Abstract
Viene esaminato l’istituto giuridico del decreto-legge, così come statuito all’articolo 77 della Costituzione e all’articolo 15 della legge 23.8.1988, n. 400. L’analisi verte sul raffronto tra la previsione costituzionale e la prassi, in una prospettiva diacronica, al fine di mettere in evidenza gli usi e gli abusi dell’istituto da parte dell’esecutivo, in particolare nel corso degli ultimi due decenni. Una specifica attenzione, inoltre, è dedicata all’analisi della giurisprudenza della Corte costituzionale che, soprattutto di recente, si è in più di una circostanza espressa sugli abusi nell’impiego del decreto-legge da parte dell’esecutivo. L’analisi della più recente giurisprudenza costituzionale, inoltre, sollecita ad un ripensamento di quelle ricostruzioni dottrinali che sembravano ormai consolidatesi nel dibattito gius-pubblicistico e che, nel corso degli ultimi anni, sono state oggetto di un profondo ripensamento in sede teorica.
Sebbene la dottrina italiana del periodo liberale fosse fortemente debitrice nei confronti della dogmatica statualistica di matrice tedesca – la quale tendeva a riconoscere la centralità dell’esecutivo nell’articolazione dei poteri statali –, tuttavia, essa si trovò ad operare all’interno di un sistema costituzionale ancora ispirato alla tradizione francese e che, quindi, si era evoluto nel senso di riconoscere una supremazia del potere legislativo rispetto all’esecutivo. L’articolo 6 dello Statuto Albertino, infatti, nello stabilire che «Il Re nomina tutte le cariche dello Stato e fa i decreti e regolamenti necessari per l’esecuzione delle leggi, senza sospenderne l’osservanza o dispensarne», riproduceva alla lettera quanto stabilito dall’articolo 13 della Charte del 1830 anche se, a differenza del testo francese, l’articolo 6 dello Statuto non prevedeva l’avverbio «jamais», con riferimento alla possibilità di sospendere l’osservanza o dispensare dall’esecuzione i suddetti decreti e regolamenti. Fu proprio questo specifico dato letterale che condusse una parte della dottrina italiana del tempo a ritenere che lo Statuto non vietasse, in modo assoluto, la facoltà del governo di assumere funzioni legislative (al riguardo, si rinvia a Fioravanti, M., Le potestà normative del governo. Dalla Francia d’Ancien régime all’Italia liberale, Milano, 2009, 174 ss.).
Sebbene, infatti, la decretazione d’urgenza nei primi anni dell’unificazione avesse assunto, nella prassi, forme non tipizzate, i governi liberali utilizzarono questa particolare tipologia di fonti (in un primo tempo le “ordinanze” secondo il modello francese, in seguito i bandi militari, quindi, definitivamente, i decreti reali) che assunse, nel corso dei decenni, un impiego considerevole, sfociando durante il periodo del primo conflitto bellico in un vero e proprio abuso (si calcola, infatti, che dal 1914 al 1919, siano stati emanati ben 2.153 decreti reali).
La dottrina maggioritaria, prima dell’emanazione della l. 31.1.1926, n. 100, considerava la decretazione d’urgenza come un atto di assunzione di funzioni normative da parte dell’esecutivo e, pertanto, la sua illegittimità si riteneva sanata attraverso la conversione in legge dell’atto governativo medesimo (così Fioravanti, M., Le potestà normative, cit., 180, ma si veda anche Ciaurro, G.F., Decreto legge, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 2). Al riguardo, non si può non ricordare come la stessa Corte di Cassazione di Roma, a Sezioni Unite, con un’importante decisione del 17.11.1888 (cfr. Foro it., XV, 1890, I, 8 ss.), avesse riconosciuto all’esecutivo la facoltà di deliberare «anche in via legislativa, decreti reali, solo in via di urgenza e con riserva di proporli al Parlamento per convertirli in legge: in questo caso, hanno essi vigore provvisorio di legge, finché … non li converta definitivamente in legge il Parlamento medesimo». Anche se questo principio, come sottolineava la Suprema Corte di Cassazione romana, non era rinvenibile nel testo dello Statuto, tuttavia esso «non contraddice lo Statuto, anzi lo esplica e lo compie, perché nella vita quotidiana di uno Stato non si provvede a sole esigenze ordinarie e sempre rinascenti, che uno Statuto abbia potuto già prevedere», ciò in ragione anche del fatto che alla risoluzione delle «invincibili necessità del fatto», non può certo sottrarsi e rimanere inerte il potere esecutivo, chiamato ad essere il «custode permanente della vita dello Stato».
Sebbene non siano mancati casi in cui la Corte di Cassazione di Roma addirittura giungesse a disapplicare alcuni decreti-legge non convertiti dal Parlamento, qualificandoli come mere “proposte di legge”, sempre le Sezioni Unite, con un’importante sentenza del 16.11.1922, non mancarono di osservare che «non esiste nessuna norma autorizzante il governo a emanare decreti-legge. Ed è precisamente questa la ragione categorica che impone sollecitudine e diligenza nel ripristinare … i poteri del parlamento. … Qualora tale obbligo non sia adempiuto, nel tempo e nelle circostanze in cui l’adempimento [ossia la conversione del decreto-legge da parte del Parlamento] è possibile, i cittadini possono considerarsi dispensati dall’obbedire a una legge incostituzionale».
