nella XV sessione dell'Assemblea generale che, con la risoluzione 1.541, fissò i principi seguenti:
‟I. Per gli autori della Carta delle Nazioni Unite, il cap. XI doveva applicarsi a quei territori che erano all'epoca noti come coloniali. A norma dell'art. 73 della Carta, l'obbligo di comunicare informazioni sussiste riguardo a quei territori le cui popolazioni non si amministrino interamente da sé medesime.
II. Così com'è delineato nel cap. XI, il concetto di territorio non autonomo indica una condizione di evoluzione dinamica e di progresso verso la piena capacità di autoamministrarsi. L'obbligo di trasmettere informazioni cessa non appena il territorio o la sua popolazione abbiano raggiunto la piena autonomia; sino a quel momento l'obbligo (previsto dall'art. 73e) permane.
III. L'obbligo di trasmettere informazioni costituisce un obbligo internazionale, cui si deve dare esecuzione tenendo nel debito conto la legge internazionale.
IV. Sussiste a priori un obbligo di trasmettere informazioni riguardo a un territorio quando questo sia geograficamente separato e, dal punto di vista etnico o culturale, distinto dal paese che lo amministra.
V. Una volta constatato in via preliminare che sussistono differenze etniche, geografiche o culturali, si possono prendere in considerazione altri elementi. Tali elementi aggiuntivi possono essere, in particolare, di natura amministrativa, politica, giuridica, economica e storica. Se essi influenzano le relazioni tra la metropoli e il territorio in questione in modo tale che la posizione e lo status di quest'ultimo ne risultino menomati, viene confermata la presunzione che si debbano trasmettere le informazioni a norma dell'art. 73e della Carta.
VI. Si può dire che un territorio non autonomo raggiunge la piena autonomia: a) attraverso la sua costituzione in Stato indipendente e sovrano; b) attraverso la libera associazione con un altro Stato indipendente; c) attraverso la sua integrazione con un altro Stato indipendente.
VII. A. La libera associazione deve risultare da un atto di scelta libera e volontaria - e pubblicamente e democraticamente manifestata - delle popolazioni del territorio in questione. L'associazione deve rispettare l'individualità e i caratteri culturali del territorio e delle sue popolazioni, e serbare alle popolazioni che si associano allo Stato indipendente la libertà di modificare il proprio status secondo il metodo democratico e secondo procedure costituzionali.
B. Il territorio associato deve avere il diritto, senza intervento esterno, di modificare la propria costituzione interna in conformità con le procedure costituzionali e con i desideri liberamente espressi delle sue popolazioni. Ciò non esclude le consultazioni, utili o indispensabili, previste dalla libera associazione concordata.
VIII. L'integrazione in uno Stato indipendente deve avvenire in base a una completa uguaglianza tra i popoli del territorio non autonomo e quelli dello Stato indipendente nel quale il primo viene integrato. Tra i popoli di entrambi i territori ci deve essere uguaglianza di status e di cittadinanza, come anche uguaglianza di garanzie - senza distinzione né discriminazione - rispetto ai diritti e alle libertà fondamentali: i due popoli debbono avere uguali diritti e uguali possibilità di rappresentanza e di partecipazione elettorale a tutti i livelli degli organi esecutivi, legislativi e giudiziari dello Stato.
IX. Il territorio integrato dovrà aver raggiunto uno stadio progredito di autonomia, con libere istituzioni politiche, di modo che le sue popolazioni abbiano la capacità di operare scelte sagge e prudenti, con procedure democratiche e con piena cognizione di causa.
X. A norma dell'art. 73e della Carta, le comunicazioni riguardanti i territori non autonomi sono soggette alle limitazioni che possano essere richieste da considerazioni ccstituzionali e dalla sicurezza. Ciò vuoi dire che la natura delle informazioni previste dall'art. 73e non può sciogliere uno Stato membro dagli obblighi impostigli dal cap. XI. La ‛limitazione' può riguardare soltanto il volume delle informazioni di ordine sociale, economico ed educativo da trasmettere.
XI. Le sole considerazioni costituzionali, cui si riferisce l'art. 73e, sono quelle risultanti dalle relazioni tra il territorio e lo Stato membro amministratore. Si tratta di situazioni nelle quali la Costituzione del territorio gli conferisce autonomia in campo sociale, economico ed educativo, autonomia da attuarsi attraverso istituzioni liberamente elette. Tuttavia l'obbligo di trasmettere informazioni permane, a meno che queste relazioni costituzionali non impediscano al governo o al parlamento dello Stato amministratore di ricevere statistiche o altre informazioni di natura tecnica circa le condizioni economiche, sociali ed educative del territorio.
XII. Non è mai accaduto in passato che siano state invocate le esigenze della sicurezza. Soltanto in circostanze specialissime le informazioni di ordine sociale, economico ed educativo possono mettere in pericolo la sicurezza. Salvo tali circostanze, quindi, non v'è alcun bisogno di limitare la trasmissione d'informazioni per ragioni di sicurezza".
Bisogna osservare che tra la sessione dell'Assemblea generale in cui si designò il Comitato dei sei con l'incarico di preparare tali principi e quella del 1960 in cui fu approvata la risoluzione 1.541 (XV), gli eventi si erano succeduti così rapidamente che i territori non autonomi avevano in gran parte conseguito l'indipendenza e ottenuto l'ammissione all'ONU. Ciò non costituiva però che un primo passo nel processo di decolonizzazione, e i principi dovevano ancora svolgere una funzione straordinariamente efficace nei confronti delle posizioni di quegli Stati che, senza aver dato inizio alla decolonizzazione, differivano anche l'atto preliminare di sottomettersi alle norme del cap. XI della Carta.
La risoluzione 1.541 (XV) che proclamò questi principî fu approvata con sessantanove voti favorevoli, due contrari (quelli del Portogallo e dell'Unione Sudafricana), e venti astensioni di Stati di diverso orientamento politico, come la Cina (nazionalista), la Cecoslovacchia, la Repubblica Dominicana, la Francia, l'Ungheria, l'Italia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi, la Nuova Zelanda, la Polonia, la Romania, la Spagna, l'Ucraina, il Regno Unito, gli Stati Uniti, l'Albania, l'Australia, il Belgio, la Bulgaria e la Bielorussia. È significativo che tra gli astenuti, accanto a Stati occidentali, figurassero parecchi paesi del blocco socialista, i cui delegati, nella XV sessione dell'Assemblea generale, erano stati fautori di soluzioni più radicali.
Le conseguenze immediate della proclamazione dei principî ricadevano sulla Spagna e sul Portogallo. La delegazione spagnola notificò all'Assemblea generale che, sebbene le ex colonie, in conformità con l'ordinamento giuridico del paese, fossero state trasformate in ‛provincie', il governo spagnolo, in obbedienza alla decisione dell'Assemblea, accettava di trasmettere al Segretario Generale le informazioni circa tali ‛provincie', a norma dell'art. 73e della Carta.
Diverso fu l'atteggiamento portoghese: il governo di Lisbona si attenne ostinatamente alla sua tesi ufficiale, secondo la quale il Portogallo era privo di dipendenze coloniali, in quanto si era costituito in Stato multirazziale, nel quale i territori d'oltremare godevano di una posizione di uguaglianza rispetto all'ex metropoli: era un chiaro preludio all'atteggiamento ufficiale tenuto durante i governi di Salazar e di Caetano, consistente nell'opporsi con tutti i mezzi a disposizione alla decolonizzazione delle dipendenze d'oltremare. Tale posizione fece dell'emancipazione dei popoli sottomessi al Portogallo una vicenda fra le più sanguinose nella lotta per l'autodeterminazione dei popoli, vicenda che ha potuto entrare nella fase finale soltanto dopo il mutamento politico verificatosi in Portogallo il 25 aprile 1974.
4. Collegamento operato dall'ONU tra la decolonizzazione e la protezione internazionale dei diritti dell'uomo
Un altro fattore che ha trasformato l'ONU nella massima tribuna per i sostenitori della decolonizzazione è dato dal nesso che vari suoi organi, pochi anni dopo aver cominciato a funzionare, hanno istituito tra il diritto dei popoli all'autodeterminazione e la protezione e garanzia internazionale dei diritti dell'uomo.
Per una spiegabile reazione contro il totalitarismo dei paesi sconfitti, la coalizione di Stati vittoriosa nel 1945 iscrisse nella Carta delle Nazioni Unite, come una delle finalità dell'Organizzazione, la promozione e l'incoraggiamento dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzioni di sesso, razza, lingua o religione (art. 1, 3). La competenza a perseguire tale finalità fu conferita all'Assemblea generale e, sotto l'autorità di questa, al Consiglio economico e sociale (art. 55c). La prima realizzazione di questo programma fu rappresentata dall'approvazione - il 10 dicembre del 1948 - della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo.
Senza addentrarci in problemi estranei al tema di questo articolo, come quelli relativi alla natura giuridica e alla forza vincolante che questo fondamentale documento possiede nell'ordinamento giuridico internazionale, ci preme far notare che esso non può essere pienamente operante sinché le sue norme non vengano sviluppate in altre norme più precise e più particolareggiate, che regolino l'esercizio dei diritti enunciati nelle loro diverse modalità, limiti e garanzie. Si tratta del medesimo problema che, nell'ordinamento giuridico interno di ciascun paese, scaturisce da ‛dichiarazioni' del genere, generalmente inserite in Costituzioni o leggi fondamentali, bisognose del complemento di leggi organiche - e queste a loro volta, se necessario, di regolamenti - che disciplinino l'esercizio dei diritti enunciati.
Nell'ordinamento internazionale, il quale manca di un organo legislativo, la funzione normativa è adempiuta dagli Stati stessi attraverso la stipulazione di trattati internazionali. Sono le convenzioni che svolgono la funzione legislativa, e soltanto per il loro tramite è possibile completare la Dichiarazione.
A parte quelle concordate in ambito continentale o regionale - la più importante delle quali è la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, firmata a Roma il 5 maggio del 1950 - dopo la Dichiarazione universale vari organi dell'ONU hanno lavorato all'elaborazione di due Patti sui diritti dell'uomo: uno dedicato ai diritti di natura individuale e politica, e l'altro ai diritti sociali, economici e culturali.
Ora, in questi lavori dell'ONU riguardo ai progetti per i Patti sui diritti dell'uomo si ebbe un momento cruciale, nel quale non soltanto fu avanzata - con successo - la pretesa d'iniziare tali Patti con la proclamazione del diritto dei popoli all'autodeterminazione, ma si fece del conseguimento dell'autodeterminazione una condizione preliminare della possibilità di dichiarare in modo efficace i diritti spettanti agli esseri umani.
Del problema si cominciò a discutere nei lavori della Commissione per i diritti dell'uomo durante la primavera del 1952. Mentre i paesi occidentali erano inclini a condizionare l'esercizio del diritto di autodeterminazione alla capacità, da parte dei popoli che lo richiedevano, di garantire preliminarmente le libertà individuali e politiche necessarie per l'effettiva espressione della volontà nazionale, i paesi afroasiatici, appoggiati da quelli socialisti e da non pochi tra i paesi ispanoamericani, sostenevano che i diritti e le libertà sarebbero venuti dopo che ciascun popolo avesse potuto disporre liberamente del proprio destino.
Nella III Commissione dell'Assemblea generale, il delegato dell'Arabia Saudita Baroody propose di aggiungere al Preambolo dei progetti sui patti il paragrafo seguente: ‟Il diritto delle nazioni e dei popoli a disporre di se stessi è una condizione preliminare del godimento di tutti i diritti dell'uomo". Questa formula, che la Commissione accettò in grande maggioranza, di lì a poco sarebbe stata accolta in varie risoluzioni dell'Assemblea generale, a partire da quella del dicembre 1952, che vale la pena di trascrivere:
‟A. Considerando che il diritto dei popoli e delle nazioni a disporre di se stessi è una condizione preliminare del godimento di tutti i diritti fondamentali dell'uomo; considerando che gli artt. 1 e 55 della Carta delle Nazioni Unite mirano a sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli, basate sul rispetto dell'uguaglianza di diritti dei popoli e sul loro diritto a disporre di se stessi, allo scopo di consolidare la pace nel mondo; considerando che la Carta delle Nazioni Unite riconosce che alcuni membri dell'Organizzazione delle Nazioni Unite hanno la responsabilità di amministrare territori le cui popolazioni non hanno ancora la pienezza dell'autogoverno, e formula i principi cui tali membri devono ispirarsi; considerando che ogni membro dell'Organizzazione deve, in conformità con la Carta, favorire negli altri Stati il diritto dei popoli a disporre di se stessi, l'Assemblea generale raccomanda quanto segue: 1) gli Stati membri dell'Organizzazione debbono sostenere il principio del diritto di tutti i popoli e di tutte le nazioni a disporre di se stessi; 2) gli Stati membri dell'Organizzazione debbono riconoscere e favorire, per quanto riguarda le popolazioni dei territori non autonomi e dei territori in amministrazione fiduciaria da loro amministrati, la realizzazione del diritto dei popoli a disporre di se stessi, e debbono agevolare alle popolazioni di questi territori l'esercizio di tale diritto, tenendo conto dei principî e dello spirito animatore dell'ONU e della volontà liberamente espressa dalle popolazioni interessate. La volontà delle popolazioni si determinerà attraverso plebisciti, o attraverso altri procedimenti democratici riconosciuti, preferibilmente sotto l'egida delle Nazioni Unite; 3) gli Stati membri dell'Organizzazione che detengano la responsabilità di amministrare territori non autonomi e territori in amministrazione fiduciaria prenderanno, in attesa della realizzazione del diritto dei popoli a disporre di se stessi, misure pratiche atte a preparare tale realizzazione, ad assicurare la partecipazione diretta delle popolazioni autoctone agli organi legislativi ed esecutivi del governo di questi territori, come anche a preparare dette popolazioni alla completa autonomia o all'indipendenza.
B. L'Assemblea generale, considerando che una delle condizioni necessarie per facilitare l'azione delle Nazioni Unite a favore della promozione del diritto delle nazioni e dei popoli a disporre di se stessi, specialmente riguardo alle popolazioni dei territori non autonomi, è data dal fattu che gli organi delle Nazioni Unite dispongano di informazioni fededegne circa il governo di questi territori; ricordando la risoluzione 144 (II) del 3 novembre 1947, nella quale si dichiarava che la trasmissione spontanea di informazioni di questa natura è pienamente rispondente allo spirito dell'art. 73e della Carta e deve quindi essere incoraggiata; ricordando la risoluzione 327 (IV) del 2 dicembre 1949, nella quale si esprimeva la speranza che i membri che non l'hanno ancora fatto aggiungano spontaneamente alle informazioni trasmesse a norma dell'art. 73e della Carta indicazioni particolareggiate circa il governo dei territori non autonomi; considerando che informazioni siffatte mancano tuttora riguardo a vari territori non autonomi: 1) raccomanda agli Stati membri dell'Organizzazione che sono responsabili dell'amministrazione di territori non autonomi di prendere l'iniziativa di aggiungere, alle informazioni trasmesse a norma dell'art. 73e della Carta, indicazioni particolareggiate atte a chiarire in qual misura il diritto dei popoli e delle nazioni a disporre di se stessi sia esercitato dalle popolazioni di questi territori, e, specialmente, indicazioni sulle misure prese per sviluppare le loro capacità di amministrarsi da se stesse, per favorire le loro aspirazioni politiche e per aiutarle nel progressivo sviluppo delle loro libere istituzioni; 2) decide di iscrivere la presente risoluzione all'ordine del giorno della prossima riunione della Commissione per i territori non autonomi.
C. L'Assemblea generale, considerando che è necessario proseguire lo studio delle vie e dei mezzi destinati ad assicurare, sul piano internazionale, il rispetto del diritto dei popoli a disporre di se stessi; considerando che le raccomandazioni adottate nel corso della VII sessione non rappresentano le uniche misure che sia possibile prendere per favorire il rispetto di questo diritto: 1) invita il Consiglio economico e sociale a richiedere alla Commissione dei diritti dell'uomo di proseguire il lavoro di preparazione di raccomandazioni riguardanti le misure che, nel quadro delle loro possibilità di azione e delle loro competenze, i vari organi delle Nazioni Unite e le istituzioni specializzate possono prendere allo scopo di promuovere sul piano internazionale il rispetto del diritto dei popoli a disporre di se stessi; 2) richiede alla Commissione dei diritti dell'uomo di sottomettere, attraverso il Consiglio economico e sociale, queste raccomandazioni all'Assemblea generale".
A partire dall'approvazione di questa risoluzione, la causa della decolonizzazione, legata così alla protezione dei diritti dell'uomo, diventa uno dei temi centrali dell'attività della maggior parte degli organi dell'ONU.
In relazione al problema, appena accennato, della protezione dei diritti dell'uomo, la III Commissione dell'Assemblea generale ricevette il testo che doveva poi diventare l'art. 1 dei due progetti riguardanti i diritti individuali e politici e i diritti economici, sociali e culturali:
‟1. Tutti i popoli e tutte le nazioni hanno il diritto di disporre di se stessi, cioè di determinare liberamente il proprio status politico, economico, sociale e culturale.
2. Tutti gli Stati, inclusi quelli incaricati dell'amministrazione di territori in amministrazione fiduciaria, nonché quelli che, in un qualsiasi modo, controllano l'esercizio di detto diritto da parte di un altro popolo, sono obbligati a contribuire ad assicurare l'esercizio di detto diritto nei loro territori, e a rispettare il suo esercizio da parte di altri Stati, in conformità con le disposizioni della Carta delle Nazioni Unite.
3. Il diritto dei popoli a disporre di se stessi comprende anche un diritto di sovranità permanente sulle ricchezze e risorse naturali. I diritti che possano essere rivendicati da altri Stati non dovranno in nessun caso giustificare che un popolo sia privato dei suoi mezzi di sussistenza".
