Deducibilità dei costi da reato
Il regime di (in)deducibilità dei costi da reato come modificato dall’art. 8 l. 26.4.2012, n. 44 risponde all’esigenza di restringere l’ambito di applicazione dell’istituto che, nella precedente formulazione dell’art. 14, co. 4-bis, l. 24.12.1993, n. 537, peccava per scarsa coerenza con i principi tributari e determinava un’eccessiva anticipazione del prelievo fiscale rispetto alle vicende penali. La novella, tuttavia – pur correggendo le principali criticità della pregressa disciplina – dà vita ad un risultato non esente da dubbi. La stessa giustificazione sistematica dell’istituto permane equivoca oscillando fra una sua possibile qualificazione tributaria – come affermato dalla relazione governativa alla l. n. 44/2012 – ed un’accezione latamente sanzionatoria come invece argomentato dalla prevalente dottrina.
La disciplina positiva dell’indeducibilità dei costi da reato è stata sensibilmente modificata dall’art. 8, co. 1, l. 26.4.2012, n. 44 per tentare di smussarne le principali incoerenze ed elidere quei profili critici su cui la Corte costituzionale era stata chiamata a pronunziarsi con riguardo alla pregressa formulazione1. Si tratta di un intervento migliorativo che, tuttavia, tende a fare sopravvivere un istituto per il quale permangono significativi profili problematici i quali hanno indotto autorevole dottrina ad affermare che – più che riformare – il legislatore avrebbe dovuto abrogare tout court la specifica disciplina. La scelta operata dalla novella è stata, invece, meno drastica realizzando così un assetto che – superata la formulazione previgente incentrata sull’indeducibilità di costi riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato – si articola ora:
i) sull’esclusione dall’ambito della relativa disciplina dei reati di natura contravvenzionale e dei delitti colposi;
ii) su di una più puntuale individuazione dei costi potenzialmente indeducibili che sono stati limitati a quelli direttamente utilizzati per il compimento del reato;
iii) sull’attribuzione di rilievo sistematico all’esercizio dell’azione penale venendosi così a superare il pregresso regime che correlava l’indeducibilità alla mera qualificazione della condotta in termini di reità in sede di notitia criminis;
iv) sull’introduzione di un meccanismo di rimborso nell’ipotesi in cui il procedimento penale dovesse concludersi con una pronunzia assolutoria ovvero con una sentenza di non luogo a procedere purché non motivata sull’intervenuta prescrizione del delitto;
v) sull’elaborazione di un regime peculiare per i costi connessi ad operazioni oggettivamente inesistenti.
La prospettiva di fine tuning adottata ha delineato un regime che, nell’ottica della l. n. 44/2012, avrebbe dovuto fare in modo che la (in)deducibilità dei costi da delitto rilevasse nel solo ambito impositivo2 quale mera declinazione del principio di inerenza (introducendo una sorta di presunzione legale assoluta di non inerenza dei costi strettamente connessi alla commissione di un delitto). In realtà – come constatato in dottrina – anche la rinnovata disciplina parrebbe ispirata ad una ratio metafiscale3 in quanto la deducibilità degli oneri più che per un (presunto) difetto di inerenza sembra negata in ragione del perseguimento di un obiettivo extratributario ravvisabile nella volontà di tassare al lordo i proventi derivanti dai delitti dolosi. Si è, quindi, in costanza di un istituto dalla tuttora incerta collocazione sistematica (ambito fiscale ovvero ambito punitivo) la cui rinnovata disciplina normativa non elimina molte delle perplessità (anche di coerenza costituzionale) che caratterizzavano l’assetto previgente.