Fu soltanto nel ventennio fascista, tuttavia, che la decretazione d’urgenza – fino a quel momento soggetta ad una prassi confusa – assunse una propria formalizzazione normativa (si vedano, al riguardo, Celotto, A., L’«abuso» del decreto-legge. Profili teorici, evoluzione storica e analisi morfologica, I, Padova, 1997, 121 ss.; Ciaurro, G.F., Decreto legge, cit., 3 ss.), grazie alla già citata l. n. 100/1926. In particolare, all’art. 3 della suddetta normativa, si stabiliva che il decreto-legge potesse essere emanato «in casi straordinari, nei quali ragioni di urgente e assoluta necessità lo richiedano», che esso dovesse essere presentato per la conversione in legge ad una delle Camere non oltre la terza seduta successiva alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e che, infine, dovesse essere convertito in legge entro due anni da tale pubblicazione. L’efficacia degli emendamenti al testo del decreto-legge sarebbe comunque sempre decorsa dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge di conversione. In seguito, con l’istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni, da parte del legislatore fascista si limitò la possibilità di emettere i decreti-legge a tre sole ipotesi tassative (ossia in caso di necessità per causa di guerra, per urgenti misure di carattere finanziario e tributario, ovvero nelle ipotesi in cui le Commissioni parlamentari competenti non avessero adempiuto, nei termini prescritti dalla legge, alle loro funzioni). Con la successiva l. n. 860/1939, infine, si limitò il termine per la presentazione del decreto-legge alle Camere nei sessanta giorni successivi alla pubblicazione del testo in Gazzetta Ufficiale.
In ragione dei precedenti storici qui analizzati, l’atteggiamento dell’Assemblea Costituente nei confronti dell’istituto del decreto-legge e, più in generale, nei confronti della decretazione legislativa d’urgenza, fu ispirata ad una grande diffidenza. Tuttavia, quale fosse l’effettiva “intenzione del legislatore” costituente rispetto a questo istituto, risulta difficile a dirsi. Sebbene all’interno della seconda sottocommissione si giunse ad approvare all’unanimità, in data 21.9.1946, la proposta dell’On. Bulloni la quale – in maniera assai laconica – affermava a chiare lettere che «Non è consentita la decretazione d’urgenza da parte del Governo», non appena questa parte del progetto costituente fu portata all’attenzione dei lavori dell’Assemblea, le posizioni maggioritarie si indirizzarono verso un orientamento diametralmente opposto.
Un raffronto, anche soltanto testuale, tra la normativa che regolamentava l’istituto del decreto-legge nel corso del ventennio fascista ed il vigente art. 77 della Costituzione repubblicana, del resto, denota una certa continuità nella determinazione dei limiti entro i quali è ancora oggi possibile, per l’esecutivo, esercitare la funzione legislativa. Se, infatti, i presupposti giustificativi della legislazione governativa venivano, già nell’ordinamento pre-repubblicano, riferiti a casi straordinari urgenti e di assoluta necessità, tuttavia, la loro entrata in vigore – per forza propria – avveniva indipendentemente dalla conversione parlamentare. Pertanto, l’obiettivo dell’emendamento aggiuntivo dell’On. Codacci Pisanelli, proposto da quest’ultimo il 16.10.1947 all’Assemblea Costituente – che definì il testo dell’attuale articolo 77 Cost. –, era finalizzato proprio a riconoscere i decreti-legge come fonti normative equiparate alle leggi formali, fonti la cui efficacia temporanea risultava però assai ridotta rispetto al periodo di due anni previsto dalla l. n. 100/1926 (cfr. Paladin, L., Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, 235 ss.). Fu poi l’emendamento proposto dall’On. Tosato, nella successiva udienza del 17.10.1947, a stabilire la decadenza «sin dall’inizio», in luogo dell’abrogazione per il solo futuro, dei decreti non convertiti in legge nei sessanta giorni successivi alla loro pubblicazione.