Non è necessario seguire l'evoluzione di questo testo nelle sue successive redazioni; ci interessa solo osservare che, a partire da esso, viene considerata premessa indispensabile per la costituzione di un regime effettivo di rispetto dei diritti dell'uomo non solo che la popolazione del territorio in cui si tratta di assicurare questi diritti abbia raggiunto l'indipendenza politica, ma anche che tale indipendenza acquisti effettiva realtà mediante l'altra dimensione dell'emancipazione dei popoli, quella economica, vale a dire mediante la liberazione delle sue ricchezze e risorse naturali da mani straniere (problema cui sarà necessario accennare nella parte finale di questo articolo).
Anche se così facendo infrangiamo l'ordine cronologico al quale abbiamo cercato di conformarci, non possiamo chiudere questo capitolo senza rammentare che quando, dopo lunga preparazione, l'Assemblea generale arriva nel 1966 a concludere - proponendoli quindi alla firma degli Stati - i due Patti sui diritti individuali e politici e sui diritti economici, sociali e culturali, l'art. 1, comune a entrambi, così riassume il processo da noi descritto:
‟1. Tutti i popoli hanno il diritto alla libera autodeterminazione. In virtù di questo diritto, essi stabiliscono liberamente la propria condizione politica e del pari provvedono al proprio sviluppo economico, sociale e culturale.
2. Tutti i popoli, per il conseguimento dei loro fini, possono disporre liberamente delle proprie ricchezze e risorse naturali, salvi gli obblighi derivanti dalla cooperazione economica internazionale, basata sul principio del beneficio reciproco e sul diritto internazionale. In nessun caso un popolo potrà essere privato dei suoi mezzi di sussistenza.
3. Gli Stati firmatari del presente Patto, inclusi quelli che sono responsabili dell'amministrazione di territori non autonomi o di territori in amministrazione fiduciaria, si faranno promotori del diritto di libera autodeterminazione, e rispetteranno tale diritto in conformità con le disposizioni della Carta delle Nazioni Unite".
Non si può nascondere il fatto che, a un decennio circa di distanza dall'approvazione dell'ONU, i Patti sui diritti dell'uomo non sono ancora entrati in vigore, giacché non è stato raggiunto il numero di trentacinque ratifiche, necessario perché acquisiscano validità. Cionondimeno, indipendentemente dalle parti delle loro formulazioni, che si possono ritenere come già vigenti in quanto norme del diritto internazionale generale, l'autodeterminazione dei popoli e il suo corollario - la decolonizzazione - sono state varie volte proclamate come norme generali del diritto internazionale non soltanto dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite, ma anche dal Consiglio di sicurezza, dalla Corte internazionale di giustizia e da diverse organizzazioni regionali, senza che sia stato mai impugnato il loro stretto legame con il principio essenziale della dignità dell'essere umano, che costituisce la base di tutte le Dichiarazioni e Patti sui diritti dell'uomo.
Nella fase attuale, il problema consiste nella proiezione sia dei diritti dell'uomo sia dell'autodeterminazione dei popoli nella sfera della decolonizzazione economica: questione che tratteremo brevemente in seguito.
5. Forze motrici della decolonizzazione e prime fasi della sua attuazione pratica
Abbiamo già accennato all'esistenza nella maggior parte dei paesi colonizzati, accanto a un'esigua minoranza d'intellettuali formatisi nelle università europee o americane, di un nucleo numericamente più consistente di ex combattenti nelle file dei paesi vittoriosi nel 1945; né dobbiamo dimenticare che le vicende del conflitto avevano insegnato a quei combattenti - e alle masse dei loro paesi - che l'uomo bianco, posto dinanzi a gente di colore, non risulta necessariamente invincibile. Questi fattori dovevano generare il fermento che avrebbe destato la tendenza, sempre latente nei popoli oppressi, a svincolarsi dalla loro dominazione.
Questa tendenza doveva essere necessariamente incoraggiata dal fatto che, dopo il 1945, le potenze coloniali erano alquanto decadute dal loro ruolo di protagoniste delle relazioni internazionali, dominate ormai dall'avvento delle due superpotenze, gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, le quali, qualunque fosse la tensione che di volta in volta turbava i loro rapporti, erano comunque scarsamente inclini, per motivi diversi, alla conservazione del colonialismo.
Sia la Russia che gli Stati Uniti, nell'avvicendarsi di ‛guerra fredda' e di ‛pace calda', ricercano alleanze e clientele in tutti i continenti. L'atteggiamento sovietico non potrebbe essere più chiaro: il dogmatismo marxista-leninista, professato anche da Stalin, considerava il colonialismo come un prodotto del mondo capitalista, al quale serviva da supporto; in conseguenza, tutto ciò che si poteva intraprendere per liquidare il colonialismo doveva necessariamente risolversi in un grave colpo per l'ordinamento economico borghese e nella creazione di poli di attrazione per l'adozione di soluzioni socialiste nell'organizzazione dell'economia da parte dei popoli di nuova indipendenza, e al contempo sfociare, sul piano internazionale, in un probabile appoggio alle democrazie popolari o, almeno, in una posizione di neutralità.
Più contraddittoria fu in quegli anni la posizione americana: gli Stati Uniti da un lato spandevano a piene mani milioni di dollari per promuovere nei paesi dell'Europa occidentale una ricostruzione economica che prevenisse il pericolo comunista e rompevano con la propria vecchia tradizione isolazionista per associarsi con questi paesi in alleanze militari (come il Patto Atlantico), mentre dall'altro non solo non appoggiavano i loro alleati nel mantenimento dei loro imperi coloniali, ma non celavano la propria simpatia nei confronti di alcuni dei movimenti di emancipazione delle popolazioni sottomesse. La crisi di Suez nel 1956 segna certamente il momento più significativo della decadenza delle due maggiori potenze colonialiste, la Gran Brètagna e la Francia, le quali si videro costrette a obbedire alle decisioni del Consiglio di sicurezza facendo ritirare le proprie truppe dalla zona del Canale proprio quando in tutto il Nordafrica si era ormai avviato il processo di decolonizzazione.
Un tale scioglimento del nodo di Suez fu reso possibile dall'applicazione della risoluzione Uniting for peace, approvata nel 1950 dall'Assemblea generale dell'ONU su proposta di D. Acheson: essa segnava appunto il trasferimento - se non del potere decisionale - almeno del centro di gravità politico dell'ONU dal Consiglio di sicurezza all'Assemblea generale.
Questo spostamento si verificò con il progressivo modificarsi dei rapporti di forza in seno all'Assemblea generale, sino al momento in cui il predominio numerico fu raggiunto dagli Stati piccoli e medi. Costituita nel 1945 dai 51 Stati che avevano formato l'alleanza vittoriosa nella seconda guerra mondiale, nei cinque anni seguenti l'ONU ammise solo altri nove membri, per poi chiudere le porte sino alla fine del 1955, quando furono ammessi in blocco 16 Stati, diversi dei quali afroasiatici e alcuni appartenenti allo schieramento socialista o a quello neutralista. Negli anni seguenti si succedono nuove ammissioni sino ad arrivare, nel 1960, a un altro ingresso in massa di altri 19 Stati, tutti africani tranne Cipro. Non sorprende che da questo momento l'Assemblea generale dell'ONU si sia trasformata nella principale testa d'ariete contro il colonialismo. Nel suo seno la decolonizzazione trae alimento da se stessa, nel senso che ogni ex dipendenza coloniale che riesce ad acquisire la piena indipendenza o lo status di dominion britannico rappresenta un voto in più su cui contare ogniqualvolta si discutano questioni connesse con l'emancipazione politica ed economica dei popoli che debbono ancora liberarsi dalla soggezione coloniale. La quindicesima sessione dell'Assemblea, tenuta nel 1960, doveva costituire, almeno sotto l'aspetto giuridico, il momento fondamentale della decolonizzazione: in essa fu infatti approvata la risoluzione 1.514 (XV), che esamineremo a suo luogo.
Diversamente da quanto si era verificato prima del 1945, la lotta contro il colonialismo intrapresa dentro e fuori dell'ONU dai paesi afroasiatici era ora agevolata dalla comunità d'intenti esistente tra questi paesi in tutto quanto riguardasse l'obiettivo anticoloniale.
Prima del 1945 esistevano, fuori dell'Europa e dell'America, vari Stati pienamente indipendenti, ma i loro indirizzi di politica internazionale mancavano di un orientamento unitario. Il dislivello esistente - sotto il profilo del progresso materiale - tra i due Stati più importanti, il Giappone e la Cina (spesso in lotta tra loro), facilitò l'espansione nipponica nel continente asiatico, espansione della quale la Cina fu la prima vittima. Altri paesi dell'Estremo Oriente, come l'Australia e la Nuova Zelanda, erano dominions britannici, di popolazione bianca, la cui solidarietà con i propri vicini era scarsa o nulla, e lo stesso valeva per l'Unione Sudafricana. I restanti Stati indipendenti come la Persia, l'Afghānistān, il Siam, l'Etiopia e la Liberia (tutti, tranne i due primi, confinanti tra loro) si ignoravano reciprocamente. Nella storia della Società delle Nazioni non si registra alcuna azione concertata di questi Stati, ognuno dei quali rientrava in sfere d'influenza assai diverse.
Una simile dispersione contrasta con la situazione esistente tra le repubbliche americane: al 1889 risale l'Unione Panamericana, dalle cui Conferenze periodiche derivarono non solo accordi internazionali di varia natura, ma anche un'aggregazione politica, diretta in genere da Washington; non mancarono però, in vari momenti e in vari paesi, governanti ispanoamericani capaci di reagire contro possibili minacce di egemonia da parte degli Stati Uniti; e anzi le iniziative prese talvolta, a questo riguardo, contro il capitale straniero possono essere considerate come il primo antecedente della lotta dei paesi del Terzo Mondo per la loro indipendenza economica.
Pur senza rinunciare a simili iniziative, nella Conferenza di San Francisco e nelle prime fasi dell'attività dell'ONU, i paesi americani, membri originari dell'ONU, si presentano come un blocco sufficientemente compatto.
Un'opportunità analoga si offriva ad alcuni paesi asiatici e africani i quali, alcuni mesi prima della nascita dell'ONU, crearono la Lega Araba (Trattato firmato al Cairo il 22 marzo 1945), della quale erano membri originari l'Egitto, l'‛Irāq, la Siria, la Transgiordania, l'Arabia Saudita e lo Yemen; deboli si dimostrarono però - salvo che nella comune ostilità verso Israele - i legami di solidarietà reciproca tra questi Stati e poi tra quelli che aderirono in seguito alla Lega Araba.
Altri paesi non islamici innalzarono la bandiera dell'anticolonialismo. A parte la Russia e i paesi socialisti, l'India, una volta raggiunta l'indipendenza, doveva svolgere un ruolo rilevante, basato sul neutralismo, del quale Nehru aveva fatto l'asse della sua politica internazionale nei confronti della bipolarità Unione Sovietica-Stati Uniti. Il neutralismo presuppone relazioni ugualmente pacifiche e amichevoli con tutti gli Stati, non senza un certo proselitismo nei confronti dei paesi svincolati dai blocchi ma anche verso quelli che avevano manifestato una certa inclinazione verso uno di essi. Così l'Egitto, mentre non si era interamente sottratto all'influenza inglese durante il regno di Fārūq, si colloca con Nasser nello schieramento neutralista, al quale si avvicina anche Tito, quando gli si presenta il destro di qualche gesto di ribellione contro il Cremlino.
La posizione indiana, inequivocabile sin dal principio riguardo al suo anticolonialismo, viene confermata in due Conferenze tenute a Nuova Delhi nel 1947 e nel 1949, che costituirono un appello a favore della liberazione dei popoli soggetti a dominazione straniera, e diventerà ancora più chiara quando Nehru, come risultato del suo atteggiamento neutralista, allaccerà normali relazioni di amicizia e di cooperazione con la Russia e con la Cina popolare.
Frutto di queste relazioni è il trattato cino-indiano del 29 aprile 1954, nel cui Preambolo vengono enunciati i Cinque principî della coesistenza pacifica: 1) rispetto reciproco per l'integrità e la sovranità territoriale; 2) non aggressione; 3) non interferenza reciproca negli affari interni; 4) eguaglianza e benefici reciproci; 5) coesistenza pacifica.
In questi principî - presi alla lettera, così come sono formulati nel trattato cino-indiano - non c'è nulla che si possa interpretare come una speranza di liberazione per i popoli coloniali, speranza che anzi dovrebbe presumersi soffocata se il rispetto dell'integrità territoriale degli Stati si estendesse all'integrità territoriale delle loro colonie, o se si considerasse come un'aggressione contro la metropoli l'aiuto fornito ai popoli che lottano per l'indipendenza. Il principio di eguaglianza, invece, è suscettibile di essere esteso dagli Stati ai popoli; esso diventa quindi un possibile punto di partenza per promuovere l'indipendenza dei popoli ancora soggetti.
Il fatto decisivo è che, negli anni successivi, i Cinque principî saranno accolti in parecchi accordi internazionali bilaterali e multilaterali; tra gli ampliamenti quasi sempre aggiunti al testo originario figura la proclamazione del diritto dei popoli all'autodeterminazione e la condanna del colonialismo.
Nel sesto decennio del secolo ha inizio un azione con- giunta dei paesi afroasiatici, che si delinea in una Conferenza tenuta a Colombo nel 1954 con la partecipazione dell'India, del Pākistan, di Ceylon, Indonesia e Birmania. A onta delle loro diversità in materia di politica internazionale, tutti questi Stati, a parte altri punti di convergenza, furono d'accordo nel condannare il colonialismo e nel richiedere al governo indonesiano di convocare, sul suo territorio, una conferenza dei popoli afroasiatici.
La conferenza progettata si riunì a Bandung dal 18 al 24 aprile 1955: erano presenti le delegazioni di ventinove paesi che, insieme, contavano più di un miliardo di uomini. Non c'erano legami né di razza né di lingua né di religione che unissero paesi tanto diversi, e neppure una politica internazionale comune, se si pensa che, accanto alla Cina e al Nordvietnam (socialisti), stavano le Filippine, il Pākistan, l'Irān e l'‛Irāq, vincolati a patti di difesa anticomunista; cionondimeno, completa fu la convergenza di vedute in tutto quanto riguardasse il rifiuto del colonialismo.
A parte qualche allusione - straordinariamente vaga, ma certamente riguardante la propaganda comunista - alla condanna di ‟qualsiasi forma di discriminazione, infiltrazione e sovversione", riguardo al colonialismo ‛classico' la risoluzione approvata così si esprimeva: ‟La Conferenza afroasiatica, nelle sue deliberazioni circa i problemi dei popoli soggetti e del colonialismo, e tenendo presenti i mali e i pericoli impliciti nella situazione di soggezione alla dominazione straniera, della quale alcuni popoli sono vittime, ha convenuto: 1) che il colonialismo è un male, cui si deve sollecitamente porre fine; 2) afferma che la soggezione dei popoli alla dominazione e allo sfruttamento da parte di potenze straniere rappresenta una flagrante negazione dei diritti dell'uomo, è contraria alla Carta delle Nazioni Unite e costituisce un ostacolo a una solida fondazione della cooperazione e della pace fra tutti i paesi del mondo; 3) dichiara il suo pieno appoggio e la sua simpatia per la causa della libertà e dell'indipendenza dei popoli; 4) fa appello a tutte le potenze interessate perché garantiscano la concessione, a breve scadenza, dell'indipendenza nazionale e della libertà politica ai popoli soggetti".
A questa dichiarazione di carattere generale, altre se ne aggiungono che si riferiscono in modo specifico al diritto alla piena indipendenza che hanno i popoli d'Algeria, Marocco e Tunisia, paesi dei quali si fa cenno anche in un altro paragrafo del comunicato finale della Conferenza per dichiarare che in essi il colonialismo non soltanto non favorisce ma impedisce la cooperazione culturale, soffocando inoltre le manifestazioni della cultura nazionale. Nel medesimo comunicato non manca un altro cenno ai diritti dell'Indonesia sulla Nuova Guinea, così come ai diritti dello Yemen su Aden e sui territori che ora costituiscono la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen.
Queste dichiarazioni sono completate da una riconferma dei Cinque principî, con l'aggiunta del ‟rifiuto assoluto di partecipare ad accordi internazionali od organizzazioni di difesa collettiva, il cui scopo principale sia il rafforzamento degli interessi particolari di una qualsiasi delle grandi potenze; la posizione anticolonialista e quella neutralista, dunque, rimangono strettamente associate".
Con la prospettiva storica che il ventennio trascorso ci fornisce, possiamo oggi vedere nella Conferenza di Bandung una sfida dei popoli di colore alle potenze al cui dominio la maggioranza di loro erano stati soggetti, e che ancora conservavano molte delle loro posizioni coloniali. La Radio Vaticana disse in quei giorni che un nuovo capitolo era stato aperto nella storia del mondo (v. Martin de la Escalera, 1959, pp. 93-103), e gli eventi successivi avrebbero confermato questo giudizio.
Se tra le delegazioni presenti a Bandung ce n'era una che poteva sentirsi più occidentalista delle altre, questa era la delegazione filippina; eppure una delle più entusiastiche apologie degli accordi di Bandung la troviamo in un libro del generale Rómulo, rappresentante filippino alla Conferenza (v. Rómulo, 1956, passim).
Negli Stati Uniti la Conferenza di Bandung non suscitò alcun malcontento, come provano gli aiuti economici concessi a parecchi degli Stati partecipanti. Produsse soddisfazione, tra l'altro, la presenza di Chou En-lai, caratterizzata dal suo atteggiamento moderato - non opposto al neutralismo dominante nella Conferenza - che offriva il vantaggio di non trascinare nell'orbita comunista popoli suscettibili di entrarvi. Neppure riguardo al colonialismo c'erano da temere ripercussioni sgradevoli a Washington, giacché, se una qualche censura si era ascoltata a Bandung nei confronti degli Stati Uniti, era per aver contribuito a mantenere, per azione o per omissione, gli imperi coloniali dei paesi europei.