Il perimetro di operatività dell’istituto è stato modificato in maniera significativa. Non è più prevista la generica indeducibilità degli oneri riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato ma esclusivamente quella dei costi direttamente utilizzati per la commissione di delitti non colposi (laddove la limitazione dell’istituto alle sole fattispecie dolose testimonia il rilievo sistematico che la novella ha inteso attribuire all’elemento dell’intenzionalità). Sul punto, è indubbio il turnaround normativo: si tratta – come è stato efficacemente evidenziato4 – di un passaggio da una (generalizzata) indeducibilità di (tutti) i costi da reato ad una (limitata) indeducibilità dei soli costi del delitto5. Non mancano, tuttavia, anche nel rinnovato assetto i profili equivoci alimentati, almeno in parte, da una interpretazione dei confini dell’istituto da parte dell’Amministrazione finanziaria ampia e non del tutto netta6. La circostanza che sia stata collocato al centro della modificata disciplina il rapporto finalistico (la menzionata nozione di diretta utilizzazione) fra i costi ed il delitto, infatti, non esclude che siffatto nesso relazionale possa risultare talvolta opaco e ciò a seconda che si prediliga l’enfatizzazione interpretativa del solo sostantivo (utilizzazione) ovvero anche quella dell’attributo (diretta). Nel primo caso, infatti, risultano attratti all’ambito applicativo della disposizione anche oneri semplicemente correlati al delitto laddove invece nella seconda ipotesi sono indeducibili i soli costi rigorosamente strumentali alla commissione del reato. Il possibile scarto interpretativo fra le due ipotesi non è trascurabile e riguarda principalmente le attività illecite in complexu (si pensi, ad esempio, alle spese sostenute nell’ambito dell’esercizio abusivo di un’attività finanziaria) per le quali un’interpretazione ampia della nuova formulazione finirebbe per imporre la tassazione di un risultato reddituale lordo (con integrale riproposizione di molti dei profili d’illegittimità costituzionale caratterizzanti il previgente assetto) ma anche agli atti delittuosi realizzati nell’ambito di un’attività legittima per i quali si finisce per imporre una ricostruzione a posteriori del nesso causale che, quanto più ci si allontana dall’ipotesi della derivazione diretta (il caso paradigmatico del pagamento di una tangente per l’acquisizione di un appalto), tanto più rischia di divenire incerto e perciò suscettibile di difficile prova.
Quello che era unanimemente considerato il difetto principale della previgente disciplina (ossia la correlazione dell’indeducibilità alla mera configurazione del reato in sede di notitia criminis) è stato superato dalla novella ma con una formulazione non priva di ambiguità. L’attuale co. 4-bis dell’art. 14 l. n. 537/1993, infatti, individua il fatto generatore dell’indeducibilità nell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero secondo una delle modalità previste dal c.p.p. ovvero nella pronunzia di una sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. per intervenuta prescrizione del delitto ex art. 157 c.p.. L’eccessivo arretramento del perimetro dell’affermata indeducibilità è stato quindi rimosso ma la scelta di ancorare comunque il fenomeno alle opzioni del pubblico ministero piuttosto che alle deliberazioni dell’organo giudicante non ha mancato di suscitare critiche tanto sotto il profilo sistematico quanto in un’ottica pragmatica vista la carenza di forme di comunicazione standardizzate fra la magistratura requirente e l’Amministrazione finanziaria. D’altronde, il rinnovato modulo di coordinamento fra vicende penalistiche e profilo impositivo continua a serbare equivoci che la novella non ha affrontato. Non è così chiaro, ad esempio, cosa possa accadere nell’ipotesi in cui l’imputato nel procedimento penale non sia il redattore della dichiarazione fiscale del contribuente. Se si accogliesse, infatti, l’interpretazione (patrocinata dall’Amministrazione finanziaria) che postula che le risultanze del procedimento penale nei confronti della persona fisica terza si debbano riflettere de plano nella sfera del soggetto passivo dell’obbligazione tributaria la soluzione risulterebbe assai poco ragionevole; il contribuente, infatti, subirebbe gli incommoda di ordine fiscale della vicenda penale senza che abbia potuto partecipare al relativo processo ed abbia potuto difendersi in tale sede. Gli stessi effetti dell’esercizio dell’azione penale in ambito impositivo appaiono equivoci atteso che non è dato apprezzare se il giudice tributario cui sia eventualmente devoluta la cognizione della vicenda fiscale (impossibilitato a sospendere il giudizio tributario ai sensi del d.lgs. 31.12.1992, n. 546) sia obbligato a ritenere indeducibili le spese de quibus ovvero mantenga la possibilità di valutare – in via incidentale – l’effettiva integrazione della fattispecie delittuosa (con conseguente possibile affermazione giudiziale della deducibilità dei costi)7. Del pari, la citazione del fenomeno della prescrizione non consente di apprezzare cosa debba accadere in ipotesi di sentenza (non definitiva) di non luogo a procedere che dichiari l’estinzione del delitto per cause differenti dalla prescrizione (si pensi, ad esempio, all’ipotesi della morte del reo o alla differente ipotesi dell’amnistia). In tali eventualità, infatti – in carenza di un esplicito riferimento normativo – sembrerebbe coerente argomentare l’inapplicabilità dell’istituto; ma se così fosse trasparirebbe viepiù la disparità di trattamento riservata alla sola sentenza di non luogo a procedere fondata sulla prescrizione la quale – pur non essendo l’unica ipotesi in cui altresì l’imputato non è assolto nel merito e non potendosi fare affidamento sull’operare sistematico dell’art. 129, co. 2, c.p.p. che impone al giudice penale di pronunziare comunque l’assoluzione nel merito ove ne ricorrano i presupposti –– sarebbe l’unica a legittimare la formulazione di rilievi ex art. 14, co. 4-bis, della l. n. 537/1993. E ciò ancorché il verificarsi delle cause di estinzione del reato di natura differente non escluda affatto quell’elemento di intenzionalità che è senz’altro uno dei criteri ispiratori della novella e, al tempo stesso, costituisce la ratio del trattamento deteriore riservato all’istituto della prescrizione ai fini in esame.