Inquadrato in questa prospettiva storica di sostanziale continuità con il precedente sistema costituzionale, seppur con gli opportuni aggiustamenti che meglio si addicevano ad un regime repubblicano, il decreto-legge è stato considerato dalla dottrina – con un giudizio non certo privo di severità – come un fenomeno normativo unico nel suo genere, in quanto i decreti-legge sarebbero «atti normativi paradossalmente suscettibili di trasformarsi da fonti del diritto in fonti di illecito, lasciando del tutto privi di fondamento i rapporti instauratisi ai sensi delle loro prescrizioni» (così Paladin, L., Le fonti del diritto, cit., 236). A tale prospettiva teorica, che vede nel decreto-legge l’esercizio di una eccezionale competenza affidata al governo dalla Costituzione, al fine di far fronte a casi straordinari di necessità e urgenza a cui difficilmente si potrebbe provvedere con gli ordinari strumenti legislativi, si contrappone un altro risalente ed autorevole filone teorico – ripreso nel corso degli ultimi due decenni da quella parte della dottrina che ha fortemente criticato il fenomeno del cd. “abuso” dei decreti-legge (v. infra, § 4.) –, e che considera la decretazione d’urgenza come un fenomeno qualitativamente differente dalle modalità ordinarie di produzione del diritto e, pertanto, come fonte extra ordinem (si vedano, per questa ricostruzione, Esposito, C., Decreto-legge, in Enc. dir., XI, Milano, 1962, 835 ss.; Sorrentino, F., Le fonti del diritto amministrativo, in Tratt. Santaniello, diretto da G. Santaniello, Milano, 2004, 153 ss.; Guzzetta, G., Decreto legge, in Diz. dir. pubbl. Cassese, diretto da S. Cassese, III, Milano, 2006, 1752 ss.). Ad avviso di questo filone dottrinale, infatti, il decreto-legge nascerebbe come atto di per sé invalido, in quanto destinato o a decadere retroattivamente, in caso di mancata conversione in legge, ovvero a essere sostituito dalla legge del Parlamento, con efficacia retroattiva, nel caso appunto di una propria conversione.
Indubbiamente, il sintagma «casi straordinari di necessità e d’urgenza» denota un atteggiamento di chiaro self-restraint del Costituente rispetto alla possibilità, da parte del governo, di esercitare il proprio potere normativo. Al riguardo, si è sottolineato come, prima di poter esercitare il potere previsto dall’articolo 77 Cost., il governo dovrebbe procedere ad almeno tre rigorose valutazioni preliminari (così Celotto, A., L’«abuso» del decreto-legge, cit., 401), ossia:
a) alla constatazione che, rispetto alla situazione di fatto venutasi a creare, sia necessaria una regolamentazione normativa nel più breve tempo possibile;
b) all’accertamento dell’impossibilità di ricorrere all’ordinario procedimento legislativo;
c) alla determinazione di utilizzare l’atto derogatorio delle competenze precostituite ex lege.
Un ulteriore limite all’uso della decretazione d’urgenza è stato poi elaborato da quella parte della dottrina che, pur intendendo valutare il concetto di “necessità” come fonte istituzionale del diritto (il rinvio è al celebre scritto di Romano, S., Sui decreti-legge e lo stato d’assedio in occasione del terremoto di Messina e di Reggio Calabria, in Riv. dir. pubbl., 1909, 302 ss.), ha ritenuto opportuno ricondurre tale concetto nel più stretto alveo testuale dell’articolo 77 Cost. che, per l’appunto, intende la “necessità” soltanto come un elemento della procedura costituzionale di emanazione del decreto-legge (cfr. Sorrentino, F., Le fonti del diritto, cit., 160). In questa ottica rigorosa, pertanto, si ritiene, da un lato, che il decreto-legge non sia idoneo a superare il disponibile con legge ordinaria – ed evidentemente neppure a sospendere garanzie o norme costituzionali –, e dall’altro che anche la sussistenza di straordinarie ragioni di necessità ed urgenza non possa giustificare alterazioni nella sfera dei rapporti tra esecutivo e legislativo, in particolare in quei settori in cui la Costituzione ha previsto il controllo politico del Parlamento nei confronti delle decisioni del governo (così, ancora, Sorrentino, F., Le fonti del diritto, 162). Una simile ricostruzione dei limiti all’impiego del decreto-legge risulta ulteriormente avvalorata dal fatto che l’articolo 77 Cost. è l’unica norma sulla formazione delle leggi che, nel nostro ordinamento costituzionale, «consente di provvedere nell’emergenza, ossia è norma di chiusura del sistema, [per cui] il contenuto normativo del decreto può dirsi praticamente illimitato, nei consueti limiti della provvisorietà e della precarietà» (così Modugno, F., Riflessioni interlocutorie sulle conseguenze della trasformazione del decreto-legge, in Scritti in memoria di A. Piras, Milano, 1996, 467).
Al fine di ricondurre su meglio definiti binari il procedimento di formazione del decreto-legge, procedimento che nella prassi aveva subìto già non poche deviazioni nelle prime legislature repubblicane, è intervenuto il legislatore – in verità in maniera alquanto tardiva – con l’art. 15 della l. n. 400/1988, che ha in qualche modo provato a delimitare la latitudine dell’impiego di questo istituto da parte del Governo, approntando anche una serie di previsioni volte a meglio razionalizzarne l’iter di emanazione. Innanzitutto, al secondo comma del suddetto articolo, si è chiaramente stabilito che il governo non può, mediante decreto-legge:
a) conferire deleghe legislative ai sensi dell’articolo 76 Cost.;
b) provvedere nelle materie indicate nell’articolo 72, quarto comma, Cost.;
c) rinnovare le disposizioni di decreti-legge dei quali sia stata negata la conversione in legge con il voto di una delle due Camere;
d) regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti;
e) ripristinare l’efficacia di disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale per vizi non attinenti al procedimento.