Dopo Bandung l'offensiva contro il colonialismo - sia dentro che fuori dell'ONU - è stata guidata, com'era naturale, dai paesi afroasiatici. Un osservatore autorevole, Farajallah (v., 1963, pp. 4-6) qualifica la loro unione come ‛gruppo' anziché come ‛blocco', volendo con ciò intendere che la loro aggregazione non è sufficientemente compatta perché agiscano con criteri unitari nelle questioni più importanti, specialmente nei confronti delle due superpotenze; per tutto quanto riguarda l'anticolonialismo, invece, l'unità è incrinata soltanto da divergenze secondarie nelle posizioni dei vari Stati afroasiatici: le uniche differenze, riguardando semplicemente la maggiore o minore virulenza dell'atteggiamento anticolonialista, non hanno altra conseguenza che una diversità di desideri circa l'accelerazione da imprimere al processo di emancipazione coloniale.
I paesi africani e asiatici, dopo Bandung, moltiplicano i contatti reciproci. Una conferenza di popoli dei due continenti è tenuta al Cairo dal 26 al 31 dicembre 1957. Priva di carattere ufficiale, a essa partecipano enti e associazioni private di ventiquattro paesi; tuttavia alcune delle delegazioni piu importanti - come quella indiana, quella egiziana e quella indonesiana - sono presiedute dai rispettivi capi di Stato o di governo e, ancora una volta, la principale rivendicazione è rappresentata da una sollecita fine del colonialismo.
Seguono poi conferenze limitate ai paesi africani. Su iniziativa di Nkrumah si riuniscono per la prima volta, ad Accra dal 15 al 22 marzo 1958, gli Stati indipendenti del continente nero: Etiopia, Ghana, Liberia, Libia, Marocco, Repubblica Araba Unita, Sudan e Tunisia; sono anche presenti delegazioni di sei movimenti di liberazione di altrettanti paesi non ancora indipendenti. Frutto della conferenza è una risoluzione sulla ‛personalità africana', che ha il duplice scopo di spingere i popoli del continente a un'azione concertata in materia di politica internazionale, caratterizzata dall'indipendenza nei confronti dei blocchi politici e militari creati in altre regioni del globo, e di ribadire l'opposizione alla conservazione del regime coloniale là dove esso ancora sopravvive.
La seconda Conferenza di Accra, tenuta dal 3 al 13 dicembre dello stesso anno, riunisce nuovamente le delegazioni dei paesi africani indipendenti (con rappresentanti dei movimenti di liberazione di altre regioni del continente), e ancora una volta condanna l'imperialismo e il colonialismo in tutte le loro forme (v. Farajallah, 1963, pp. 65 ss.).
In queste conferenze, come in altre tenute negli anni immediatamente successivi e circa le quali sarebbe inutile scendere nei particolari, si delineano, tra i paesi africani, due posizioni diverse nei confronti del colonialismo: una più moderata, sostenuta dalla Nigeria, e un'altra più radicale, sostenuta dal Ghana e dalla Guinea.
Ci avviciniamo così al momento in cui, dopo l'ingresso in massa degli Stati africani all'ONU, l'Assemblea generale si accinge ad approvare la risoluzione 1.514 (XV): quella fondamentale in materia di decolonizzazione. Prima di addentrarci nell'esame di questo testo, è opportuno volgere lo sguardo indietro per ricapitolare brevemente i progressi compiuti dal processo di decolonizzazione sino a quel momento.
Il fenomeno di acquisizione dell'indipendenza da parte di nuovi Stati ha inizio, quasi subito dopo la seconda guerra mondiale, in Estremo Oriente. In questa regione del globo, nella quale c'era un solo Stato sovrano - il Siam (poi chiamato Thailandia) - l'occupazione militare giapponese aveva suscitato aneliti di emancipazione, acuiti sia dalle promesse delle potenze metropolitane e degli Stati Uniti sia dall'antieuropeismo fomentato dagli occupanti.
Il governo britannico, che nel 1942 si era rifiutato di concedere l'indipendenza immediata all'India, s'impegnò a concederla una volta finita la guerra. I negoziati furono laboriosi; li rendeva difficili la dualità esistente tra l'India, colonia britannica, e gli Stati retti da principi soggetti al protettorato inglese. Nel 1946 il viceré lord Wawell poté designare un governo provvisorio e indire le elezioni per un'Assemblea costituente. Il 19 aprile 1947 viene accettata dal Partito del Congresso, e approvata dal nuovo viceré lord Mountbatten, la separazione del Pākistan dall'India e, dopo varie vicissitudini, entrambi i paesi accettano lo status di dominions britannici, mentre Giorgio VI rinunciava al suo titolo di Imperatore delle Indie (v. Duroselle, 1971, pp. 520-521).
Dopo la fine dell'occupazione giapponese, i movimenti nazionalisti birmani chiesero l'indipendenza. Il 17 maggio 1945 il governo britannico pubblicò un ‛libro azzurro', nel quale si manifestava il proposito di conferire al paese lo status di dominion. Nel gennaio 1947, su iniziativa di Attlee, ebbe luogo a Londra un incontro con i capi politici birmani, il quale si concluse con un accordo per l'elezione di un parlamento che elaborasse una Costituzione. Approvata la Costituzione il 25 settembre, il 17 ottobre un trattato anglo-birmano riconosceva l'indipendenza del paese, che cessava di appartenere al Commonwealth (ibid., pp. 523-525).
Alle Filippine, anch'esse occupate dal Giappone durante la seconda guerra mondiale, l'indipendenza era stata promessa dal Tydings McDuffie act del 1935, e fu effettivamente conseguita il 4 luglio 1946 (ibid., p. 526).
Per quanto riguarda l'Indonesia, la regina Guglielmina d'Olanda aveva promesso, il 6 dicembre 1942, la creazione di un Commonwealth olandese, destinato a comprendere anche la Guiana e Curaçao, nel quale ciascun membro avrebbe goduto di libertà d'azione in politica estera. Finita la guerra, i nazionalisti indonesiani rifiutarono questo piano, che le autorità olandesi continuavano invece a difendere. Una commissione parlamentare dei Paesi Bassi fu inviata a Giava per negoziare con i nazionalisti, con i quali concluse gli accordi di Linggadjati e di Creribon: l'Olanda riconosceva de facto l'autorità della Repubblica indonesiana sulla maggior parte di Giava, Madura e Sumatra come primo passo verso la costituzione di una Federazione nella quale dovevano entrare il Borneo e il ‛Grande oriente'; al di sopra di questa federazione, vi sarebbe stata una federazione olandese-indonesiana. Anche questo piano fallì e, dopo varie vicende, il Consiglio di sicurezza elaborò un nuovo piano, che prevedeva la trasmissione dei poteri agli Stati Uniti di Indonesia entro il primo luglio 1950. Dopo una conferenza tenuta all'Aia dal 23 agosto al 2 novembre 1949, la regina Giuliana firmò il 27 dicembre il trasferimento dei poteri alla Repubblica indonesiana la quale, con la scomparsa dell'Unione olandese-indonesiana, non avrebbe tardato a perdere la sua struttura federale (ibid., pp. 526-530).
Più complesso e drammatico fu il processo di decolonizzazione in Indocina, divisa nel Vietnam (protettorati francesi del Tonchino e dell'Annam) e nella Cocincina (colonia francese), e integrata dai territori del Laos e della Cambogia. Terminata l'occupazione giapponese, parte del paese riconosceva il governo del Viet Minh, insediato a Hanoi. Il governo francese riconobbe l'autonomia, nel quadro dell'Unione francese, dei governi che si formarono in Cambogia e in Laos. Riguardo al Vietnam, l'accordo con Ho Chi Minh risultò più difficile; scoppiò quindi la guerra, che per la Francia terminò con l'armistizio firmato a Ginevra il 20 luglio 1954. Dall'armistizio nacquero gli Stati della Cambogia, del Laos e del Vietnam, il quale ultimo fu teatro di una nuova e assai più lunga e sanguinosa guerra dopo l'intervento degli Stati Uniti (ibid., pp. 530-533 e 672-678).
Della decolonizzazione di Ceylon, trasformato in dominion britannico il 4 febbraio 1948, ci limiteremo a far menzione. Il nuovo Stato di Israele si caratterizzò per la particolare circostanza di dovere la sua origine alla spartizione dell'ex mandato della Palestina. Nella spartizione, decisa dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 29 settembre 1947, trova la sua radice il conflitto con gli Stati arabi, rimasto dopo di allora una delle più serie cause di tensione internazionale.
Negli anni successivi l'ondata decolonizzatrice toccava i paesi dell'Africa settentrionale. Mancando un accordo tra le grandi potenze, l'Assemblea generale, incaricata di decidere il destino delle colonie italiane, dichiarò la Libia Stato sovrano e indipendente con la risoluzione del 21 novembre 1949. Il desiderio d'indipendenza non doveva tardare a estendersi sia alla Tunisia (protettorato francese) che all'Algeria (che aveva lo status di parte integrante della metropoli) e al Marocco, diviso in due zone, soggette rispettivamente al protettorato francese e a quello spagnolo.
Nel frattempo il Sudan - ex condominio anglo-egiziano - aveva raggiunto l'indipendenza l'1 gennaio 1956. Il Sudan aveva attraversato un periodo di transizione durante il quale i due Stati condomini avevano concesso gradualmente l'autonomia e il diritto all'autodeterminazione, nella previsione che tale diritto sarebbe stato esercitato a favore dell'Egitto; sennonché, dopo l'avvento di Nasser, l'opinione pubblica sudanese si evolse nel senso di preferire la piena indipendenza.
Il Marocco attraversò una profonda crisi dopo la deposizione, a opera dei Francesi, del sultano Moḥammed ben Yūsuf, sostituito dallo zio Moḥammed ben ‛Arafa nel 1953. Reintegrato sul trono ben Yūsuf due anni più tardi, il trattato franco-marocchino del 2 marzo 1956 e quello ispano-marocchino del 7 aprile dello stesso anno riconoscevano l'indipendenza del Marocco: secondo l'uno di questi trattati, l'indipendenza del nuovo Stato doveva conciliarsi con la sussistenza di speciali legami con la Francia; secondo l'altro, il Marocco doveva ricevere l'assistenza spagnola, mentre la città di Tangeri, sin allora soggetta a regime internazionale, era riassorbita nel nuovo Stato.
L'indipendenza tunisina fu dovuta all'azione del partito del Neo-Destur, diretto da Burghiba. Nel 1954 il governo francese annunciò il proposito di concedere l'autonomia al protettorato, proposito ufficializzato in un trattato dell'anno seguente; sennonché l'indipendenza marocchina incoraggiò i Tunisini a maggiori rivendicazioni, sino a che la Francia riconobbe l'indipendenza del paese il 15 giugno 1956. Nel territorio marocchino rimasero forze francesi, che agli inizi del 1958 provocarono l'incidente di Sakied Sīdī-Yūsuf, che fu risolto grazie ai buoni uffici dell'americano Murphy e dell'inglese Heeley, i quali facilitarono un accordo per l'evacuazione delle forze francesi.
In Algeria, considerata dalla Francia parte del territorio metropolitano, l'insurrezione per la liberazione nazionale scoppiò nel 1954. L'atteggiamento francese oscillò tra la repressione violenta e la tolleranza. Un movimento di francesi intransigenti effettuò il putsch del 13 maggio 1958, in seguito al quale i poteri sull'Algeria furono assunti dal generale Salan. Il risultato del putsch fu di chiamare al governo il generale de Gaulle che, dopo le dimissioni di R. Coty, doveva diventare il presidente della V Repubblica francese.
6. La decolonizzazione dell'Africa Nera e dell'Algeria
Come in altre regioni del globo, i movimenti di liberazione nell'Africa Nera cominciarono subito dopo la seconda guerra mondiale. La loro vittoria assunse caratteristiche diverse a seconda che si trattasse di dipendenze inglesi o francesi o belghe: tutte raggiunsero però l'emancipazione tra il 1957 e il 1964. Soltanto nelle dipendenze portoghesi e spagnole la decolonizzazione doveva verificarsi con maggiore ritardo.
Per la mentalità britannica, la decolonizzazione era un processo lento, per il quale esisteva già il precedente delle colonie di razza bianca, trasformate in dominions attraverso la concessione graduale di certe sfere di autonomia.
Appunto questo sistema fu adoperato in Africa. La prima colonia che rivendicò l'emancipazione fu la Costa d'Oro (Gold Coast), nella quale un professore cattolico, Kwame Nkrumah, si era posto a capo di un movimento nazionalista. Ottenuto il self-government nel 1950, le prime elezioni diedero la maggioranza al partito di Nkrumah, che divenne capo del governo. Nonostante certe resistenze all'interno del paese, la colonia ricevette il 6 marzo lo status di dominion con il nome di Ghana, e poco dopo la parte britannica del Togo s'incorporava nel nuovo Stato: primo dominion britannico popolato da gente di colore.
Una via analoga verso l'indipendenza - anche se più complessa a causa della divisione della popolazione in razze, lingue e religioni diverse - fu seguita dalla Nigeria. Ottenuto un sistema di autogoverno nel 1951, la Nigeria si diede tre anni più tardi una costituzione federale, e acquisì l'indipendenza l'1 ottobre 1960.
La Sierra Leone ricevette l'indipendenza il 27 aprile 1961.
Nell'Africa Orientale Inglese la decolonizzazione si scontrò con maggiori difficoltà, dovute all'esistenza, accanto alla maggioranza negra, di numerosi coloni bianchi, nonché di commercianti arabi o indiani nelle regioni costiere. Nel Tanganica, che era stata colonia tedesca e mandato internazionale - e infine affidata in amministrazione fiduciaria all'Inghilterra - fu istituito un governo autonomo nel 1960, e l'anno successivo era proclamata l'indipendenza all'interno del Commonwealth.
In Kenya, accanto al movimento diretto da Kenyatta, operò un altro movimento più estremista, i Mau Mau, che ricorse a metodi terroristici. Nel 1958 gli Inglesi concessero una Costituzione, mentre l'indipendenza non fu raggiunta sino al 12 dicembre 1963. Parallelamente, l'Uganda entrò nel Commonwealth come paese indipendente il 9 dicembre 1962.
L'isola di Zanzibar, anch'essa di popolazione mista, fu guidata alla liberazione da un movimento filocinese, che riuscì a impadronirsi del potere. Il 22 aprile 1964 fu costituita una repubblica unita del Tanganica e Zanzibar, che prese il nome di Tanzania.
Nell'Africa del Sud-Est, i fatti più gravi si verificarono nella Rhodesia meridionale, dove la minoranza bianca impose un governo diretto da J. Smith, il quale nel 1964 proclamò unilateralmente l'indipendenza dalla Gran Bretagna, mentre la Rhodesia settentrionale si emancipava con il nome di Zambia e il Niassa con il nome di Malawi.
Diversamente dal sistema britannico del ‛caso per caso', nelle dipendenze francesi la decolonizzazione fu attuata sulla base di norme generali. Nella costituzione del 1946, le colonie dell'Africa Nera e del Madagascar si trasformarono in ‛Territori d'Oltremare', mentre gli ex mandati francesi del Camerun e del Togo acquisirono il regime che nel testo francese della Carta delle Nazioni Unite viene chiamato tutelle. In tutti questi territori operavano movimenti di liberazione di assai diversa intensità e violenza.
Con l'ascesa di de Gaulle al potere, gli insegnamenti tratti dalle guerre d'Indocina e d'Algeria indussero a cercare una formula diversa, consistente nella concessione di un'indipendenza compatibile con il mantenimento di vincoli che stabilissero una cooperazione con la Francia. La Costituzione del 1958 sostituiva l'Unione francese della Costituzione del 1946 con la ‛Comunità francese', nella quale ciascuna dipendenza doveva entrare liberamente, facendo uso del proprio diritto di autodeterminazione. Nel plebiscito del 28 settembre 1958 un solo territorio, la Guinea, si pronunciò per l'indipendenza, che ottenne immediato riconoscimento. Le altre dipendenze francesi votarono per l'adesione alla Comunità francese, presieduta dal presidente della Repubblica francese; esse avrebbero avuto dei rappresentanti in Senato e avrebbero conservato il diritto di secessione. Questa situazione si dimostrò però scarsamente stabile: cominciò la repubblica del Mali, che chiese un trasferimento di competenze (concessogli nel 1960); l'esempio fu seguito dagli altri paesi della Comunità, e nello stesso anno ottennero l'indipendenza il Madagascar, il Congo, il Gabon, la Repubblica Centroafricana, il Ciad, la Costa d'Avorio, il Dahomey, l'Alto Volta, il Niger e la Mauritania.
In quanto al Togo e al Camerun, il primo raggiunse l'indipendenza il 24 aprile 1960, e il secondo - al quale si aggregò sotto forma di federazione una parte dell'ex Camerun britannico - l'1 gennaio dello stesso anno (v. Duroselle, 1971, pp. 692-696).
Per quanto riguarda il Belgio, esso aveva - oltre al Congo, ex proprietà del re Leopoldo II e da questi lasciata in eredità al suo paese - gli ex mandati e poi amministrazioni fiduciarie del Ruanda e Urundi. Nel Congo il movimento nazionalista si scontrava con l'arretratezza in cui i colonizzatori belgi avevano lasciato la popolazione. Dopo che i territori vicini ebbero raggiunta l'indipendenza, la situazione si fece insostenibile, e alla repressione violenta delle autorità belghe seguì il 1° gennaio una dichiarazione di re Baldovino, nella quale il sovrano affermava la necessità di guidare la popolazione congolese verso l'indipendenza. Nella Tavola Rotonda tenuta a Bruxelles nel gennaio 1960 ci si accordò; come primo passo, sull'emanazione di una legge fondamentale per il Congo, che prevedeva un Parlamento bicamerale. Ma gli avvenimenti precipitarono e il 30 giugno 1960, alla presenza di re Baldovino, fu proclamata a Léopoldville l'indipendenza del territorio. Non è questa la sede per riferire i fatti, per tante ragioni dolorosi, che seguirono alla dichiarazione d'indipendenza.
Alla decolonizzazione del Congo doveva seguire quella dei territori del Ruanda e Urundi. Entrambi conseguirono l'indipendenza l'1 luglio 1962, rispettivamente come Repubblica di Ruanda e come Regno di Burundi.