Ugualmente migliorativa del pregresso assetto è la disciplina dell’interazione fra la vicenda impositiva e l’esito del processo penale. In caso di una pronunzia definitiva di assoluzione ai sensi dell’art. 530 c.p.p., ovvero di una sentenza definitiva di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. per ragione differente dall’intervenuta prescrizione, ovvero ancora di sentenza definitiva di non doversi procedere ex art. 529 c.p.p. – infatti – il fatto generatore dell’indeducibilità viene meno con efficacia ex tunc. Si determina così un obbligo restitutorio di tutte le somme medio tempore acquisite dall’Erario. Risulta in tal modo superato il farraginoso meccanismo dell’istanza di autotutela ipotizzato dall’Amministrazione finanziaria nel vigore del pregresso regime. Anche in proposito, tuttavia, non mancano i profili lasciati in ombra dalla novella. E così non sono citati alcuni esiti (alternativi) del processo penale che pure possono verificarsi come, ad esempio, le cosiddette sentenze di patteggiamento8 ovvero le sentenze ex art. 531 c.p.p. dichiarative dell’estinzione del delitto; al verificarsi di tali eventi, pertanto, non è chiaro se competa o meno al contribuente il rimborso di quanto medio tempore corrisposto. Data la possibile diversa dinamica cronologica del processo tributario, non è altresì disciplinata l’eventuale ipotesi (tutt’altro che improbabile) che la sentenza definitiva di assoluzione penale sia pronunziata allorquando la pronunzia (sfavorevole al contribuente) resa dal giudice tributario abbia già assunto autorità di cosa giudicata di talché il rimborso in siffatta eventualità risulta tutt’altro che evidente. Ugualmente silente è il rinnovato assetto per tutte quelle ipotesi in cui la pretesa tributaria sia stata definita con modalità alternative a quella contenziosa (come, ad esempio, in forza di accertamento con adesione ovvero di conciliazione giudiziale) e sopravvenga una fattispecie legittimante il rimborso. Ebbene, in queste ultime ipotesi, è solo un’interpretazione in bonam partem dell’Amministrazione finanziaria9 che prevede l’operatività dei meccanismi di rimborso laddove, invece, un’analisi letterale delle disposizioni di riferimento avrebbe dovuto ragionevolmente escluderla.
