di Antonella Mori
Dopo 12 anni l’Argentina è nuovamente in default sul debito estero, ma le ragioni che hanno portato il paese sudamericano a questo default sono molto diverse da quelle nel 2002. Per decisione del giudice Thomas Griesa del Tribunale di New York il governo argentino non ha potuto pagare gli interessi ad obbligazionisti che avevano partecipato alle ristrutturazioni del 2005 e 2010 e il 31 luglio 2014 l’Argentina è stata dichiarata in stato di ‘default tecnico’. Oggi il paese sudamericano è in default pur avendo la volontà e le risorse per pagare gli interessi dovuti, mentre nel 2002, quando dichiarò default su 82 miliardi di dollari di titoli esteri, il paese sudamericano non aveva la capacità di onorare il servizio del debito. Dopo alcuni anni di crescenti difficoltà economiche, tra dicembre 2001 e gennaio 2002, l’Argentina attraversò una drammatica crisi politica, finanziaria, economica e sociale: nel giro di pochi giorni si susseguirono quattro presidenti, fu dichiarato il default sul debito e svalutato il peso, per dieci anni mantenuto pari al dollaro americano. Nel 2002 il pil crollò dell’11%, la disoccupazione salì a più del 20% e la povertà raddoppiò, arrivando a colpire metà della popolazione. Già dal 2003, però, la situazione economica si riprese e fino al 2008 il paese è cresciuto a tassi dell’8-9% annuo.
Nel 2005 il governo argentino presentò una offerta pubblica di scambio (Ops) dei titoli in default, che, anche se considerata molto punitiva, venne accettata dal 76% degli obbligazionisti. L’OPS prevedeva lo scambio di vecchie obbligazioni con tre categorie di nuovi titoli (par, discount e quasi-par). Expost, anche grazie ai bassi tassi d’interesse sui mercati finanziari internazionali, la perdita subita da chi aderì all’Ops è stata più bassa rispetto al previsto (alla fine 2006 pari a circa il 60%). Per convincere i creditori ad aderire all’Ops, l’Argentina dichiarò che non avrebbe mai fatto un’altra offerta a condizioni migliori. Per rendere credibile questo impegno, nei nuovi titoli venne inserita la clausola Rufo, Rights Upon Future Offers, che stabiliva che chi aderiva all’Ops manteneva comunque il diritto a partecipare ad eventuali future offerte agli holdouts, cioè coloro che non accettavano l’Ops. Nel 2010 il paese sudamericano fece una seconda offerta di scambio a condizioni simili, che portò il totale delle adesioni al 92% dei titoli in default dal 2002 e l’ammontare di titoli in mano agli holdouts a circa 6,5 miliardi di dollari.
Il default del 2014 nasce dall’iniziativa di un gruppo minoritario di holdouts, precisamente alcuni fondi di investimento americani - Nml, Aurelius, Em e altri . Questi fondi avevano comprato titoli argentini a prezzi molto bassi dopo il 2002 – guadagnandosi il nome di ‘fondi avvoltoi’ - con l’obiettivo di ottenere per vie legali dal paese sudamericano il 100% del valore nominale più gli interessi maturati (valutati circa 1,3 miliardi di dollari a metà 2014). Il giudice Griesa ha dato ragione ai fondi d’investimento americani e ha condannato l’Argentina al pagamento integrale delle obbligazioni detenute da questi fondi, prima di poter procedere al pagamento delle cedole sul debito ristrutturato. Il governo argentino ha deciso di non rispettare questa sentenza perché, per la clausola Rufo, coloro che hanno accettato le ristrutturazioni del 2005 e 2010 potrebbero pretendere lo stesso trattamento, cioè la restituzione del 100% del debito originale più gli interessi. E così i soldi che l’Argentina aveva depositato alla Bank of New York per pagare gli interessi sono stati bloccati dalla sentenza del giudice Griesa e il paese è in una condizione di ‘default tecnico’. I fondi d’investimento non hanno accettato la proposta argentina di scambiare i titoli a condizioni simili a quelle delle Ops 2005-2010, che comunque avrebbero garantito un elevato profitto ai fondi, visto che i titoli erano stati comprati a un prezzo molto basso dopo il default.
Si è creata quindi una situazione finanziaria difficile per l’Argentina, in quanto il ‘default tecnico’ impedisce al paese di accedere ai mercati finanziari internazionali, rendendo più complicato il ritorno a una crescita economica stabile. Dal 2011 la situazione economica del paese sudamericano è andata peggiorando: nel 2014 il paese è in recessione, l’inflazione è elevata, il bilancio pubblico e i conti con l’estero sono in disavanzo. Le riserve ufficiali di dollari continuano a diminuire e senza l’accesso ai mercati finanziari internazionali, il paese rischia una crisi di bilancia dei pagamenti con svalutazione e pesanti effetti sull’economia reale. Il legame tra default e crisi economica è molto forte: ma mentre il default del 2002 è stata la conseguenza di alcuni anni di crisi economica e finanziaria, il rischio ora è che il default del 2014 diventi la causa di una prolungata crisi economica, con un’impennata della disoccupazione e della povertà.