Anche se non fa parte dell'Africa Nera, non possiamo non accennare al processo che condusse all'indipendenza dell'Algeria. Il generale de Gaulle, che i suoi fautori e la maggioranza dell'esercito avevano portato al potere nella speranza che si sarebbe dimostrato l'unico uomo capace di conservare l'‛Algeria francese', mantenne sin dall'inizio un atteggiamento abbastanza equivoco: egli proponeva cioè la riconciliazione di Algerini e Francesi attraverso la reciproca assimilazione. Un anno dopo, il presidente francese dichiarava che il suo scopo fondamentale era anzitutto il conseguimento della pace, dopodiché il popolo algerino avrebbe avuto la possibilità di decidere del suo destino, scegliendo fra tre opzioni possibili: mantenimento del carattere francese dell'Algeria, indipendenza o una soluzione intermedia costituita dall'autonomia accompagnata dall'associazione con la metropoli. Sennonché, non soltanto il Fronte di Liberazione Nazionale (F.L.N.) non depose le armi, ma i coloni francesi organizzarono un Fronte Nazionale Francese, che si rese responsabile di numerosi atti di violenza. L'8 gennaio 1961 de Gaulle convocò un referendum con il quale chiedeva la fiducia per risolvere nel miglior modo possibile il problema algerino; il referendum diede il 75% di voti favorevoli in Francia e il 65% in Algeria, dove si trattava però nella quasi totalità di votanti musulmani. Seguì un nuovo putsch militare, che fallì nella notte dal 21 al 22 aprile 1961.
Furono allora avviati, a Evian, negoziati con l'F.L.N., che sul momento non diedero risultati, ma, ripresi l'anno successivo, portarono alla firma, il 18 marzo 1962, degli Accordi di Evian, i quali prevedevano un referendum in Algeria per l'1 luglio, non senza la previa convocazione di un altro referendum in Francia avente per oggetto gli Accordi stessi. Com'era da attendersi, il referendum ebbe esito positivo sia in Francia che in Algeria, e l'indipendenza algerina fu immediatamente riconosciuta.
7. La Dichiarazione sulla concessione dell'indipendenza ai paesi e ai popoli coloniali; la risoluzione 1.514 (XV) dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite
Almeno sotto il profilo giuridico, il momento culminante del processo di decolonizzazione è rappresentato dall'approvazione della menzionata risoluzione il 14 dicembre 1960. La sua importanza teorica e pratica è tale da meritare, compatibilmente con gli scopi di questo articolo, uno studio il più possibile particolareggiato; e, a questo proposito, è opportuno, per maggior chiarezza, esaminare separatamente l'origine della risoluzione, il suo contenuto e le conseguenze che ne sono derivate.
a) Genesi della risoluzione
Nel 1960, quando si aprì la XV sessione dell'Assemblea generale, vari fattori contribuivano a porre in primo piano il problema della decolonizzazione: l'indipendenza di vari territori africani e il loro ingresso all'ONU, i fatti del Congo, nonché gravi questioni aperte come quella algerina.
L'ammissione - all'inizio della sessione - di sedici nuovi membri (tutti africani tranne Cipro) sopravveniva a mutare l'equilibrio sino allora esistente nell'ONU tra i vari gruppi di Stati. D'altra parte, dopo una fase di distensione nelle relazioni russo-americane, contrassegnata dallo ‛spirito di Camp David' (dal nome della località in cui si erano incontrati l'anno precedente Eisenhower e Chruščëv), l'increscioso incidente dell'aereo americano U2 abbattuto in territorio sovietico ebbe come conseguenza che il segretario del Partito Comunista russo, recatosi il 16 maggio a Parigi all'incontro convenuto con Eisenhower, de Gaulle e Mac Millan, abbandonava la riunione, con il risultato di rinnovare così la tensione.
Prima che la rinnovata tensione si dissipasse, la sessione dell'Assemblea generale offriva ai Sovietici l'occasione più propizia per intensificare la loro propaganda nei confronti dei paesi del Terzo Mondo, e per farlo proprio nell'Assemblea generale, nella quale i loro voti sarebbero stati in futuro assai spesso decisivi. Aperta l'Assemblea, dopo un discorso di Eisenhower diretto a sollecitare uno sforzo per aiutare economicamente i paesi di nuova indipendenza, Chruščëv inviò al presidente dell'Assemblea una lettera nella quale sollecitava l'iscrizione all'ordine del giorno della ‛Dichiarazione sulla concessione dell'indipendenza ai paesi e popoli coloniali', e vi allegava una memoria esplicativa e un progetto di dichiarazione (v. Barbier, 1974, pp. 18-19). Inoltre lo statista russo, in un discorso pronunciato il 23 settembre durante la discussione generale, collegava il tema della decolonizzazione con quelli del disarmo e della riforma dell'ONU.
Le reazioni all'iniziativa sovietica furono assai disparate: ostili quelle dei paesi occidentali, che qualificavano l'iniziativa come uno strumento propagandistico, e al contempo denunciavano il particolare tipo di colonialismo che la Russia esercitava su altri popoli; favorevoli quelle dei paesi socialisti e di alcuni paesi afroasiatici (‛Irāq, Congo-Brazzaville e Guinea) e di attesa da parte di tutti gli altri. In ogni modo, la sorpresa causata dall'iniziativa sovietica ebbe il risultato di far respingere la proposta britannica di rimettere il problema alla Prima commissione, incaricata delle questioni politiche e attinenti alla sicurezza, e di ottenere quindi che il problema fosse discusso in seduta plenaria.
Le tre posizioni più importanti (v. Barbier, 1974, pp. 43 ss.) risultarono essere quella russa (espressa da V. A. Zorin), che chiedeva la soppressione totale e immediata del colonialismo, quella inglese (espressa da D. Ormsby-Gore), che manifestava preoccupazioni per la sorte dei popoli ai quali si concedesse l'indipendenza prematuramente, e quella degli Stati afroasiatici, i quali presentarono un progetto che doveva servire come base per la risoluzione definitivamente approvata.
La proposta russa prevedeva i seguenti punti: ‟1) concedere immediatamente a tutti i paesi coloniali, territori in amministrazione fiduciaria e territori non autonomi la piena indipendenza e la libertà di edificare un proprio Stato nazionale in conformità con la volontà e le aspirazioni liberamente espresse dai rispettivi popoli. Il regime coloniale e l'amministrazione coloniale debbono essere interamente soppressi, allo scopo di consentire ai popoli di questi territori la libera decisione del proprio destino e del proprio regime politico; 2) eliminare parimenti tutti i punti di sostegno del colonialismo, vale a dire le aree e le zone controllate in territorio straniero; 3) i governi di tutti i paesi sono invitati a osservare rigorosamente, nelle relazioni tra Stati, le disposizioni della Carta delle Nazioni Unite e della presente Dichiarazione riguardanti il rispetto e l'uguaglianza dei diritti sovrani, l'integrità territoriale di tutti gli Stati senza eccezione, e a non consentire alcuna manifestazione di colonialismo, nessun diritto o privilegio esclusivo di certi Stati a detrimento di altri Stati".
Apertasi la discussione generale, la proposta russa fu osteggiata da parecchie delegazioni, incluse alcune del Terzo Mondo. Fu invece accolta favorevolmente la proposta di 43 Stati afroasiatici, la quale non incontrò opposizioni frontali, ma suscitò tutt'al più allusioni, come quella dell'argentino M. Amadeo, a ‟forme di oppressione politica sotto cui vivono milioni di uomini in Europa e in Asia".
Ritirato un emendamento dell'Honduras, nel quale si faceva esplicitamente menzione dei territori colonizzati esistenti in America, la delegazione sovietica presentò un altro emendamento al progetto afroasiatico, in cui si invitavano tutte le potenze interessate ad assicurare in tutti i territori dipendenti la trasmissione del potere e della sovranità al popolo, nonché a intavolare negoziati con i rappresentanti dei popoli coloniali, eletti a suffragio universale, affinché tutti questi popoli potessero conseguire l'indipendenza entro il 1961; al contempo, si invitava la futura Assemblea a verificare l'applicazione di questo progetto di risoluzione.
Messi in votazione i vari testi presentati, il progetto sovietico fu respinto con 32 voti a favore, 35 contro e 30 astensioni. I due emendamenti sovietici al progetto dei paesi afroasiatici furono anch'essi respinti - non raggiungendo se non, rispettivamente, 29 e 35 voti a favore - mentre il progetto dei 43 paesi afroasiatici fu approvato con 89 voti favorevoli e 9 astensioni (Portogallo, Spagna, Unione Sudafricana, Regno Unito, Stati Uniti, Australia, Belgio, Repubblica Dominicana e Francia).
b) Contenuto della Dichiarazione
Omettendo per brevità l'ampio preambolo, il dispositivo della risoluzione 1.514 (XV) recita: ‟L'Assemblea generale [...] proclama solennemente la necessità di porre rapidamente fine al colonialismo in tutte le sue forme e in tutte le sue manifestazioni; e a questo fine, dichiara quanto segue: 1) la soggezione dei popoli a un giogo, a una dominazione o a uno sfruttamento straniero costituisce una negazione dei diritti fondamentali dell'uomo, contraddice alla Carta delle Nazioni Unite e compromette la causa della pace e della cooperazione internazionale; 2) tutti i popoli hanno il diritto all'autodeterminazione e, in virtù appunto di tale diritto, decidono liberamente il proprio status politico e perseguono liberamente il proprio sviluppo economico, sociale e culturale; 3) la mancanza di preparazione in campo politico, economico e sociale non deve essere mai assunta come pretesto per ritardare l'indipendenza; 4) si porrà fine a qualsiasi intervento armato o a qualsiasi misura repressiva diretta contro i popoli soggetti, onde consentir loro di esercitare liberamente e pacificamente il proprio diritto alla piena indipendenza, e dovrà essere inoltre rispettata l'integrità del loro territorio; 5) nei territori in amministrazione fiduciaria, nei territori non autonomi e in ogni altro territorio che non abbia conseguito l'indipendenza saranno prese misure immediate, miranti a trasferire tutti i poteri ai popoli di questi territori, senz'alcuna condizione né riserva, in conformità con la loro volontà liberamente espressa e senz'alcuna distinzione di razza, fede o colore, e ciò allo scopo di consentire a questi popoli il godimento di una piena indipendenza e libertà; 6) qualsiasi tentativo diretto a distruggere totalmente o parzialmente l'unità nazionale e l'integrità territoriale di un paese è incompatibile con i fini e i principî delle Nazioni Unite; 7) tutti gli Stati debbono osservare fedelmente e rigorosamente le disposizioni della Carta delle Nazioni Unite, della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e della presente Dichiarazione su una base di uguaglianza, di non intromissione negli affari interni degli Stati e di rispetto dei diritti sovrani e dell'integrità territoriale di tutti gli Stati".
La risoluzione 1.514 (XV) è degna di commento sotto vari profili. Politicamente, potrebbe costituire ragione di sorpresa il fatto che nessuno Stato membro dell'ONU abbia votato contro, come anche lo scarso numero di astensioni. Era spiegabile l'astensione americana, alla vigilia delle elezioni americane dalle quali doveva uscire il successore di Eisenhower e tenuto conto che la delegazione americana non poteva né votare contro la risoluzione - si sarebbe così allontanata da una linea di comportamento costantemente seguita - né a suo favore, giacché avrebbe così dimostrato, una volta di più, di andare a rimorchio di un'iniziativa sovietica.
Vista in relazione a quest'ultima, la risoluzione approvata è abbastanza moderata, poiché non fissa una scadenza perentoria per la liberazione delle colonie esistenti, né d'altra parte collegava la decolonizzazione con la questione delle basi militari in territorio straniero. Non si può tuttavia disconoscere che nella risoluzione 1.514 non mancano elementi abbastanza radicali, come per esempio la dichiarazione dell'impossibilità di addurre come pretesto per ritardare la decolonizzazione la mancanza di preparazione - in qualsivoglia campo - dei popoli che la richiedono: punto, questo, sufficiente a spiegare l'astensione degli Stati Uniti.
Le repubbliche americane - con l'eccezione di Santo Domingo - votarono invece a favore della risoluzione, non senza che parecchi loro delegati formulassero espressioni di condanna - chiaramente rivolte all'Unione Sovietica - nei confronti di forme di dominazione riscontrabili fuori dell'ambito coloniale.
Dal punto di vista giuridico - senza addentrarci per il momento nel problema capitale dell'obbligatorietà della risoluzione per gli Stati e della sua incorporazione nel diritto internazionale - non è necessario indugiare sul Preambolo, giacché esso si limita a rammentare i principî giuridici e politici contenuti nella Carta delle Nazioni Unite e in precedenti risoluzioni dell'Assemblea. Basterà perciò una brevissima analisi del dispositivo della risoluzione.
Il primo paragrafo è interessante da due punti di vista. Da una parte, perché l'oggetto della sua condanna non è la colonizzazione (concetto sufficientemente chiaro) ma, in forma più ampia, ogni forma di sottomissione, dominazione o sfruttamento di un popolo da parte di una potenza ‛straniera'. Una simile latitudine concettuale va assai al di là della rivendicazione d'indipendenza politica da parte dei popoli soggetti alle menzionate forme di oppressione, e consente di annoverare sotto la nozione di attività condannabile ogni sorta d'intervento straniero - sia esso opera di Stati o di privati - che implichi una restrizione della sovranità economica degli Stati, vale a dire del loro diritto (che sarebbe stato di lì a poco proclamato dall'Assemblea) di disporre delle proprie ricchezze e risorse naturali.
Da un altro punto di vista, il primo paragrafo della risoluzione collega una volta di più il diritto dei popoli all'autodeterminazione con la possibilità che gli individui che li compongono conseguano un reale godimento dei diritti dell'uomo, e, facendo un altro passo innanzi, collega l'attuazione pratica della decolonizzazione con l'effettività della pace e della sicurezza internazionale, vale a dire con lo scopo principale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite.
Il paragrafo fondamentale della risoluzione 1.514 è il secondo, il quale, se non è interamente nuovo - essendo da vari anni in via di elaborazione presso diversi organi dell'ONU - contrasta sotto certi aspetti con il diritto internazionale classico.
Anzitutto, il diritto di autodeterminazione viene attribuito al ‛popolo' (concetto poco preciso), che da questo momento deve essere considerato, con riguardo appunto alla sua facoltà di autodeterminazione, come un possibile soggetto del diritto internazionale. Risoluzioni successive attribuiranno ai ‛popoli' altri diritti, come quello di sovranità permanente sulle proprie ricchezze e risorse naturali e il diritto allo sviluppo economico, sociale e culturale. Sino a che la decolonizzazione non abbia avuto termine, il ‛popolo' è qualcosa di diverso dallo Stato, come soggetto normale del diritto internazionale, in quanto costituisce un raggruppamento di uomini che rivendica la possibilità di costituirsi in Stato. Non si può però pensare che, eliminata l'ultima colonia, il concetto di ‛popolo' in quanto titolare del diritto di autodeterminazione cessi per questo di porre problemi. Per la Gran Bretagna, la popolazione di Gibilterra costituisce un ‛popolo', il quale è bensì possessore del diritto di autodeterminazione, ma lo ha esercitato per decidere il mantenimento del suo vincolo con la ex metropoli. Dal punto di vista spagnolo, al contrario, gli abitanti della ‛Rocca' non costituiscono un ‛popolo', ma una ‛popolazione' precostituita dall'Inghilterra dopo aver espulso da Gibilterra i suoi antichi abitanti spagnoli.
Dopo aver indicato il titolare del diritto di autodeterminazione, la risoluzione precisa il contenuto di questo diritto: la libera determinazione dello status politico e il perseguimento, parimenti libero, dello sviluppo economico, sociale e culturale. Così precisato, il concetto di autodeterminazione presenta un risvolto giuridico singolare, giacché non soltanto è stato riaffermato dall'Assemblea generale in altre risoluzioni, ma - almeno in un'occasione - è stato esplicitamente ratificato dal Consiglio di sicurezza dell'Organizzazione, le cui decisioni, a norma dell'art. 25 della Carta, tutti gli Stati membri si sono impegnati ad accettare ed eseguire. La menzionata conferma da parte del Consiglio di sicurezza ebbe luogo il 31 luglio 1963, in occasione di uno dei vari incidenti prodotti dall'opposizione del Portogallo alla decolonizzazione dei suoi possedimenti di oltremare. Il Portogallo avanzava un concetto peculiarmente lusitano dell'autodeterminazione dei popoli, diverso da quello formulato dalla risoluzione 1.514. In quell'occasione, il Consiglio di Sicurezza non soltanto confermò la risoluzione citata, ma sostenne che ‟la politica del Portogallo, che spacciava i territori amministrati come territori ‛d'oltremare' e come parte integrante del Portogallo metropolitano, è contraria ai principî della Carta e alle risoluzioni dell'Assemblea generale e del Consiglio di sicurezza a questo riguardo".
Senza approfondire maggiormente questo punto - che non è altro che un aspetto particolare del grave problema posto dall'esistenza di un diritto internazionale della decolonizzazione, e con riguardo ai criteri da seguire per determinare quali risoluzioni dei vari organi dell'ONU abbiano un contenuto incorporato in detto diritto -, la questione essenziale è la connessione tra la libera determinazione dei popoli non ancora costituiti come Stati indipendenti e certe circostanze di fatto, diverse in ciascun caso, che dovranno necessariamente verificarsi insieme perché l'opzione esercitata sia considerata come conforme all'autentica volontà della comunità umana che l'ha espressa.
Il punto più rivoluzionario - e anche il più criticato - della risoluzione 1.514 (XV) è il terzo, nel quale si proclama che la mancanza di preparazione dei popoli non costituisce un pretesto accettabile per ritardarne l'indipendenza. Sembra difficile conciliare quest'affermazione con l'idea della sacra missione d'incivilimento che, tanto secondo il Patto della Società delle Nazioni che secondo la Carta delle Nazioni Unite, sono chiamate ad adempiere le potenze amministratrici di mandati, amministrazioni fiduciarie e territori non autonomi.