Il terzo comma dell’art. 15, inoltre, sancisce un ulteriore limite, stabilendo che il decreto-legge deve contenere misure di immediata applicazione il cui contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo. Al riguardo, proprio di recente, la Corte costituzionale è intervenuta sul punto con la sentenza 13.2.2012, n. 22 che, in qualche modo, ha esteso il suddetto limite non soltanto al decreto-legge in quanto tale, ma anche agli emendamenti al decreto introdotti nella successiva legge di conversione. La Corte, infatti, ha avuto modo di precisare che «si deve ritenere che l’esclusione della possibilità di inserire nella legge di conversione di un decreto-legge emendamenti del tutto estranei all’oggetto e alle finalità del testo originario non risponda soltanto ad esigenze di buona tecnica normativa, ma sia imposta dallo stesso art. 77, secondo comma, Cost., che istituisce un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge … e legge di conversione» (così C. cost., 13.2.2012, n. 22, Cons. in diritto, punto 4.2.).
Risulta condivisibile, in conclusione, la tesi che vede nell’art. 15 della l. n. 400/1988 una portata normativa vincolante e non solo direttiva nei confronti tanto del governo quanto del Parlamento. La suddetta disposizione, infatti, assume un “valore ordinamentale”, ponendosi come una sorta di “legge organica” – per richiamarsi a categorie note in altri ordinamenti europei, come quello spagnolo o francese –, in quanto essa dovrebbe essere intesa come una legge ordinaria rinforzata in senso materiale, in ragione del proprio collegamento con elementi della struttura sostanziale dell’ordinamento costituzionale (così Celotto, A., Un rinvio rigoroso ma… laconico. Linee-guida per una riflessione, in Rass. parl., 2002, 810 ss.).
Ai sensi del secondo comma dell’art. 77 Cost., quando il governo adotta provvedimenti con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere. Al riguardo, se una parte della dottrina ha affermato che questa continuità cronologica e giuridica induce a ritenere che ci si trovi di fronte ad un unico procedimento legislativo, caratterizzato da un particolare grado di complessità (così Di Ciolo, V., Questioni in tema di decreti-legge, Milano, 1970, 306), più opportuno, invece, sembrerebbe parlare al riguardo di due serie procedurali legislative, strettamente connesse tra di loro seppur differenziate (cfr. Paladin, L., Le fonti del diritto, cit., 255). Circa la natura della legge di conversione, risulta ormai prevalente nel dibattito costituzionalistico la tesi della novazione dei decreti-legge da parte delle leggi di conversione, anche tra quegli studiosi che pure ritengono che queste ultime abroghino i rispettivi decreti, sostituendosi ad essi con effetto retroattivo (in questo senso, Pitruzzella, G., La legge di conversione del decreto legge, Padova, 1989, 132; Modugno, F.-Nocilla, D., Riflessioni sugli emendamenti al decreto legge, in Dir. soc., 1973, 356 ss.).
Le leggi di conversione, invece, secondo altri (cfr. Sorrentino, F., Le fonti del diritto, cit. 177), non farebbero che stabilizzare l’efficacia delle disposizioni dei decreti-legge, altrimenti destinati a decadere ab origine e, in questa ottica, la legge di conversione medesima determinerebbe non una novazione del decreto corrispondente, ma semmai un fenomeno di trasformazione dell’atto, assimilabile all’approvazione ovvero alla ratifica. In questa sede, bisogna comunque rilevare come non si siano riscontrati casi, nella prassi, in cui il Parlamento abbia deliberato di voler convertire soltanto in parte un decreto-legge (cfr. Guzzetta, G., Decreto legge, cit., 1749).
Risulta pacifico che con legge di conversione sia possibile emendare il testo del decreto-legge: la tesi dell’inammissibilità degli emendamenti al decreto-legge, che consisteva nel considerare come oggetto di conversione l’atto in sé e non le sue disposizioni particolari, seppur espressa da un’autorevole dottrina (cfr. Esposito, C., Decreto-legge, cit., 849-850) è da subito stata superata nella prassi, anche perché l’art. 77 Cost. nulla espressamente dispone circa il contenuto della legge di conversione. Sebbene si sia rilevato da alcuni l’impossibilità – oltre che l’inopportunità – di elaborare una classificazione degli emendamenti al decreto in sede di conversione parlamentare (così Modugno, F.-Nocilla, D., Riflessioni sugli emendamenti, cit., 431 ss.), tuttavia, ben presto sia la dottrina che la giurisprudenza ordinaria hanno avuto modo di tipizzare i vari emendamenti ai decreti-legge contenuti nelle leggi di conversione, distinguendoli in emendamenti soppressivi, sostitutivi, modificativi, interpretativi e aggiuntivi.