Le modifiche introdotte dall’art. 8 l. n. 44/2012 costituiscono senz’altro un miglioramento rispetto al passato. La novella, tuttavia, per un verso, non risolve del tutto la fondamentale questione dell’inquadramento sistematico dell’istituto e – per altro verso – approfondisce l’ormai evidente crisi del principio di reciproca autonomia fra il procedimento ed il processo di natura tributaria ed i corrispondenti di ordine penale (il cosiddetto doppio binario). I due profili sono solo apparentemente separati e, forse, è proprio la perdurante (nonostante lo sforzo esperito in via legislativa) connotazione punitiva dell’istituto in commento a generare quelle ibridazioni fra i due ambiti che pregiudicano l’operatività del principio di assoluta indipendenza la cui valenza è tuttora affermata dall’art. 20 d.lgs. n. 74/2000. Sulla circostanza che la novella sancisca sovrapposizioni è difficile non convenire così come è difficile non cogliere come esse risultino incoerenti con un sistema che, non solo, postula ex professo l’autonomia dei relativi itinera ma esclude altresì ogni efficacia impositiva del giudicato penale ai sensi dell’art. 654 c.p.p. Basti rammentare che l’esercizio dell’azione penale viene assunto a fatto genetico del procedimento di accertamento tributario e che l’esito della vicenda criminale esplica efficacia su quella tributaria imponendo, in caso di soluzione favorevole all’imputato, l’obbligo di rimborso delle somme già corrisposte. La novella, tuttavia – pur sancendo (in modo concettualmente forzoso) una interazione dialettica fra l’ambito tributario e quello penale – la limita (e non in maniera esaustiva) alle sole fasi iniziale e finale senza curarsi della differente tempistica che presiede ai differenti processi e senza risolvere (rectius senza volere risolvere) l’aporia di una imposizione al lordo di redditi fisiologicamente tassabili al netto scaturente dalla commissione di un fatto delittuoso (una situazione che rende palese l’impossibilità di considerare in modo unitario i co. 4 e 4-bis dell’art. 14 l. n. 537/1993 atteso che la prima disposizione prevede tout court l’imponibilità dei proventi illeciti mentre la seconda trova applicazione a prescindere dalla prima in caso di correlazione finalistica fra un costo ed un delitto non colposo). Il risultato ultimo dell’intervento normativo è, pertanto, sostanzialmente deludente. All’obiettivo non conseguito di collocare in maniera solida l’istituto in ambito fiscale si è accompagnata l’introduzione di un modulo di dipendenza parziale del procedimento tributario da quello penale che sembra rispondere ad esigenze episodiche ed asistematiche. Da una modifica normativa così a lungo invocata era forse lecito attendersi di più.
1 In tal senso si rinvia alle argomentazioni dell’ordinanza della Commissione trib. reg. Veneto, 11.4.2011, n. 27, in Corr. trib., 2011, 34, 2840 ss. La Corte costituzionale, con propria ordinanza 16.7.2012, n. 190 ha restituito gli atti al giudice remittente per una nuova valutazione alla luce della novella legislativa.
2 La stessa relazione governativa alla l. n. 44/2012 giustificava l’esigenza d’intervento in base all’esigenza di evitare che l’indeducibilità potesse essere intesa come una sanzione impropria.
3 In tal senso Carinci, A., La nuova disciplina dei costi da reato: dal superamento del doppio binario alla dipendenza rovesciata, in Rass. trib., 2012, 1439.
4 Così Fransoni, G., Indeducibilità dei costi da reato ed eterogenesi dei fini, in Rass. trib., 2012, 1427 secondo cui sono tali (ossia costi del delitto) i decrementi patrimoniali che sono la conseguenza di atti, in astratto anche perfettamente leciti, diretti a consentire il compimento di attività illecite.
5 Per una recente verifica giurisprudenziale della rinnovata disciplina cfr. Cass., 22.5.2013, n. 12503. Nell’occasione la Suprema Corte, sulla base della nuova formulazione normativa, ha escluso l’indeducibilità dei costi connessi all’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti per carenza del nesso finalistico fra il costo, da un lato, ed il delitto, dall’altro lato.
6 Si veda l’interpretazione di cui alla circ. 3.8.2012, n. 32/E dell’Agenzia delle entrate secondo cui anche costi tipicamente generali (quali gli ammortamenti, gli accantonamenti, gli interessi passivi et cetera) potrebbero formare oggetto della rilevata indeducibilità.
7 In dottrina – cfr. Carinci, A., op. ult. cit., 1439 ss. – è stato, ad esempio, sostenuto che il potere di cognizione incidentale sussisterebbe senz’altro (almeno) nell’ipotesi di sentenza che dichiari estinto il delitto per intervenuta prescrizione.
8 Che l’Agenzia delle entrate nella circ. n. 32/E del 2012 assimila a quelle di condanna e, quindi, esclude dall’ambito applicativo del rimborso.
9 In tal senso la menzionata circ. n. 32/E del 2012.