Uno dei delegati che votarono la risoluzione, l'uruguaiano Velázquez così spiegò i motivi di questo discusso paragrafo: ‟Anche se a prima vista può essere criticato, il paragrafo non può tuttavia essere considerato prescindendo dalle sue motivazioni di ordine politico e, soprattutto, da una valutazione globale del significato del regime coloniale, in particolare di quello che vide la luce nel sec. XIX, quando, all'ingiustizia che di per sé è implicita nella dominazione di un popolo su di un altro, si aggiunsero, come manifestazioni dello spirito capitalistico predominante appunto nell'epoca in cui si costituirono i grandi imperi africani, i moventi del lucro e dello sfruttamento. D'altra parte, non sarebbe difficile dimostrare che la mancanza di preparazione nella sfera sociale ed educativa è appunto il frutto di un disegno di certe potenze coloniali, e non è raro, infatti, trovare territori la cui popolazione, dopo anni e anni di amministrazione coloniale, è ancora per il 90% analfabeta. Il caso della Repubblica del Congo rappresenta un esempio estremamente eloquente. Non c'è nulla di sorprendente, dunque, nel fatto che gli autori della risoluzione abbiano creduto necessario inserire quest'affermazione, la quale in fondo veniva a sostituire l'idea, sostenuta dagli Stati socialisti, d'indicare date precise (target dates) per l'accesso dei popoli coloniali all'indipendenza; idea che fu, con ragione, combattuta non soltanto dai paesi occidentali e latinoamericani, ma anche da un buon numero di Stati afroasiatici" (v. Velázquez, 1963, pp. 59-60).
Un altro punto della risoluzione che appare affetto da un certo radicalismo è il quarto, il quale dispone la cessazione di qualsiasi intervento armato o misura repressiva contro i popoli che vogliono conquistare l'indipendenza: sarebbe assai difficile discriminare in ciascun caso ciò che, in questi interventi armati e misure repressive, è giustamente condannabile da ciò che non va oltre il mantenimento dell'ordine pubblico e la protezione della popolazione bianca.
Nella parte finale del punto quarto si dice che sarà rispettata l'integrità del territorio corrispondente a ciascun popolo. La disposizione è spiegabile come difesa dalle possibili manovre della metropoli, la quale cercasse di conservare il potere in una parte del territorio di una sua dipendenza attraverso la concessione di un'autonomia o di un'indipendenza limitata alle regioni in cui i conflitti sono più acuti. In ogni modo, è assai difficile precisare, al momento della decolonizzazione, quale sia il territorio corrispondente a ciascun popolo; almeno come regola generale, la soluzione seguita dai nuovi Stati africani è comunque la stessa che un secolo e mezzo prima era stata applicata in America: la regola dell'uti possidetis immediatamente anteriore all'indipendenza, secondo la quale ognuno dei nuovi Stati si considerava investito di sovranità sul territorio corrispondente a ciascuna delle divisioni politiche o amministrative create dall'ex metropoli nelle sue dipendenze coloniali.
Il punto 5 della Dichiarazione estende la sua validità a tre classi di territori: quelli non autonomi, quelli in amministrazione fiduciaria e ogni altro territorio che non abbia ancora conseguito l'indipendenza. L'inclusione di quest'ultima categoria sembrava inutile, in quanto il concetto negativo di territorio non autonomo possiede una latitudine sufficiente per abbracciare qualsiasi dipendenza di uno Stato straniero, astraendo dalla qualifica giuridica che la dipendenza possa ricevere nell'ordinamento giuridico dello Stato metropolitano e dall'atteggiamento di quest'ultimo riguardo all'adempimento degli obblighi previsti dal cap. XI della Carta. La migliore illustrazione della sua necessità è il comportamento tenuto nei confronti del Portogallo dall'Assemblea generale che, nello stesso giorno in cui ebbe luogo l'approvazione della risoluzione 1.514, votò un documento contenente la lista dei territori, qualificati come non autonomi, amministrati dal Portogallo.
Velázquez ritiene che l'uso della congiunzione ‛e' dopo la menzione dei territori in amministrazione fiduciaria e di quelli non autonomi indica che si tratta di una terza categoria diversa dalle altre due, senza che però dai lavori preparatori si possa capire con precisione, a quali territori ci si riferisca. In mancanza di elementi interpretativi diversi da quelli offertici dal testo stesso della risoluzione, Velázquez pensa che ‟non sembra difficile, alla luce di ciò che il diritto internazionale riconosce come ‛diritto all'indipendenza', decidere in senso favorevole per quanto riguarda l'applicazione del punto 5 al caso di alcuni territori vincolati in una qualche forma a uno Stato, e sui quali esistano rivendicazioni da parte di altri Stati: per esempio il Belice o Honduras Britannico, le isole Malvine o Falkland, la Nuova Guinea olandese o Irian Occidentale e Gibilterra" (v. Velázquez, 1963, pp. 60-61).
Il problema che, rispetto a questi territori, scaturirebbe dal fatto di determinare il loro destino politico attraverso il diritto di autodeterminazione esercitato dalle loro popolazioni, fu precisato dalla delegazione del Guatemala, la quale presentò un emendamento volto ad aggiungere al progetto di risoluzione dei 43 paesi afroasiatici un nuovo paragrafo in cui si diceva che ‟il diritto dei popoli all'autodeterminazione non potrà in nessun caso incidere sul diritto di alcuno Stato all'integrità e alla rivendicazione territoriale".
L'emendamento guatemalteco fu ritirato dopo la dichiarazione, fatta da vari delegati, che il diritto che l'emendamento intendeva salvaguardare era già garantito dal punto 6 del progetto di risoluzione. In particolare, il delegato indonesiano dichiarò che la garanzia dell'integrità territoriale contenuta nel summenzionato punto 6 abbracciava quelle parti del territorio nazionale che si trovassero a essere soggette a un altro Stato e sulle quali esistesse una rivendicazione da parte di uno Stato che avvertisse come mutilata la propria integrità territoriale: era questo appunto il caso dell'Indonesia riguardo alla Nuova Guinea occidentale.
Velázquez elogia la ‛saggezza politica' racchiusa in questa interpretazione del diritto dei popoli all'autodeterminazione per quanto riguarda quei paesi che, per la loro piccolezza o per la loro debolezza, sono stati spogliati di parti - talora importanti - del loro territorio; in caso diverso, infatti, l'applicazione rigorosa del diritto di autodeterminazione avrebbe il risultato di mettere nelle mani di un limitato numero di coloni, insediatisi in dati territori dopo la cacciata degli indigeni, il destino appunto di questi territori (v. Velázquez, 1963, p. 6).
Tornando al punto 5, troviamo un altro elemento poco chiaro: quello delle misure immediate da prendere ai fini del conseguimento di un obiettivo, che viene presentato sotto la specie del godimento di una completa libertà e di una completa indipendenza.
In tal modo, se non vengono escluse, almeno non sono esplicitamente menzionate le altre due strade attraverso le quali, in forza di risoluzioni anteriori dell'Assemblea generale, i territori rientranti nell'ambito del cap. XI della Carta possono perdere la qualifica di ‛non autonomi': vale a dire la strada dell'autonomia e quella dell'integrazione con un altro Stato indipendente.
Non è possibile pensare che il proposito della risoluzione 1.514 (XV) sia quello di dichiarare inammissibili queste due altre vie per uscire dalla situazione di non autonomia, e ciò sia in base al modo in cui molte delle ex colonie inglesi sono passate allo status di dominion sia anche perché, il giorno seguente alla votazione della risoluzione sull'indipendenza dei popoli coloniali, l'Assemblea approvò la risoluzione 1.541 (XV) nella quale, una volta di più, si indicano come vie che un territorio non autonomo può percorrere per accedere alla pienezza dell'autogoverno - oltre all'indipendenza - l'integrazione con un altro Stato e l'autonomia.
Talora, alcuni delegati afroasiatici all'Assemblea generale hanno tuttavia sostenuto una posizione più generale, e cioè che si deve passare direttamente dalla soggezione coloniale all'indipendenza, e che soltanto una volta raggiunta l'indipendenza, il nuovo Stato indipendente può optare per una forma di autonomia, come quella consistente nell'acquisizione dello status di dominion, o per l'integrazione con un altro Stato.
Sembra più ragionevole pensare che, non avendo la risoluzione 1.514 espressamente escluso queste due ultime modalità, l'autonomia e la libera associazione o integrazione possono - allo stesso titolo dell'indipendenza - rappresentare lo scioglimento del nodo coloniale, sempre che, beninteso, tali soluzioni siano quelle preferite, in condizioni di assoluta libertà, dalla popolazione sin allora soggetta. Questa è la conclusione che si deduce non soltanto dallo spirito ma anche dalla lettera della risoluzione 1.541 (XV), già considerata quando abbiamo parlato dei territori non autonomi. È utile soltanto aggiungere che quest'ultima risoluzione condiziona l'ammissibilità della libera associazione con un altro Stato indipendente alla conservazione, da parte dell'ex dipendenza così associata o integrata, del diritto di secessione. Sembra che, di tutti i possibili tipi di associazione o d'integrazione, sia stato tenuto presente di preferenza quello rappresentato dal Commonwealth, i cui dominions mantengono appunto il diritto di secessione. Certo, anche nel federalismo sovietico a ognuna delle repubbliche federate viene riconosciuto il diritto di secessione, per quanto tale diritto non sia mai stato esercitato. Al contrario, nel tipo classico di federalismo, qual è rappresentato dalla Costituzione degli Stati Uniti, la pienezza della sovranità - prerogativa dello stato federale - esclude la possibilità di secessione da parte dei singoli Stati membri.
Nella decisione di condizionare l'associazione con un altro Stato alla conservazione del diritto di secessione pesò senza dubbio, più d'ogni altra cosa, l'esempio della trasformazione subita dall'Impero coloniale francese: l'Unione francese, prevista dalla Costituzione del 1946, fu sostituita, dopo l'ascesa al potere del generale de Gaulle nel 1958, dalla Comunità francese, nella quale entravano quelle dipendenze che avessero, mediante plebiscito, accettato la nuova Costituzione, conservando però la facoltà di secessione.
Minori difficoltà interpretative offrono le condizioni poste per l'integrazione di un territorio indipendente con la sua ex metropoli: è particolarmente significativo il punto IX della risoluzione 1.541, il quale indica nella preliminare concessione e nella preliminare pratica di un certo grado di autonomia la condizione perché la popolazione di un territorio possa esercitare in piena libertà l'opzione per l'integrazione. In linea di principio, quindi, non saranno considerate operanti le integrazioni elargite unilateralmente dal governo o dal parlamento della metropoli, pur non escludendo la possibilità di una successiva convalida attraverso un voto liberamente espresso dalla popolazione del territorio in questione.
Non è necessario intrattenerci sul punto 6 della Dichiarazione; il paragrafo finale esprime la volontà dell'Assemblea generale d'imporre a tutti gli Stati, senza distinguere tra membri e non membri dell'Organizzazione, l'osservanza fedele e rigorosa della Carta delle Nazioni Unite, della Dichiarazione dei diritti dell'uomo, e della stessa risoluzione sull'indipendenza dei popoli coloniali. Se indiscutibile era l'obbligatorietà della Carta per gli Stati membri dell'Organizzazione, assai più opinabile era il grado di obbligatorietà della Dichiarazione dei diritti dell'uomo. Sebbene, da un punto di vista strettamente giuridico, la Dichiarazione non acquistasse una maggiore obbligatorietà per il fatto di essere proclamata dallo stesso organo che l'aveva votata dodici anni innanzi - cioè l'Assemblea generale - politicamente non era privo di significato l'appello rivolto a tutti gli Stati perché fossero rispettate non soltanto la Carta e la Dichiarazione universale, ma anche la stessa risoluzione 1.514 (XV): testi che, una volta di più, si presentano, nella loro connessione, come fondamentali per una nuova fase del diritto delle genti grazie alla volontà largamente maggioritaria degli Stati che nel 1960 costituivano la comunità internazionale.
c) Conseguenze della risoluzione
Sebbene, considerando quanto abbiamo esposto, le conseguenze più importanti siano quelle verificatesi sul piano politico, anche l'ordinamento giuridico internazionale sarà profondamente influenzato dalla Dichiarazione sull'indipendenza dei popoli coloniali. Sin allora, le relazioni tra questi ultimi e la metropoli, tradizionalmente appartenenti alla sfera degli affari interni - per i quali l'art. 2, comma 7 della Carta esclude l'intervento degli organi dell'ONU - potevano ricadere nell'ambito della competenza di detti organi soltanto nell'ipotesi che una questione coloniale arrivasse a mettere in pericolo la pace e la sicurezza del mondo, o nell'ipotesi che si trattasse dell'adempimento di obblighi imposti dalla Carta agli Stati amministratori di territori non autonomi o in amministrazione fiduciaria. A partire dalla risoluzione 1.514 (XV), a questi due presupposti se ne aggiunge un terzo, di portata più ampia, che consente d'intervenire nel processo di emancipazione dei diversi popoli che non abbiano ancora conseguito alcuna forma di autogoverno anche nel caso che la situazione nel paese in questione non rappresenti una minaccia per la pace mondiale. In quest'ipotesi, inoltre, l'intervento degli organi dell'ONU non deve essere fondamentalmente diretto, come accade nelle ipotesi previste nei capp. VI e VII della Carta, a mantenere o a restaurare la pace, ma a cooperare, senza precipitazione ma senza soste, al conseguimento dell'obiettivo della decolonizzazione. In realtà, non si tratta d'altro che di una diversa interpretazione della sacra missione d'incivilimento che, se per l'innanzi poteva appagarsi di progressi materiali e culturali all'interno del regime coloniale, ora colloca in primo piano l'aiuto ai popoli ancora soggetti ad altri popoli perché conseguano la propria emancipazione.
Il mutamento inciderà anche su un'altra questione fondamentale: quella dell'interpretazione e dell'applicazione del principio contenuto nel comma 4 dell'art. 2 della Carta, il quale impone agli Stati membri l'obbligo di ‟astenersi [...] dalla minaccia o dall'uso della forza, sia contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite". Una volta che l'Assemblea generale, facendo uso della sua facoltà interpretativa, abbia chiarito che uno dei detti fini - quello consistente nel promuovere tra le nazioni relazioni di amicizia basate sul principio di autodeterminazione - possiede un contenuto implicante in modo diretto la decolonizzazione di quei popoli che vivono in una situazione di soggezione, diventa possibile una discriminazione tra gli atti di forza messi in opera da questi popoli e dagli Stati che li appoggiano nella lotta per l'indipendenza e quelli imputabili alle metropoli e aventi lo scopo di mantenere le dipendenze nella soggezione coloniale. Si tratta di una delle più gravi questioni rimaste tuttora aperte, resa ancora più problematica dal fatto di non avere ricevuto una soluzione accettata da tutti.
Infine, gli scopi perseguiti con l'autodeterminazione dei popoli non si esauriscono con il conseguimento dell'indipendenza politica. Una volta che sia stato deciso liberamente il destino politico, l'autodeterminazione esige inoltre che ciascun popolo persegua liberamente il proprio sviluppo anche in campo economico, sociale e culturale: finalità queste che non si soddisfano con la semplice osservanza della norma negativa di considerare contraria al diritto internazionale qualsiasi ingerenza esterna nei diversi aspetti dello sviluppo. È necessario qualcosa di più: bisogna promuovere e, nella misura del possibile, ottenere per i popoli che conseguono l'indipendenza, come anche per quelli che già la posseggono da sempre o solo da pochi anni, una decolonizzazione economica, consistente nella trasformazione delle sue strutture commerciali e produttive là dove sono organizzate in modo tale che i maggiori benefici si riversano in mani straniere. Nulla di tutto ciò è radicalmente nuovo, se teniamo presente il programma economico-sociale delineato dall'art. 55 della Carta delle Nazioni Unite; è però indubitabile che questo programma, per la cui realizzazione erano previste scadenze remote, è destinato a trasformarsi, accelerarsi e radicalizzarsi come risultato della decolonizzazione e delle risoluzioni dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, le quali non soltanto stimolano quanto ancora restava da fare - nel 1960 - nella sfera della decolonizzazione politica, ma intensificano l'interesse per la situazione dei popoli cosiddetti ‛in via di sviluppo', nel cui novero rientrano un numero considerevole di paesi del Terzo Mondo che avevano conseguito l'indipendenza negli anni immediatamente anteriori al 1960 o la conseguiranno negli anni immediatamente successivi.
Con la risoluzione 1.514 (XV) si apre così una nuova fase non solo per quanto riguarda il problema specifico della decolonizzazione, ma per tutti gli aspetti delle relazioni internazionali e del diritto che le governa.
8. Il Comitato per la decolonizzazione delle Nazioni Unite e la sua opera
La precisazione, in un intento chiaramente decolonizzatore, dell'autodeterminazione dei popoli come obiettivo delle Nazioni Unite esigeva che, oltre agli inviti rivolti agli Stati amministratori perché prendessero certe misure, l'Organizzazione stessa cooperasse attivamente al raggiungimento della meta auspicata.
L'occasione si presentò nel settembre 1961, con la XVI sessione ordinaria dell'Assemblea. Ancora una volta l'iniziativa partì dalla Russia, la quale sollecitò l'inserimento nell'ordine del giorno della discussione sull'applicazione che aveva ricevuto la risoluzione 1.514 (XV), votata l'anno precedente. Una memoria esplicativa del governo sovietico elencava 88 territori soggetti al regime coloniale popolati da 71 milioni di abitanti, e muoveva particolari censure alla Francia, Gran Bretagna, Portogallo e Unione Sudafricana per le misure repressive con cui pretendevano di prolungare il proprio dominio nei rispettivi territori, senza tralasciare l'aiuto fornito dagli Stati Uniti (che conservano anch'essi dodici dipendenze) ad alcuni di detti paesi. Su questa base l'Unione Sovietica presentò un progetto di risoluzione, in cui si proponeva la definitiva scomparsa del colonialismo entro il 1962, nonché la creazione di una Commissione, nella quale fossero rappresentati su un piede di uguaglianza i tre gruppi di Stati, con l'incarico di esaminare, in modo approfondito e particolareggiato, la situazione relativa all'applicazione della risoluzione 1.514 e le misure idonee a metterla in atto.