Per quanto concerne gli emendamenti di tipo soppressivo, la giurisprudenza della Corte di Cassazione li ha equiparati ad una mancata conversione parziale del decreto medesimo – e, quindi, riconoscendone l’efficacia ex tunc – sebbene la Corte costituzionale (pur affermando che astrattamente possano darsi emendamenti che implichino una mancata conversione parziale del decreto-legge), ha rimesso la soluzione di questa problematica all’esame dell’interprete, da compiersi caso per caso (così C. cost., 22.2.1985, n. 51, principio questo recentemente ribadito da C. cost., 22.12.2010, n. 367). Efficacia ex tunc va riconosciuta anche agli emendamenti interpretativi, mentre per le rimanenti tipologie emendative – e cioè quelle sostitutive, modificative ed aggiuntive – pacifica risulta la loro efficacia ex nunc, come del resto chiaramente disposto dall’art. 15, quinto comma, della l. n. 400/1988, il quale prevede che «le modifiche eventualmente apportate al decreto-legge in sede di conversione hanno efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della legge di conversione, salvo che quest’ultima non disponga diversamente».
Per quanto concerne, infine, le leggi di sanatoria, esse sono state previste all’ultimo comma dell’art. 77 Cost.: astrattamente, in un’ottica di teoria generale, l’istituto giuridico della sanatoria ha come obiettivo specifico quello di «conferire una definitiva stabilità a rapporti o a situazioni giuridiche precarie, in quanto fondate su atti viziati o la cui consistenza giuridica appaia o sia stata dichiarata dubbia o irregolare» (così Tarchi, R., Le leggi di sanatoria nella teoria del diritto intertemporale, Milano, 1990, 294). Con particolare riferimento alle leggi di sanatoria dei decreti-legge non convertiti dal Parlamento – i cui effetti, quindi, risultano decaduti ex tunc –, in dottrina si è distinto tra due differenti tipologie di intervento da parte del Parlamento ossia:
a) una sanatoria per “cristallizzazione”, che consiste nell’impiego della formula standard utilizzata dal legislatore («restano validi gli atti ed i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi ed i rapporti giuridici sorti sulla base del decreto-legge»);
b) una sanatoria per “riproduzione” ovvero, rectius, una sanatoria per retroattiva riproduzione della disciplina del decreto ormai decaduto (cfr. sul punto, per approfondimenti, Celotto, A.-Di Benedetto, E., Art. 77, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco-A. Celotto-M. Olivetti, II, Torino, 2006, 1522-1523).
Dal canto suo, tuttavia, la Corte costituzionale aveva già avuto modo di affermare, in una sua risalente giurisprudenza ormai consolidatasi nel corso dei decenni successivi, che la sanatoria degli effetti di un decreto-legge non convertito non deve essere necessariamente contestuale alla mancata conversione, in quanto non sussistono limiti alla valutazione politica del Parlamento in tale ambito, fatto salvo quello dei limiti alla retroattività in materia penale (cfr. al riguardo C. cost., 6.7.1966, n. 89; C. cost., 25.3.1982, n. 59; C. cost., 14.12.1989, n. 544).
Come è stato lucidamente sottolineato in dottrina (si veda, Celotto, A., Decreto legge. Postilla di aggiornamento, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2001, 1), a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, l’indebolimento delle maggioranze governative, il cattivo funzionamento del Parlamento e la crescente instabilità politica, hanno spinto l’esecutivo ad utilizzare il decreto-legge come se fosse «uno strumento di colegislazione, di codeterminazione politica, di negoziato tra governo, maggioranza e opposizione». Al riguardo, si deve rilevare che se nella prima legislatura repubblicana (1948-53), il numero dei decreti-legge emanati era stato di 29 (28 dei quali convertiti e soltanto 12 emendati in aula), nella XII legislatura, la cui durata è stata di soli due anni (1994-1996), il numero dei decreti-legge emanato è stato di ben 718, di cui soltanto 122 convertiti, 91 dei quali con emendamenti in aula, mentre 10 non sono stati neppure approvati dal Parlamento. Già nel corso degli anni Settanta, tuttavia, una parte della dottrina formulava una serie di interrogativi sulla possibile sindacabilità del decreto-legge da parte della Corte costituzionale, anche al fine di porre un argine al preoccupante fenomeno della cd. “reiterazione” che, proprio in quel momento storico, incominciava a manifestarsi (cfr. al riguardo Cervati, A.A., Interrogativi sulla sindacabilità dell’abuso del decreto-legge, in Giur. cost., 1977, 874 ss.). Infatti, se nel corso della VII legislatura (1976-79) su 15 decreti-legge decaduti ne venivano reiterati ben 9 (circa il 60%), nella XII legislatura su 586 decreti-legge decaduti, il governo ne reiterava ben 558 (ossia più del 95%).
