dedurre [part. pass. dedutto, sempre in rima]
Solo nella Commedia, sempre figurato, in varie accezioni: in Pd XX 58 ha il valore di " derivare ": la misera condizione del mondo distrutto è un mal dedutto, derivato, dalla donazione di Costantino. In Pg XIV 77 assume quello di " indurre ": Guido del Duca consente di fare a D. ciò che questi non vuol fare a lui, cioè nominarsi: Tu vuo' ch'io mi deduca / nel fare a te ciò che tu far non vuo'mi. In Pd XIII 73 Se fosse a punto la cera dedutta, la parola significa " lavorare qualcosa sino a ridurla alle condizioni volute, al punto necessario ": la materia che forma le cose generate è ivi paragonata a una cera che deve ricevere il suggello: perché possa riceverlo essa, come dice il Buti, deve essere " menata e fatta molle ". Nel significato tecnico filosofico, di ricavare ragionando una verità da un'altra prima accertata, in Pd VIII 121 Sì venne deducendo infimo a quici.
Singolare che in questa accezione la parola sia estranea alla prosa dottrinale di D., anche la latina (in VE II X 2 c'è ‛ deductio ', ma la parola è adoperata come sinonimo di diesis, cioè, secondo Isidoro; il passaggio da una parte a un'altra della melodia nell'interno di una stanza di canzone, cioè la ‛ volta '). Connesso col significato filosofico, in Pd XXX 35 la mia tuba, che deduce / l'ardüa sua matera terminando: in cui l'idea che il poema volge alla fine è affidata al gerundio e non a deduce, che vale: sviluppa secondo il previsto, l'uno dopo l'altro, i motivi dell'ardua materia (e ormai è alla fine). D. aveva qui nell'orecchio anche le espressioni latine deducere carmen o versus.