Da parte sua il governo olandese, in un'altra memoria, comunicava le misure adottate allo scopo di consentire alla popolazione della Nuova Guinea occidentale l'esercizio del diritto di autodeterminazione, e sollecitava la creazione di una commissione delle Nazioni Unite per quel territorio.
Una terza iniziativa venne dalla Nigeria, nella quale si proponeva come scadenza ultima per la fine del processo di decolonizzazione l'1 dicembre 1970.
In Assemblea plenaria, la maggioranza delle delegazioni stimarono impossibile fissare una scadenza ultima, ritenendo invece preferibile l'istituzione di un organo incaricato di vigilare sull'adempimento delle risoluzioni approvate dall'Assemblea; fu quindi presentato da 38 Stati un progetto che fu infine approvato, come risoluzione 1.654 (XVI) dell'Assemblea generale, con 97 voti favorevoli, nessuno contrario e quattro astensioni (Spagna, Francia, Regno Unito e Unione Sudafricana). Il Portogallo non volle prendere parte alla votazione e l'Unione Sudafricana, a differenza dalla Francia, Regno Unito e Spagna, fece precedere la sua astensione da una dichiarazione di radicale opposizione al progetto in discussione. Tra gli Stati che l'anno precedente s'erano astenuti nella votazione della risoluzione 1.514, gli Stati Uniti votarono ora a favore, forse per il mutamento sopravvenuto nella Casa Bianca con la successione di Kennedy a Eisenhower (v. Barbier, 1974, p. 103).
Dopo un lungo preambolo, il testo approvato recita: ‟L'Assemblea generale: 1) ribadisce e riafferma solennemente gli obiettivi e i principî enunciati dalla Dichiarazione sulla concessione dell'indipendenza ai paesi e ai popoli coloniali, contenuta nella risoluzione 1.514 (XV), approvata il 14 dicembre 1960; 2) invita gli Stati interessati a operare, senza ulteriori ritardi, in modo da assicurare la scrupolosa applicazione e l'effettiva attuazione della Dichiarazione; 3) decide di creare un Comitato speciale di 17 membri, che saranno designati dal Presidente dall'Assemblea generale nel corso della presente sessione; 4) chiede al Comitato speciale di fare indagini sull'applicazione della risoluzione 1.514 (XV) dell'Assemblea generale e di formulare suggerimenti e raccomandazioni per quanto riguarda i progressi realizzati e il grado di attuazione della Dichiarazione, come anche d'informare l'Assemblea generale nella XVII sessione; 5) incarica il Comitato speciale di svolgere la sua missione servendosi di tutti i mezzi a disposizione nel quadro delle procedure e delle modalità adottate per il buon adempimento delle sue funzioni; 6) autorizza il Comitato speciale, dopo essersi consultato con le autorità competenti, a riunirsi in qualsiasi sede diversa da quella dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, quando ciò possa risultare necessario per l'adempimento delle sue funzioni; 7) invita le autorità interessate a prestare al Comitato la cooperazione più completa nello svolgimento dei suoi compiti; 8) chiede al Consiglio per l'amministrazione fiduciaria, al Comitato per le informazioni relative ai territori non autonomi e agli Organi specializzati di dare aiuto al Comitato speciale nell'ambito delle rispettive sfere di competenza; 9) chiede al Segretario Generale di fornire al Comitato speciale tutte le facilitazioni, come anche il personale che risulti necessario per l'attuazione della presente risoluzione".
La creazione del Comitato speciale non implicava, da parte dell'Assemblea generale, il proposito di scaricare su di esso tutti i problemi riguardanti il processo di decolonizzazione. Nella stessa sessione in cui fu istituito il Comitato, l'Assemblea votò, tra altre risoluzioni in materia di decolonizzazione, la 1.599 (XVI), in cui si condannava la persistente inadempienza, da parte del governo portoghese, degli obblighi imposti dal cap. XI della Carta e delle disposizioni della risoluzione 1.542 (V), come anche il suo costante rifiuto di collaborare con i lavori del Comitato per le informazioni relative ai territori non autonomi. La medesima risoluzione creava un Comitato speciale, composto da sette membri eletti dall'Assemblea, per esaminare le informazioni disponibili sui territori amministrati dal Portogallo, nonché per formulare osservazioni, conclusioni e raccomandazioni all'Assemblea generale o a qualunque altro organo da essa designato per aiutarla nell'attuazione della risoluzione 1.514 (XV): s'inizia così la lunga tensione con il governo di Lisbona, che doveva durare sino al mutamento della politica coloniale seguito al rovesciamento del regime di Caetano.
Alla creazione del Comitato per le dipendenze portoghesi seguì quella di altri comitati per diversi territori in procinto di accedere all'indipendenza, il che produsse talune interferenze tra le loro attività e quelle del Comitato detto ‛dei diciassette', cioè quello istituito dalla risoluzione 1.654 (XVI) dell'Assemblea generale.
Per evitare interferenze siffatte, nella successiva sessione dell'Assemblea vari delegati si dichiararono favorevoli alla soppressione dei Comitati speciali, aumentando però, al contempo, di sette membri il Comitato detto ‛dei diciassette', che diventò quindi, con la risoluzione 1.810 (XVII) del 17 dicembre 1962, il Comitato dei ventiquattro; cionondimeno, non tutti i Comitati speciali dovevano sparire l'anno successivo.
Furono anche progressivamente aumentati i poteri del Comitato dei ventiquattro. La risoluzione 2.105 (XX) del 20 dicembre 1965 raccomandava al Comitato di formulare suggerimenti ai quali potesse ispirarsi il Consiglio di sicurezza nel caso che un problema rientrante nella sua competenza minacciasse la pace mondiale.
Non meno interessante è la risoluzione 2.288 (XXII) del dicembre 1967, con la quale si chiedeva di studiare in tutti i territori dipendenti (specialmente in quelli amministrati dal Portogallo), nella Rhodesia meridionale e nell'Africa del Sud-Ovest (Namibia) tutte le attività straniere che - nella sfera economica - fossero di ostacolo alla decolonizzazione.
La lista dei territori ai quali si estendeva la competenza del Comitato subì continui mutamenti, non soltanto perché ne venivano eliminati quelli che, conseguita l'indipendenza, erano immediatamente ammessi all'ONU, ma anche perché di nuovi se ne aggiunsero, come l'‛Omān, la Costa Francese dei Somali (altri, come Puerto Rico e le Comore, non furono invece compresi nella lista). Nel 1975 il governo marocchino chiese, senza successo, di sottoporre alla competenza del Comitato le cosiddette plazas de soberanía spagnole nel suo territorio o in prossimità di esso.
Il Comitato, i cui lavori sono stati talvolta facilitati dalla cooperazione dimostrata dalle potenze amministratrici, nei casi più contrastati - come quelli della Rhodesia meridionale, di Namibia e delle dipendenze portoghesi (circa queste ultime sino a data recentissima) - non ha potuto invece contare su cooperazione alcuna; fatto che, insieme con la composizione del Comitato stesso, nel quale hanno sempre predominato i paesi del Terzo Mondo e quelli socialisti, ha avuto come risultato che il suo principale strumento d'intervento è consistito nel promuovere una pressione internazionale che, per avere una certa efficacia, non può non essere fortemente impregnata di retorica (v. Virally, 1972, p. 244).
Tra le attività del Comitato, frequenti sono stati i viaggi nei paesi soggetti, l'ascolto di petizioni e la preparazione di ampie relazioni riguardo a ciascuno dei territori sotto- posti alla sua competenza, relazioni destinate a servire di base a risoluzioni dell'Assemblea generale dedicate a un particolare territorio (e quindi, diversamente da quelle fondamentali in materia di decolonizzazione, non formulate in termini generali). Il Comitato dei ventiquattro ha esso stesso approvato risoluzioni, redatte in un linguaggio assai simile a quello adoperato dall'Assemblea.
In generale, l'efficacia dell'opera del Comitato dei ventiquattro è dipesa dalla cooperazione di volta in volta prestata dagli Stati amministratori. Secondo Barbier, (v., 1974, pp. 264-267) lo Stato che ha maggiormente facilitato il processo di decolonizzazione delle sue dipendenze è stato la Spagna: la Guinea occidentale ha conseguito l'indipendenza nel 1968; Ifni è ritornato al Marocco; per quanto riguarda il Sahara, oggetto di rivendicazioni da parte del Marocco e della Mauritania, la sua decolonizzazione è stata ritardata da varie vicende, non ultima la richiesta da parte dell'Assemblea generale, su istanza del Marocco, di un parere della Corte internazionale di giustizia la quale, il 16 ottobre 1975, dichiarava doversi facilitare alle popolazioni sahariane la decisione sul loro destino. Al momento in cui scriviamo questo articolo, il Sahara è sottoposto a un'amministrazione tripartita alla quale, insieme con la Spagna, partecipano il Marocco e la Mauritania.
La posizione assunta dalla Spagna in questo caso si spiega se si considera che esiste anche una rivendicazione spagnola - quella di Gibilterra - pendente presso il Comitato di decolonizzazione, e della quale si è varie volte occupata l'Assemblea generale, che ha raccomandato alla Gran Bretagna e alla Spagna la composizione della controversia con strumenti diplomatici, che peraltro non hanno portato, sinora, ad alcun risultato. Convocato a Gibilterra. un referendum, il risultato - com'era da aspettarsi - fu favorevole al mantenimento dell'unione della Rocca con la Gran Bretagna (10 settembre 1967), soluzione questa che non è ritenuta definitiva non solo dalla Spagna ma anche da molti paesi del Terzo Mondo: si ritiene infatti che la popolazione che ha espresso il voto non costituisce un ‛popolo' in quanto soggetto del diritto di autodeterminazione.
Piena è stata anche (v. Barbier, 1974, p. 265) la cooperazione prestata dalla Nuova Zelanda riguardo alle isole da essa amministrate nel Pacifico. L'Australia, il Regno Unito e gli Stati Uniti hanno invece prestato una cooperazione più limitata, mentre il Comitato si è scontrato in un rifiuto praticamente totale di cooperazione da parte non solo del Portogallo (sino al mutamento politico del 1974) e della Unione Sudafricana, ma anche della Francia.
Altre difficoltà sono derivate dall'estrema esiguità, sia sotto il profilo della superficie che sotto quello della popolazione, di certi territori - specialmente isole - compresi nella lista del Comitato dei ventiquattro. Alcuni di questi territori hanno cionondimeno conseguito l'indipendenza e altri sono in procinto di conseguirla, col risultato che gravi problemi sono emersi in relazione alle loro particolarità fisiche, le quali rendono difficile la costituzione in essi di uno Stato moderno, è al loro isolamento, che li rende scarsamente idonei a una federazione (v. Virally, 1972, p. 245).
Qualunque valutazione si voglia dare dei risultati della decolonizzazione nella sua fase più recente, bisogna tener conto della piccolezza, che caratterizza sia la maggior parte dei territori che negli ultimi anni hanno conseguito l'indipendenza sia quelli che non l'hanno ancora conseguita. Se da un lato le situazioni peculiari di questi territori imponevano loro, come regola generale, un ritmo lento nel cammino verso l'indipendenza, d'altro lato bisogna anche tener presente l'esiguità di questi paesi, e ciò sia per non incorrere in un trionfalismo eccessivo (basato sul gran numero di Stati di nuova indipendenza) sia al contrario, quando si pensa ai paesi che restano ancora da decolonizzare (parecchi dei quali non annoverano che poche migliaia o poche decine di migliaia di abitanti), per evitare di sottovalutare l'opera realizzata. Sebbene oggi il problema dell'indipendenza economica dei paesi già in possesso dell'indipendenza politica sia un problema più grave di quello di ottenere quest'ultima per i territori ancora soggetti, tutti gli organi dell'ONU, nella sfera delle rispettive competenze, collaborano allo scopo di completare la decolonizzazione. Nel decimo anniversario (1970) della risoluzione 1.514, l'Assemblea generale votò la 2.621 (XXV), intitolata ‛Programma d'azione per l'applicazione totale della Dichiarazione sulla concessione dell'indipendenza ai popoli coloniali' e il Comitato dei ventiquattro continua da parte sua a lavorare instancabilmente, e con metodi che, a parte alcuni casi (come quelli delle dipendenze portoghesi, della Rhodesia meridionale e della Namibia) hanno dimostrato una certa efficacia.
Un bilancio dei risultati raggiunti ci viene offerto dal ritmo di ammissione all'ONU dei nuovi membri: nell'immensa maggioranza si tratta di ex dipendenze coloniali entrate subito dopo l'emancipazione: 1961, Mauritania, Mongolia, Sierra Leone; 1962, Algeria, Burundi, Ruanda, Trinidad e Tobago, Uganda; 1963, Kenya; 1964, Malawi, Zambia; 1965, Gambia, Isole Maldive, Singapore; 1966, Botswana, Guiana, Lesotho; 1967, Yemen democratico; 1968, Guinea Equatoriale, Isola di Maurizio, Swaziland; 1970, Figi; 1971, Barhein, Butan, ‛Omān, Qatar, Emirati Arabi Uniti; 1973, Bahamas; 1975, Bangladesh, Grenada, Guinea-Bissau; 1975, Capo Verde, Mozambico, São Tomé e Principe, Papua-Nuova Guinea.
Esistono anche alcune unità politiche estremamente piccole che, sebbene abbiano conseguito l'indipendenza o comunque un grado di autonomia sufficiente, non sono entrate all'ONU; tale è il caso di Nauru e di Samoa. Diverso è il caso dell'Angola, in fase avanzata di decolonizzazione, e del Sahara Spagnolo.
Ciò che rimane da fare per una completa decolonizzazione può desumersi dalla seguente lista dei territori cui si estende la competenza del Comitato dei ventiquattro: a) territorio sotto la diretta responsabilità dell'ONU: Namibia; b) territori in amministrazione fiduciaria: Isole del Pacifico (amministrazione fiduciaria strategica degli Stati Uniti); c) territori non autonomi: Samoa americana, Antigua, Bermuda, Honduras britannico, Isole Vergini britanniche, Brunei, Isole Caiman, Isole Cocos (Keeling), Dominica, Isole Falkland (Malvine), Gibilterra, Isole Gilbert e Ellis, Guam, Hong Kong, Macao e dipendenze, Montserrat, Nuove Ebridi, Isola Pictaix, Sant'Elena, St. Kitts-Nevis-Anguilla, Santa Lucia, St. Vicent, Seichelles, Isole Salomone, Rhodesia meridionale, Isole Turks e Caicos, Isole Vergini degli Stati Uniti, Sahara Spagnolo, Territorio degli Afari e Issa (Somalia Francese), Arcipelago delle Comore e Isole Tokelau.
Gli organi delle Nazioni Unite non hanno cessato di operare - sebbene, per le ragioni già esposte, non sempre con uguale efficacia - con il fermo proposito di liquidare il colonialismo politico. Nell'ultima ‛Memoria del Segretario Generale sui lavori dell'Organizzazione', che copre il periodo dal 16 giugno 1974 al 15 giugno 1975, si dà conto in modo particolareggiato delle attività del Comitato speciale, alcune delle quali sono volte ad accelerare il processo di emancipazione dei territori citati, mentre altre sono dedicate a problemi generali tra i quali - da alcuni anni - figurano permanentemente nella sua agenda di lavoro i seguenti: a) indagini sugli interessi stranieri, economici o di altro tipo, che costituiscono un ostacolo all'applicazione della risoluzione sulla concessione dell'indipendenza ai paesi e popoli coloniali in Rhodesia meridionale, Namibia, nei territori sotto dominazione portoghese e in tutti quelli ancora soggetti a dominio coloniale. Non mancano inoltre sforzi miranti a eliminare l'apartheid e la discriminazione razziale nell'Africa meridionale; b) attività militari e provvedimenti di carattere militare adottati dalle potenze coloniali nei territori sotto la loro amministrazione, che siano suscettibili di rappresentare un ostacolo per l'applicazione della Dichiarazione; c) applicazione della Dichiarazione da parte degli organi specializzati e delle istituzioni internazionali collegate con le Nazioni Unite; d) problema dell'invio di missioni nei Territori; e) programma delle Nazioni Unite per l'Africa meridionale (scuola e addestramento tecnico); f) diffusione dell'attività delle Nazioni Unite nel campo della decolonizzazione.
D'altra parte, la Commissione per i diritti dell'uomo, che lavora alle dipendenze del Consiglio economico e sociale, effettua lavori e prepara progetti di risoluzioni direttamente collegati con la lotta contro gli ultimi residui del colonialismo, e inoltre condanna e cerca di opporsi alle più flagranti violazioni dei diritti dell'uomo, come l'apartheid, la discriminazione razziale, ecc. Ed è la Commissione per i diritti dell'uomo che ha elaborato uno dei documenti più recenti e di maggiore importanza per la stessa decolonizzazione, la risoluzione 3.246 (XXIX) dell'Assemblea generale, approvata il 29 settembre 1974, nella quale si riafferma il diritto inalienabile di tutti i popoli soggetti alla dominazione straniera all'indipendenza, si rivolge a tutti gli Stati un appello perché riconoscano tale diritto e prestino ai popoli soggetti appoggio morale, materiale e di ogni altra natura, e si chiede al Segretario Generale di continuare a collaborare con gli organi specializzati e con tutte le altre organizzazioni del sistema delle Nazioni Unite nell'attuazione delle misure volte a fornire una più efficace assistenza internazionale ai popoli dei territori coloniali.
Il 20 febbraio 1974 la Commissione per i diritti dell'uomo votò la sua risoluzione V (XXX) - approvata dal Consiglio economico e sociale il 17 maggio 1974 -, con la quale incaricava la Sottocommissione per la prevenzione delle discriminazioni e la protezione delle minoranze di effettuare raccomandazioni riguardo all'applicazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite sul diritto che i popoli soggetti a dominazione coloniale o straniera hanno di determinare liberamente il proprio destino politico. Il 16 agosto 1974 la Sottocommissione designò come relatore l'internazionalista uruguaiano H. Gros Espiell.
9. Il caso della Namibia
Il processo di decolonizzazione che, sotto l'impulso di vari organi dell'ONU, ha raggiunto i risultati sopraelencati, ha subito ritardi riguardo alle, dipendenze portoghesi e, ancora agli inizi dell'anno 1976, è fallito nell'Africa australe dinanzi all'ostinazione dei governi della Rhodesia e dell'Unione Sudafricana.