I dati qui esposti dimostrano e confermano quella tendenza, incominciata a manifestarsi già all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, che è stata lucidamente definita come “crisi della legge” ovvero, più in generale, come “crisi del sistema delle fonti”. Una tendenza questa che vede nell’iter legislativo parlamentare e nella legge ordinaria – il cui contenuto precettivo assume, tradizionalmente, le caratteristiche della generalità e della astrattezza – ormai un canale di produzione legislativa che non può più essere considerato il fulcro attorno al quale si dipana l’assetto sistematico delle fonti del diritto statale (al riguardo, si rinvia per approfondimenti a Modugno, F.-Nocilla, D., Crisi della legge e sistema delle fonti, in Dir. soc., 1989, 411 ss.).
Del resto, la fenomenologia dei decreti-legge promulgati nel corso, per lo meno, degli ultimi trent’anni, ci dimostra come questo istituto sia stato utilizzato dai vari governi come forma alternativa (e privilegiata) di produzione legislativa, come se il decreto-legge fosse una sorta di «disegno di legge governativo rafforzato dalla posizione costituzionale dell’atto che ne consente l’immediata operatività … e impone un corso rapido» nella sua valutazione e conversione da parte del Parlamento (così, assai lucidamente, già nel corso del dibattito dottrinale italiano degli anni Settanta, il decreto-legge era stato definito da A. Predieri, Il governo colegislatore, in Cazzola, F.-Predieri, A.-Priulla, G., Il decreto-legge fra Governo e Parlamento, Milano, 1975, XX). Il decreto-legge, insomma, si è dimostrato uno strumento normativo assai versatile, utilizzato per superare le resistenze politiche delle opposizioni parlamentari, ma anche al fine di coinvolgere queste ultime nell’azione governativa, quando se ne prospettava l’opportunità e la necessità politica. Il fenomeno dell’“abuso” del decreto-legge, pertanto, denota una debolezza istituzionale tanto del Governo – costretto a ricorrere a questo istituto, al fine di serrare i ranghi parlamentari ed evitare così turbolenze e divisioni all’interno della propria maggioranza politica –, quanto del Parlamento stesso, incapace ormai di dare autonomo stimolo ai propri lavori e che, in questo modo, tende a subordinare la propria attività legislativa ordinaria, a quelle misure che l’agenda politica del governo considera emergenziali e prioritarie.
Inevitabile, pertanto, è stato valutato l’intervento della Corte costituzionale in materia, un intervento questo che era stato preannunciato dalla stessa Corte con la sentenza n. 29/1995 e che ha poi avuto definitivamente seguito con le decisioni nn. 161/1995, 84/1996 e 360/1996. Al riguardo, seguendo un’autorevole ricostruzione dottrinale (Cfr. Romboli, R., Il controllo dei decreti-legge: il “seguito” delle importanti affermazioni della Corte costituzionale del biennio 1995-96, in AA. VV., Studi in onore di Gianni Ferrara, III, Torino, 2005, 387 ss.), si può affermare che nelle decisioni citate, la Corte costituzionale abbia preso posizione su quattro aspetti, concernenti il problema dell’impiego del decreto-legge nella prassi, della sua reiterazione da parte dell’esecutivo, oltre che della sindacabilità dei suoi presupposti in sede giurisdizionale.
Innanzitutto, a partire proprio da quest’ultimo profilo, con la sentenza n. 29/1995, la Corte costituzionale ha sancito la possibilità di poter sindacare la mancanza dei presupposti del decreto-legge, ai sensi dell’art. 77 Cost., anche successivamente all’avvenuta conversione in legge del decreto, in questo modo negando quanto si era affermato fino a quel momento dalla dottrina maggioritaria, ossia l’efficacia sanante della legge di conversione rispetto ai vizi del decreto medesimo, in ragione del controllo – a carattere sostanzialmente politico – posto in essere dal Parlamento ex post. Un secondo principio desumibile dalla giurisprudenza del biennio 1995-96 – e riconducibile, in particolare, alla sentenza n. 84/1996 – è quello della sindacabilità da parte della Consulta, in ragione del cd. “effetto trasferimento”, anche di quelle disposizioni che esprimevano una determinata norma, identica nel nucleo precettivo essenziale – ovvero persino nella sua formulazione letterale –, ad una norma presente in un decreto-legge decaduto ma successivamente oggetto di reiterazione. La decisione assumeva una sua rilevanza anche sotto il profilo della certezza del diritto, in quanto la Corte costituzionale aveva modo di affermare che «la norma contenuta in un atto avente forza di legge, vigente al momento in cui l’esistenza nell’ordinamento della norma stessa è rilevante ai fini di una utile investitura della Corte, ma non più in vigore nel momento in cui essa rende la sua pronunzia, continua ad essere oggetto dello scrutinio … quando quella medesima norma permanga nell’ordinamento con riferimento allo spazio temporale rilevante per il giudizio» (così C. cost., 21.3.1996, n. 84, Cons. in diritto, punto 4.2.3.).