Si tratta, in realtà, di due casi assai diversi. In Rhodesia, una minoranza bianca - la stessa che nella fase coloniale opprimeva la maggioranza di colore - ha conseguito l'indipendenza del paese, senza però abdicare alle sue posizioni privilegiate. Sebbene la questione rhodesiana figuri ancora nell'agenda di lavoro del Comitato dei ventiquattro, e talvolta in quella dell'Assemblea generale, i problemi aperti ricadono tuttavia piuttosto nell'ambito della difesa dei diritti dell'uomo che in quello della decolonizzazione in senso stretto.
Una situazione analoga, per quanto riguarda il suo proprio territorio, è quella del Sudafrica, come d'altra parte, sventuratamente, anche di altre parti del mondo in cui esistono minoranze (o anche maggioranze) oppresse dai gruppi egemoni. Ma l'Unione Sudafricana è anche amministratrice - in passato con titolo giuridico, e oggi sprovvista di tale titolo - di un territorio diverso dal suo, per il quale è possibile e auspicabile una decolonizzazione nel senso più stretto del termine.
È dunque interessante, perché questo articolo risulti meno incompleto, una breve rassegna dei fatti che hanno condotto alla situazione attuale del territorio occupato de facto dall'Unione Sudafricana.
Per iniziativa di un sudafricano, l'allora generale Smuts, il Patto della Società delle Nazioni istituì i mandati internazionali, distinguendoli in tre categorie a seconda del grado di sviluppo delle popolazioni indigene. Rientravano nella categoria ‛c' le colonie ex tedesche nel Pacifico e nell'Africa australe. Quivi, l'ex colonia tedesca dell'Africa del Sud-Ovest fu affidata all'Unione Sudafricana la quale, secondo quanto prevedeva l'art. 22 del Patto della Società delle Nazioni per i mandati di tipo ‛c', doveva amministrarla come parte integrante del proprio territorio.
La Carta delle Nazioni Unite prevedeva la trasformazione, mediante ‛convenzioni' da concertare fra tutti gli Stati interessati, dei mandati che non avevano ancora conseguito l'indipendenza in amministrazioni fiduciarie. Eccetto l'Unione Sudafricana, le potenze mandatarie accettarono di concordare le rispettive convenzioni di amministrazione fiduciaria, attraverso le quali gli ex mandati acquisirono il nuovo status.
Avendo l'Unione Sudafricana rifiutato di collaborare a una siffatta trasformazione del suo mandato, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite richiese alla Corte internazionale di giustizia un parere circa la situazione giuridica del territorio amministrato, e l'11 luglio 1950 la Corte dichiarava: a) il mandato sussiste, nonostante la scomparsa dell'Organizzazione che l'aveva affidato, cioè la Società delle Nazioni; b) l'Unione Sudafricana non ha la facoltà di dichiarare unilateralmente l'estinzione del mandato; c) i poteri sul mandato che spettavano al Consiglio della Società delle Nazioni si sono trasferiti all'Assemblea generale delle Nazioni Unite; d) l'Unione Sudafricana non può opporsi a questo trasferimento; e) la Carta delle Nazioni Unite non impone all'Unione Sudafricana l'obbligo di concordare la convenzione necessaria per la trasformazione del suo mandato in amministrazione fiduciaria.
Varie vicende resero sempre più tesa, all'interno dell'ONU, la situazione dell'Unione Sudafricana, soprattutto dopo l'ingresso in massa - nell'Organizzazione dei nuovi Stati africani, che si sono dimostrati ogni anno più solidali con le rivendicazioni e le proteste dei loro fratelli di colore sia nell'Unione Sudafricana stessa che nel mandato superstite dell'Africa del Sud-Ovest. Inoltre, le pratiche contrarie ai diritti dell'uomo imputate all'Unione nel territorio soggetto a mandato erano ancora più gravi, se possibile, di quelle imputatele sul suo proprio territorio.
In questa situazione, i due Stati africani che ‛erano già stati membri della Società delle Nazioni, l'Etiopia e la Liberia, presentarono entrambi reclami dinanzi alla Corte internazionale di giustizia, denunciando l'apartheid e le altre pratiche da essi ritenute un'infrazione, da parte dell'Unione, agli obblighi impostile dall'accordo internazionale sulla base del quale aveva accettato il mandato.
Lo Stato convenuto presentò, dinanzi alle accuse degli Stati attori, diverse eccezioni. Con una sentenza del 21 dicembre 1962 la Corte ne respinse alcune e ne rinviò altre alla sentenza finale: era così aperta la strada alla discussione della sostanza della controversia.
Questa fu risolta dalla sentenza del 18 luglio 1966: in essa la Corte (la maggioranza fu raggiunta col voto del Presidente, che a norma di statuto decide in caso di parità) stabili che la Liberia e l'Etiopia non erano legittimate a intervenire come attori contro l'Unione, e ciò in base alla considerazione che il loro interesse alla difesa dei diritti dell'uomo nel territorio soggetto a mandato rivestiva un carattere meramente morale, ma non costituiva un interesse giuridico sufficiente per presentare reclami dinanzi alla Corte.
Come nessun altro emesso da tribunali internazionali, il verdetto scatenò un'ondata di proteste in tutto il Terzo Mondo, ondata che non poteva non ripercuotersi nella XXI sessione dell'Assemblea generale, che doveva essere tenuta nel settembre successivo.
E l'Assemblea decise infatti, nella risoluzione 2.145 (XXI) la ‛fine' del mandato, sulla base del fatto che l'Unione Sudafricana aveva amministrato il territorio in modo contrario al mandato, alla Carta delle Nazioni Unite e alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo.
Sul terreno strettamente giuridico, la situazione così creata fu immediatamente chiarita dal Consiglio di sicurezza, il quale confermò la risoluzione dell'Assemblea con la propria risoluzione 276 (1970).
Oltre a questa risoluzione il Consiglio di sicurezza - appena fu evidente la resistenza sudafricana a sottomettersi - approvò il 29 luglio 1970 la 284, con cui chiedeva alla Corte internazionale di giustizia un parere consultivo sulla seguente questione: ‟Quali conseguenze giuridiche derivano per gli Stati dalla presenza perdurante del Sudafrica in Namibia, nonostante la risoluzione 276 (1970) del Consiglio di sicurezza?"
Il Consiglio adotta così, per designare il territorio per l'innanzi chiamato Africa del Sud-Ovest, il nome di Namibia, datogli dall'Assemblea generale nella sua risoluzione 2.372 (XXII).
Non è questa la sede per un'analisi del parere del 21 giugno 1971, col quale la Corte internazionale di giustizia rispose alla questione avanzata dal Consiglio di sicurezza. Non possiamo però fare a meno di dire ch'esso rappresenta una delle sue decisioni dottrinalmente più ricche. Basti ricordare che il dispositivo del parere approvato con tredici voti contro due nella prima parte e con undici contro quattro nella seconda, era così formulato: ‟1) la perdurante presenza del Sudafrica in Namibia è illegale, ragione per la quale il Sudafrica ha l'obbligo di cessare immediatamente l'amministrazione di Namibia, ponendo così fine all'occupazione del territorio; 2) gli Stati membri delle Nazioni Unite hanno l'obbligo di riconoscere l'illegalità della presenza del Sudafrica in Namibia e l'invalidità delle misure prese dal Sudafrica in nome della Namibia o in cose che alla Namibia si riferiscano, e di astenersi da ogni atto e, in particolare, da ogni relazione con il governo sudafricano che implichino il riconoscimento della legalità di detta presenza e di detta amministrazione, o che costituiscano un appoggio o un'assistenza sotto questo profilo; 3) gli Stati non membri delle Nazioni Unite sono tenuti, nei limiti del precedente sottopar. 2, a collaborare con l'azione delle Nazioni Unite per quanto riguarda la Namibia".
Sebbene non fossero direttamente connesse con l'oggetto della consultazione, il principale organo giuridico delle Nazioni Unite ha quindi confermato, almeno implicitamente, altre risoluzioni del Consiglio di sicurezza e dell'Assemblea generale riguardanti la Namibia. La più importante è quella approvata nella V sessione straordinaria dell'Assemblea (1967), nella quale si stabili di creare un Consiglio per la Namibia, stabilendo così una sorta di amministrazione de iure del territorio e riducendo semplicemente al rango di un'amministrazione de facto quella che esercitava, e tuttora esercita, il Sudafrica. Non si scorgono tuttavia sintomi di un mutamento di circostanze tale da rendere possibile la decolonizzazione del territorio.
10. La decolonizzazione economica, i principî di amicizia e di cooperazione tra gli Stati e il nuovo ordine economico internazionale
Se l'indipendenza politica, conseguita da un gran numero di popoli (quasi tutti del Terzo Mondo) ha rappresentato per essi una meta faticosamente perseguita nel corso di anni, essa non escludeva tuttavia altre rivendicazioni, che oltrepassavano la sfera politica per incidere sul terreno economico.
La prima e fondamentale di tali rivendicazioni non poteva esser più chiara. Una volta che per diverse vie pacifiche o violente - si erano costituiti in questi territori poteri pubblici titolari della sovranità corrispondente ai rispettivi popoli o nazioni, i loro membri si resero conto - ancor più chiaramente, se possibile, che nella fase coloniale - come tutto ciò che nei loro territori avesse un valore economico di una certa entità fosse in mano straniera. Non soltanto miniere, fabbriche, installazioni elettriche o portuali, ma anche gran parte delle proprietà urbane o agricole appartenevano ai colonizzatori, o comunque a stranieri. Da questa situazione deriva il fatto che, nei movimenti di liberazione, l'aspirazione all'indipendenza si associa sin dal primo momento alla proclamazione di programmi più o meno socialisti consistenti nel propugnare, con gradi diversi di radicalismo a seconda dei casi, una redistribuzione dei redditi; a questo fine, era indispensabile che le ricchezze di ogni territorio, sin allora in mani straniere, fossero trasferite nelle mani dei nuovi Stati o dei loro cittadini.
Era anche naturale che, sin dal loro ingresso nelle Organizzazioni internazionali, i nuovi Stati vedessero questa loro fondamentale rivendicazione appoggiata sia dai paesi socialisti sia dalla maggioranza di quelli ispanoamericani. Questo perché i paesi dell'America Meridionale e Centrale sapevano per propria esperienza che l'indipendenza politica è illusoria, o è poca cosa, quando si associa allo sfruttamento economico straniero; proprio in essi, dunque, quando non sono stati governati da uomini al servizio d'interessi stranieri, sono state elaborate le tesi sinora più avanzate riguardo alla penetrazione capitalista straniera, il cui peso non diviene evidente se non parecchi anni dopo il conseguimento dell'indipendenza.
Quando il Terzo Mondo si rende indipendente, il capitalismo straniero non ha bisogno di penetrarvi, giacché, nella maggioranza dei casi, vi si trova già installato praticamente sin dai tempi della colonizzazione.
In effetti, la colonizzazione del sec. XIX era solo in piccola parte ispirata dalla brama di conquiste o dal nobile desiderio d'incivilire i popoli arretrati. Il suo scopo fondamentale era di natura economica, e cioè quello di procurare ai paesi industriali generi alimentari e materie prime a basso prezzo. A questo primo scopo si aggiunge poi, se il nucleo di coloni diventa abbastanza ampio, uno scopo complementare: fare cioè di ogni colonia un mercato per i prodotti industriali esportati dalla metropoli o da altri paesi che di volta in volta si trovino alla testa dello sviluppo economico.
Dinanzi a una situazione siffatta, gli strumenti giuridici ammessi dal diritto degli Stati occidentali, come l'espropriazione per ragioni di pubblica utilità o la nazionalizzazione, erano difficilmente adoperabili, essendo subordinati al pagamento di un indennizzo immediato, adeguato ed effettivo. Il settore forse più sviluppato del diritto internazionale era quello della responsabilità dello Stato in caso di danni a stranieri: materia nella quale numerose sentenze arbitrali e della Corte dell'Aia si erano mostrate abbastanza rigorose per quanto riguarda il rispetto della proprietà privata contro espropri operati da Stati a danno di stranieri.
La conservazione di siffatte concezioni giuridiche avrebbe reso impossibile agli Stati del Terzo Mondo sottrarsi alla propria dipendenza economica. Né d'altra parte, bisognosi com'erano, per il proprio sviluppo economico, d'investimenti stranieri, essi potevano - a parte il caso di alcuni uomini politici irresponsabili - chiedere questo aiuto senza fornire agli investitori certe garanzie; ciò spiega la vaghezza che, almeno agli inizi, ha accompagnato il principio, derivato da quello dell'autodeterminazione, della sovranità dei popoli sulle loro ricchezze e risorse naturali.
La formulazione di questo principio fondamentale fu dovuta all'Assemblea generale delle Nazioni Unite la quale, nella risoluzione 1.803 (XVII) del 1962, dichiarava (dopo un ampio preambolo): 1) il diritto dei popoli e delle nazioni alla sovranità permanente sulle proprie ricchezze e risorse naturali dev'essere esercitato nell'interesse dello sviluppo nazionale e del benessere del popolo dello Stato in questione; 2) la ricerca, lo sviluppo e lo sfruttamento delle risorse, come anche l'importazione di capitale straniero necessario all'uopo, dovranno conformarsi alle norme che i popoli e le nazioni avranno liberamente considerato necessarie o desiderabili per autorizzare, limitare o vietare dette attività; 3) nei casi in cui si conceda l'autorizzazione, il capitale introdotto nel paese dovrà conformarsi alle norme di tale autorizzazione, delle leggi nazionali vigenti e del diritto internazionale. Gli utili ricavati saranno distribuiti nella proporzione liberamente concordata, in ciascun caso, tra gli investitori e lo Stato nel quale l'investimento è effettuato, badando di non limitare per nessun motivo la sovranità dello Stato in questione sulle sue ricchezze e risorse naturali; 4) la nazionalizzazione, l'espropriazione o la requisizione dovranno fondarsi su ragioni o motivi di utilità pubblica, di sicurezza o d'interesse nazionale; ragioni e motivi che sono riconosciuti superiori al mero interesse particolare o privato, sia nazionale che straniero. In questi casi, sarà pagato al proprietario l'indennizzo corrispondente in base alle norme vigenti nello Stato che, nell'esercizio della sua sovranità, adotti misure del genere, e in conformità con il diritto internazionale. In tutti i casi in cui il problema dell'indennizzo dia origine a una controversia, si farà ricorso alla giurisdizione nazionale dello Stato responsabile delle misure di nazionalizzazione o di espropriazione. Cionondimeno, in seguito ad accordi intervenuti tra Stati sovrani e altre parti interessate, sarà possibile dirimere la controversia mediante arbitrato o una composizione giudiziaria internazionale; 5) il libero e fruttuoso esercizio della sovranità dei popoli e delle nazioni sopra le proprie risorse naturali dovrà essere promosso attraverso il mutuo rispetto tra gli Stati, basato sull'uguaglianza di sovranità; 6) la cooperazione internazionale ai fini dello sviluppo economico dei paesi in via di sviluppo - che consista d'investimenti di capitali (pubblici o privati), di scambi di beni o servizi, di assistenza tecnica o di scambi d'informazioni scientifiche - sarà di natura tale da favorire gli interessi dello sviluppo nazionale indipendente di tali paesi, e si baserà sul rispetto della loro sovranità sulle ricchezze e risorse naturali; 7) la violazione dei diritti sovrani dei popoli e delle nazioni sulle proprie ricchezze e risorse naturali è contraria allo spirito e ai principî della Carta delle Nazioni Unite, e ostacola lo sviluppo della cooperazione internazionale e il mantenimento della pace; 8) gli accordi - in materia d'investimenti stranieri - liberamente concertati da Stati sovrani dovranno essere osservati in buona fede: gli Stati e le organizzazioni internazionali dovranno rispettare rigorosamente e scrupolosamente la sovranità dei popoli e delle nazioni sulle loro ricchezze e risorse naturali, in conformità con la Carta e con i principi contenuti nella presente risoluzione".
A rigore, non è questa risoluzione a dare inizio alla decolonizzazione economica all'interno dell'ONU, dato che sin dal 1960 l'Assemblea generale aveva avviato un nuovo processo con la programmazione di un ‛decennio per lo sviluppo' (1 gennaio 1961-31 dicembre 1970): un progetto ambizioso, che l'esperienza doveva dimostrare realizzabile soltanto in minima parte. L'innalzamento del livello di vita di quelli che erano ormai chiamati ‛paesi in via di sviluppo' era incompatibile con la sopravvivenza della colonizzazione economica, che in ogni sessione dell'Assemblea generale o in ogni riunione di altri organi doveva negli anni successivi essere oggetto degli attacchi più risoluti.
La risoluzione 1.803 (XVII) non poteva avere come effetto una soluzione definitiva del problema consistente nel rendere i paesi di nuova indipendenza effettivamente padroni delle proprie ricchezze e risorse naturali. Frutto di un compromesso tra i diversi gruppi di Stati, come rivela il fatto di essere stata approvata con i voti contrari della Francia e dell'Unione Sudafricana e con le astensioni di quasi tutti gli Stati socialisti, essa era sufficientemente ambigua nel punto chiave dell'indennizzo, perché i commentatori occidentali sostenessero che non ne usciva modificata l'antica norma consuetudinaria internazionale, che prevedeva l'indennizzo immediato, adeguato ed effettivo; interpretazione, questa, che fu respinta negli ambienti in cui predominavano le correnti socialiste e del Terzo Mondo. In quanto alla determinazione dell'indennizzo, la risoluzione si rimetteva, oltre che all'ordinamento interno dello Stato che adottava provvedimenti di espropriazione o di nazionalizzazione, al diritto internazionale. Il problema era così spostato: si trattava cioè di determinare se il diritto internazionale permanesse inalterato nelle sue norme sulla protezione della proprietà privata straniera, ovvero se avesse subito qualche modificazione sostanziale.
L'impossibilità di accordo tra i diversi gruppi di Stati su questo punto si è rivelata chiaramente nelle svariate risoluzioni approvate dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite a complemento della 1.803, risoluzioni che fanno pendere sempre più chiaramente la bilancia - abbastanza equilibrata nella risoluzione del 1962 - a favore della sovranità sulle ricchezze naturali contro la proprietà straniera, come avremo occasione di vedere in qualcuna delle risoluzioni più recenti.
Accanto alla rivendicazione sulle ricchezze e risorse esistenti nel loro territorio, gli Stati del Terzo Mondo ne avanzarono sin dal primo momento un'altra, per loro non meno vitale: quella del miglioramento della loro posizione nel commercio internazionale. L'economia di questi paesi (quasi sempre ex colonie) era stata organizzata dagli antichi Stati metropolitani ai fini della produzione di generi alimentari e di materie prime; essi dovevano quindi importare prodotti industriali e quasi sempre si specializzavano nella produzione della risorsa che in ciascun caso risultasse più ricca (è il sistema denominato, con qualche esagerazione, della ‛monocoltura'). Una volta conseguita l'indipendenza, i popoli coloniali hanno visto deteriorarsi le proprie relazioni commerciali a causa del diverso ritmo di crescita dei prezzi: il prezzo dei prodotti industriali importati cresceva cioè più rapidamente di quello delle materie prime e dei generi alimentari esportati. Questo fatto spiega l'esigenza, avanzata da questi popoli, di un trattamento preferenziale nel commercio internazionale: obiettivo assai spesso raggiunto nei trattati commerciali da essi stipulati. Sotto questo profilo, presenta uno speciale interesse la revisione del GATT (Ginevra, 1965), il cui art. XXVIII, 8 recita: ‟Le Parti contraenti sviluppate non si aspettano reciprocità, da parte delle Parti contraenti meno sviluppate, circa gli obblighi assunti di ridurre o eliminare, nelle transazioni commerciali, i dazi doganali o altri ostacoli agli scambi".
Entrambe le strade verso la decolonizzazione economica - la proclamazione del diritto dei popoli sulle proprie ricchezze naturali e l'abbandono del principio di reciprocità negli scambi commerciali tra paesi in via di sviluppo e Stati sviluppati - non rappresentavano altro che il punto di partenza di un lungo cammino, le cui tappe successive saranno segnate dalla XXV sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, tenuta nel 1970.
In questa sessione fu approvata con la procedura del consenso, senza necessità di votazione, sebbene non senza riserve da parte di taluni Stati, la risoluzione 2.625 (XXV), la quale contiene la ‛Dichiarazione sui principî di diritto internazionale riguardanti le relazioni di amicizia e la cooperazione tra gli Stati in conformità con la Carta delle Nazioni Unite'.
Con la sua approvazione si chiude un lungo processo, iniziatosi con il tentativo, promosso da alcuni Stati socialisti, di ottenere dall'Assemblea generale una sorta di codificazione di ciascuno dei principi enunciati nell'art. 2 della Carta e delle conseguenze che da ognuno di essi, in quanto ‛principî', potevano discendere ai fini della regolazione della coesistenza pacifica tra Stati aventi una diversa organizzazione sociale, economica e politica. A onta delle spiegabili resistenze di alcuni paesi occidentali, l'idea maturò abbastanza perché l'opposizione fosse vinta - senz'altra concessione che quella di un mutamento di denominazione - e si potesse giungere all'approvazione della risoluzione 1.815 (XVII). Da quest'ultima un Comitato speciale di ventisette membri prese lo spunto per preparare lo sviluppo cui erano destinati i principî di astensione dal ricorso alla minaccia o all'uso della forza, di composizione pacifica delle controversie tra Stati, del dovere di reciproca cooperazione tra Stati, dell'uguaglianza di diritti e dell'autodeterminazione dei popoli, di uguaglianza sovrana degli Stati e dell'attuazione in buona fede dei doveri imposti agli Stati dalla Carta. Il Comitato lavorò con zelo in riunioni tenute negli anni 1964-1969, ricorrendo alla procedura del consenso la quale, se presenta il grave inconveniente di non offrire soluzione nel caso di problemi sui quali si scontrino posizioni irriducibili, ha in cambio il vantaggio che, se le norme sono state oggetto di un accordo unanime, è difficile negar loro - anche se innovano in qualche misura nella normativa anteriore - validità in un nuovo diritto internazionale: quello cioè (anche se l'espressione è stata evitata) della coesistenza pacifica.
Tra i ‛principî' costitutivi della risoluzione 2.625 (XXV) dell'Assemblea generale troviamo, mescolato con quello dell'uguaglianza di diritti dei popoli, il principio dell'autodeterminazione, il cui contenuto è specificato come segue: ‟In virtù del principio, consacrato dalla Carta, dell'uguaglianza di diritti e della libera determinazione, tutti i popoli hanno il diritto di determinare liberamente, senza ingerenza esterna, la propria condizione politica e di perseguire il proprio sviluppo economico, sociale e culturale, e ogni Stato ha il dovere di rispettare tale diritto in conformità con le disposizioni della Carta.
Ogni Stato ha il dovere di promuovere, con azione congiunta o individuale, l'applicazione del principio dell'uguaglianza di diritti e dell'autodeterminazione dei popoli in conformità con le disposizioni della Carta, e di prestare assistenza alle Nazioni Unite nell'adempimento degli obblighi previsti dalla Carta riguardo all'applicazione di detto principio, allo scopo di: a) incoraggiare le relazioni di amicizia e la cooperazione tra gli Stati; e b) porre rapidamente fine al colonialismo, tenendo nel debito conto la volontà liberamente espressa dai popoli interessati, e tenendo presente che la soggezione dei popoli al giogo, alla dominazione e allo sfruttamento straniero rappresenta una violazione del principio, una negazione dei diritti fondamentali dell'uomo, ed è infine contraria alla Carta delle Nazioni Unite.
Ogni Stato ha il dovere di promuovere, con azione con- giunta o individuale, il rispetto universale dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, come anche l'effettualità di tali diritti e libertà in conformità con la Carta delle Nazioni Unite.
L'elaborazione di un diritto sovrano e indipendente, la libera associazione o integrazione con uno Stato indipendente o l'acquisizione di qualunque status politico liberamente deciso da un popolo sono altrettante forme dell'esercizio del diritto di libera autodeterminazione.
Ogni Stato ha il dovere di astenersi da qualsiasi ricorso alla forza che privi i popoli suddetti del diritto alla libera autodeterminazione, alla libertà e all'indipendenza. Negli atti concreti e nella resistenza che, al fine di esercitare il diritto alla libera autodeterminazione, vengano opposti a un siffatto ricorso alla forza detti popoli potranno chiedere e ricevere appoggio, in conformità con gli scopi e i principî della Carta delle Nazioni Unite.
Il territorio di una colonia o altro territorio non autonomo ha, in virtù della Carta delle Nazioni Unite, uno status giuridico distinto e separato da quello del territorio dello Stato amministratore, e detto status giuridico distinto e separato, in conformità con la Carta, sussisterà sinché il popolo della colonia o territorio non abbia esercitato il diritto di libera autodeterminazione in conformità con la Carta e, in particolare, in conformità con i suoi scopi e principî.
Nessuna delle disposizioni dei precedenti paragrafi sarà intesa nel senso di autorizzare o di promuovere qualsiasi azione intesa a infrangere o menomare, totalmente o parzialmente, l'integrità territoriale degli Stati sovrani e indipendenti che si comportino in conformità con il principio dell'uguaglianza di diritti e della libera autodeterminazione dei popoli, e siano quindi dotati di un governo che rappresenti la totalità del popolo appartenente al territorio, senza distinzione di razza, credo o colore.
Tutti gli Stati si asterranno da qualsiasi azione diretta a minare parzialmente o totalmente l'unità nazionale e integrità territoriale di qualsiasi altro Stato o paese
Chiuso, con l'approvazione per consenso della risoluzione 2.625 (XXV) dell'Assemblea generale, il ciclo della creazione di un Corpus iuris di norme riguardanti la de- colonizzazione politica, il processo della decolonizzazione economica doveva fare un considerevole passo in avanti con la successiva risoluzione dell'Assemblea generale - la 2.626 (XXV) - denominata ‛Strategia per lo sviluppo', nella quale si indicano gli obiettivi, e sono elaborati i mezzi per raggiungerli, per un periodo che va dall'1 gennaio 1971 al 31 dicembre 1980 (il ‛secondo decennio per lo sviluppo').
Sebbene non sia evidentemente questa la sede per una spiegazione delle cause che, nel decennio precedente, avevano prodotto un esito diverso a seconda dei paesi (e comunque inferiore alle attese), come anche dei rimedi ritenuti opportuni per programmare il secondo decennio con maggior efficacia, non possiamo evitare di osservare che, per i ‛popoli in via di sviluppo', il superamento della loro situazione attuale appare inseparabilmente associata al pieno conseguimento della decolonizzazione economica.
Gli sforzi dispiegati dall'Assemblea generale e dal Consiglio economico e sociale dell'ONU per il raggiungimento di questa meta sono oggi coordinati con quelli di altri organi sussidiari dell'Assemblea, e non soltanto quelli già menzionati trattando della decolonizzazione politica, ma altri come l'UNCTAD che, con le sue riunioni tenute a Ginevra (1964), Nuova Delhi (1968) e Santiago del Cile (1972) ha costituito una forza di propaganda e di pressione altrettanto potente della stessa Assemblea generale.
Per alcuni anni si è potuto parlare, come nuovo settore dell'ordinamento giuridico internazionale, del cosiddetto ‛diritto internazionale dello sviluppo' (v. Virally, 1963), nel quale le norme già chiaramente dotate di positività occupano uno spazio minore rispetto a quello occupato da principî, postulati e rivendicazioni quasi sempre diretti ad accelerare il processo sfociante nell'indipendenza economica degli Stati.
Questa fase, che ha conosciuto rapidi progressi, non era però destinata a essere l'ultima per quanto attiene alla de- colonizzazione economica. La crisi petrolifera, la cui causa immediata o pretesto sta nell'atteggiamento dei paesi produttori, in gran parte arabi, dinanzi alle potenze occidentali, imputate di fornire appoggio militare ed economico a Israele, provocò la convocazione della VI sessione straordinaria dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite (aprile-maggio 1974), nella quale furono esaminati in modo approfondito i problemi economici del Terzo Mondo, in gran parte dovuti, o comunque aggravati dalla mancanza di una piena indipendenza sotto il profilo economico (sebbene potesse accadere paradossalmente che un gruppo di paesi, inclusi nel Terzo Mondo, si trovassero in grado, sfruttando la posizione privilegiata derivante dall'esser produttori di petrolio, d'imporre la propria volontà alle potenze più sviluppate).
Di fronte a queste ultime diventavano sempre più esigenti e precise, sia negli organi dell'ONU che in altre organizzazioni, le rivendicazioni del gruppo di paesi (del Terzo Mondo) inizialmente chiamato ‛dei settantasette', poi fortemente accresciuto in seguito alla decolonizzazione. La VI sessione straordinaria dell'Assemblea generale credette giunto il momento di affrontare nel suo insieme il problema della modificazione dell'ordine economico internazionale esistente, e proclamò a tale scopo - sempre con la procedura del consenso (sebbene non senza qualche riserva da parte di alcuni Stati) - due risoluzioni: la 3.201(S. VI) sul ‛Nuovo ordine economico internazionale', e la 3.202 sul ‛Programma d'azione per la costituzione di un nuovo ordine economico internazionale' (1 maggio 1974).
L'intento chiaramente rivoluzionario che animò l'Assemblea generale nella sua sessione straordinaria si trova apertamente espresso nella prima di queste due risoluzioni: ‟L'attuale ordine economico internazionale si trova in contraddizione diretta con l'evoluzione delle relazioni politiche ed economiche internazionali nel mondo contemporaneo. A partire dal 1970 l'economia mondiale ha sperimentato una serie di crisi gravi, le cui ripercussioni sono state pesanti specialmente nei paesi in via di sviluppo, a causa della loro maggior vulnerabilità alle vicende economiche esterne. I paesi in via di sviluppo sono diventati un fattore potente, in grado di far sentire la loro influenza in tutte le sfere dell'attività internazionale" (Nazioni Unite, Assemblea generale. Sesta sessione straordinaria. Supplemento n. 1 A. 9.559).
Dopo queste risoluzioni l'Assemblea Generale, nella sessione ordinaria dell'autunno 1974, approvò con la risoluzione 3.281 (XXIX) la ‛Carta dei diritti e dei doveri economici degli Stati', che rappresenta un evidente complemento delle risoluzioni approvate nel maggio.
L'iniziativa della Carta si deve al presidente del Messico L. Echeverria nella III Conferenza dell'UNCTAD (Santiago del Cile, 1972). Le Dichiarazioni o Carte dei diritti e doveri si inseriscono in una costante tradizione dei paesi ispanoamericani. In quel continente esistono infatti varie convenzioni internazionali a questo riguardo, né bisogna dimenticare che fu un giurista americano, R. J. Alfaro, a lavorare col maggiore impegno, nella Commissione delle Nazioni Unite per il diritto internazionale, alla preparazione di una ‛Dichiarazione dei diritti e doveri fondamentali degli Stati', della quale l'Assemblea generale, nel 1949, si limitò a prendere atto, senza che nessuno abbia fatto in seguito il minimo sforzo per trasformare quel progetto in convenzione.
Dopo di allora, l'ingresso di nuovi Stati afroasiatici nell'ONU ha prodotto sotto questo aspetto un mutamento di mentalità, che li ha indotti a confidare nell'efficacia, pur se a lunga scadenza, di questa sorta di Dichiarazioni o Carte: esse posseggono infatti un contenuto rivoluzionario mirante, piuttosto che a proclamare diritti che già posseggano una certa reale validità sociale, a sistematizzare le rivendicazioni contro un ordine stabilito che venga reputato ingiusto o comunque inadeguato a una situazione risultante da mutamenti recenti.
Il tenore delle risoluzioni del 1974, cui bisogna aggiungere le norme e le rivendicazioni formulate nella risoluzione 3.362 (S. VII), votata dall'Assemblea generale il 16 settembre 1975 con il titolo ‛Sviluppo e cooperazione economica internazionale', implica un ampio programma di misure centrate direttamente sullo sviluppo economico degli Stati, molte delle quali implicano la rottura dei vincoli con i regimi postcoloniali o di colonialismo economico.
In primo luogo, rispondono a questa finalità le svariate risoluzioni dell'Assemblea generale in materia di sovranità dei popoli sulle loro ricchezze naturali. Dopo la 1.803 del 1962, su questo tema l'Assemblea generale ha approvato la 2.158 (XXI) del 25 novembre 1966, l'art. 1 dei due Patti sui diritti dell'uomo, nei quali si fa menzione esplicita del diritto sulle ricchezze e risorse naturali, e la 3.117 (XXVIII) del 17 dicembre 1973.
La rilevanza giuridica di queste risoluzioni è rappresentata dall'indebolimento progressivo, in esse implicito, della norma del rispetto assoluto della proprietà privata, quando essa entri in contrasto con il principio o con la norma, gerarchicamente più elevati, del diritto dei popoli allo sviluppo, nel quale rientra il diritto alle ricchezze che si trovino nel proprio territorio. Bisogna anche aggiungere i tentativi compiuti per porre limiti all'attività delle imprese prima chiamate ‛multinazionali', e ora designate dall'ONU come ‛transnazionali', che sono le principali detentrici delle ricchezze e risorse dei popoli in via di sviluppo.
In secondo luogo, si può considerare consolidato, sulla base giudirica fornita dalla revisione del GATT, il diritto dei popoli in via di sviluppo a un trattamento più favorevole di quello basato sulla reciprocità, sebbene tutte le dichiarazioni di principio in tale materia non possano avere un valore vincolante superiore a quello di semplici orientamenti per gli Stati sviluppati che stipulino patti con Stati in via di sviluppo.
Per il resto, le richieste di questi ultimi si collocano, giuridicamente, sul terreno delle mere rivendicazioni. Le più concrete e precise tra queste sono quelle già formulate nella Carta dei diritti e doveri economici degli Stati, in quanto dalla natura giuridica di questo documento derivano talune conseguenze, che sono di solito associate a ogni Dichiarazione di diritti: a) la presenza di norme di carattere programmatico, tali cioè da segnare l'orientamento che l'organo stesso fonte della Dichiarazione o altri subordinati debbono seguire nell'emanazione di altre norme per l'applicazione dei diritti enunciati; b) in ogni Dichiarazione di diritti, oltre all'eventuale esistenza di diritti che possono acquisire validità immediata, ne esistono altri che stabiliscono o ampliano una sfera di libertà, che, al contrario, non riveste se non la natura di un obbligo negativo, di astensione, che pesa su soggetti terzi, mentre, quando si tratta di diritti di ordine economico, l'effettualità di tali diritti esige, da parte di soggetti terzi, prestazioni positive, consistenti nel dare o nel fare: ciò che risulta particolarmente difficile quando tali soggetti siano Stati sovrani.
A onta di queste difficoltà, la decolonizzazione economica è in cammino. In tutto ciò che la riguarda si riscontra una tensione esistente tra le norme di diritto internazionale da lungo tempo in vigore, che si ritrovano in certo modo indebolite in seguito alla loro impugnazione da parte della maggioranza dell'attuale comunità internazionale, e altre norme dirette a tutelare le rivendicazioni degli Stati in via di sviluppo, le quali ultime, sorte bensì contro il diritto internazionale in vigore, sono però suscettibili, se spogliate dell'eventuale zavorra utopistica, d'integrarsi in un nuovo diritto internazionale.
Precisare le diverse fasi percorse, nella loro evoluzione, da ciascuna delle proposizioni contenute nelle risoluzioni dell'ONU miranti a eliminare il colonialismo economico non sarebbe un compito impossibile. I risultati ottenibili non avrebbero però altro valore che quello di un'istantanea verisimilmente bisognosa di rettifiche a breve scadenza, per tacere del soggettivismo in cui inevitabilmente cadrebbe chi si avventurasse a proporre una qualsiasi soluzione in una materia tanto controversa.
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