Un terzo principio desumibile dalla giurisprudenza della Consulta, in particolare nella sentenza n. 360/1996 – forse la più importante tra quelle sino ad ora analizzate –, atteneva alla dichiarazione di incostituzionalità del fenomeno della “reiterazione” dei decreti-legge, in quanto – ad avviso dei giudici costituzionali – con la suddetta prassi si finiva col rendere stabile la disciplina normativa contenuta in questi atti che, invece, come previsto dalla Costituzione, avrebbero dovuto avere un carattere normativo provvisorio. Il vizio di legittimità costituzionale, al riguardo, non risiederebbe tanto in un contrasto diretto con l’art. 77 Cost., quanto nella riproduzione del contenuto di un precedente decreto-legge non convertito nel “rapporto di continuità sostanziale” tra i due decreti, nonostante che il “nuovo decreto” sia un atto distinto da quello non convertito di cui comunque riproduce il contenuto normativo (al riguardo si rinvia, in dottrina, ad Angiolini, V., La “reiterazione” dei decreti-legge. La Corte censura i vizi del Governo e difende la presunta virtù del Parlamento ?, in Dir. pubbl., 1997, 114 ss.).
Infine, un quarto principio giurisprudenziale, riconducibile sempre alla sentenza n. 360/1996, attiene al ruolo delle leggi di sanatoria rispetto ai decreti-legge reiterati. La Corte costituzionale, infatti, ha avuto modo di sottolineare che «il vizio di costituzionalità derivante dall’iterazione o dalla reiterazione attiene, in senso lato, al procedimento di formazione del decreto-legge in quanto provvedimento provvisorio fondato su presupposti straordinari di necessità ed urgenza: la conseguenza è che tale vizio può ritenersi sanato quando le Camere, attraverso la legge di conversione (o di sanatoria), abbiano assunto come propri i contenuti o gli effetti della disciplina adottata dal Governo in sede di decretazione d’urgenza» (così C. cost., 24.10.1996, n. 360, Cons. in diritto, punto 6.). Questa rivalutazione della legge di sanatoria, che in qualche modo si pone – nell’ottica della Corte – come una sorta di “terza via” praticabile dal Parlamento, a mò di compromesso tra la rigorosa alternativa conversione/decadenza del decreto-legge, ha condotto un’attenta dottrina ad affermare che il suddetto istituto si è miracolosamente trasformato da “Cenerentola” a “Principessa” del procedimento di legislazione d’urgenza (così Carnevale, P.-Celotto, A., La regolazione dei “rapporti sorti sulla base dei decreti legge non convertiti” nella giurisprudenza costituzionale. Prime considerazioni, in Dir. soc., 2000, 485).
Seppure la giurisprudenza della Corte costituzionale si sia in parte attenuata nel corso del decennio successivo, una sua definitiva sistemazione sembrerebbe essersi avuta con le decisioni nn. 171/2007 e 128/2008, con cui la Consulta ha dichiarato per la prima volta l’incostituzionalità di disposizioni adottate in evidente mancanza dei presupposti di necessità e di urgenza. La Corte, tuttavia, nel sancire l’incostituzionalità dei decreti-legge oggetto del giudizio, si è dimostrata consapevole del fatto che questa sua autonoma valutazione della costituzionalità dei presupposti del decreto-legge «non sostituisce e non si sovrappone a quello iniziale del Governo e a quello successivo del Parlamento in sede di conversione – in cui le valutazioni politiche potrebbero essere prevalenti – ma deve svolgersi su un piano diverso, con la funzione di preservare l’assetto delle fonti normative e, con esso, il rispetto dei valori a tutela dei quali detto compito è predisposto» (così C. cost., 23.5.2007, n. 171, Cons. in diritto, punto 4.).
L’espressione presente in Costituzione per indicare i presupposti dell’emanazione, da parte del governo, di un decreto-legge, se da un lato evidenzia il carattere singolare di detto potere rispetto alla disciplina delle fonti, dall’altro, tuttavia, comporta «l’inevitabile conseguenza di dare alla disposizione un largo margine di elasticità. Infatti, la straordinarietà del caso, tale da imporre la necessità di dettare con urgenza una disciplina in proposito, può essere dovuta ad una pluralità di situazioni (eventi naturali, comportamenti umani e anche atti e provvedimenti di pubblici poteri) in relazione alle quali non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi» (ivi).
Da segnalare, inoltre, più di recente, la sentenza n. 355/2010, con cui la Corte costituzionale ha esteso il proprio controllo di legittimità del decreto-legge sull’ancoraggio ai «casi straordinari di necessità e di urgenza» degli emendamenti al decreto medesimo, introdotti con legge di conversione ma eterogenei rispetto al contenuto originario del relativo decreto. Sulla stessa problematica, infine, si deve far riferimento alla già citata sentenza n. 22/2012 (v. supra, § 2.; per approfondimenti in dottrina, si rinvia a Chinni, D., La decretazione d’urgenza tra abusi e controlli. Qualche considerazione quindici anni dopo la sent. n. 360 del 1996 della Corte costituzionale, in Dir. soc., 2012, 55 ss.). In questa recente decisione, infatti, la Corte ha consolidato ulteriormente il proprio indirizzo giurisprudenziale, ribadendo che l’inserimento di norme eterogenee all’oggetto o alla finalità di un decreto-legge, in sede di conversione parlamentare, «spezza il legame logico-giuridico tra la valutazione fatta dal Governo dell’urgenza del provvedere ed “i provvedimenti provvisori con forza di legge” … La scomposizione atomistica della condizione di validità prescritta dalla Costituzione si pone in contrasto con il necessario legame tra il provvedimento legislativo urgente ed il “caso” che lo ha reso necessario, trasformando il decreto-legge in una congerie di norme assemblate soltanto da mera casualità temporale» (così C. cost., 16.2.2012, n. 22, Cons. in diritto, punto 3.3.).
In questo modo, la Corte costituzionale sembra ulteriormente rafforzare quella ricostruzione dottrinaria (v. supra, § 2.) che vede nell’art. 15, terzo comma, della l. n. 400/1988 – là dove prescrive che il contenuto del decreto-legge «deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo» – pur non avendo, in sé e per sé, rango costituzionale, e non potendo quindi assurgere a parametro di legittimità in un giudizio davanti a questa Corte, una norma dal “valore ordinamentale”, in quanto costituisce esplicitazione della ratio implicita del secondo comma dell’art. 77 Cost., «il quale impone il collegamento dell’intero decreto-legge al caso straordinario di necessità e urgenza, che ha indotto il Governo ad avvalersi dell’eccezionale potere di esercitare la funzione legislativa senza previa delegazione da parte del Parlamento» (ivi).
Art. 77 Cost.; l. 31.1.1926, n. 100, art. 3; l. 11.12.1984, n. 839; l. 23.8.1988, n. 400, art. 15; art. 96-bis, reg. Cam.; art. 78, reg. Sen.
Angiolini, V., La “reiterazione” dei decreti-legge. La Corte censura i vizi del Governo e difende la presunta virtù del Parlamento?, in Dir. pubbl., 1997, 114 ss.; Carnevale, P.-Celotto, A., La regolazione dei “rapporti sorti sulla base dei decreti legge non convertiti” nella giurisprudenza costituzionale. Prime considerazioni, in Dir. soc., 2000; Celotto, A., L’«abuso» del decreto-legge. Profili teorici, evoluzione storica e analisi morfologica, I, Padova, 1997; Celotto, A., Decreto legge. Postilla di aggiornamento, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2001; Celotto, A., Un rinvio rigoroso ma… laconico. Linee-guida per una riflessione, in Rass. parl., 2002, 810 ss.; Celotto, A., Problemi sul decreto-legge, Napoli, 2009; Celotto, A.-Di Benedetto, E., Art. 77, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco-A. Celotto-M. Olivetti, II, Torino, 2006, 1506 ss.; Cervati, A.A., Interrogativi sulla sindacabilità dell’abuso del decreto-legge, in Giur. cost., 1977, 874 ss.; Chinni, D., La decretazione d’urgenza tra abusi e controlli. Qualche considerazione quindici anni dopo la sent. n. 360 del 1996 della Corte costituzionale, in Dir. soc., 2012, 55 ss.; Ciaurro, G.F., Decreto legge, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988; Di Ciolo, V., Questioni in tema di decreti-legge, Milano, 1970; Esposito, C., Decreto-legge, in Enc. dir., XI, Milano, 1962, 831 ss.; Fioravanti, M., Le potestà normative del governo. Dalla Francia d’Ancien régime all’Italia liberale, Milano, 2009; Guzzetta, G., Decreto legge, in Diz. dir. pubbl. Cassese, diretto da S. Cassese, III, Milano, 2006, 1743 ss.; Modugno, F., Riflessioni interlocutorie sulle conseguenze della trasformazione del decreto-legge, in Scritti in memoria di A. Piras, Milano, 1996, 453 ss.; Modugno, F.-Nocilla, D., Riflessioni sugli emendamenti al decreto legge, in Dir. soc., 1973, 356 ss.; Modugno, F.-Nocilla, D., Crisi della legge e sistema delle fonti, in Dir. soc., 1989, 411 ss.; Paladin, L., Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996; Pitruzzella, G., La legge di conversione del decreto legge, Padova, 1989; Romano, S., Sui decreti-legge e lo stato d’assedio in occasione del terremoto di Messina e di Reggio Calabria, in Riv. dir. pubbl., 1909, 302 ss.; Predieri, A., Il governo colegislatore, in Cazzola, F.-Predieri, A.-Priulla, G., Il decreto-legge fra Governo e Parlamento, Milano, 1975, I, VII ss.; Romboli, R., Il controllo dei decreti-legge: il “seguito” delle importanti affermazioni della Corte costituzionale del biennio 1995-96, in AA. VV., Studi in onore di Gianni Ferrara, III, Torino, 2005, 387 ss.; Sorrentino, F., Le fonti del diritto amministrativo, in Tratt. Santaniello, diretto da G. Santaniello, Milano, 2004; Tarchi, R., Le leggi di sanatoria nella teoria del diritto intertemporale, Milano, 1990.