DEGLI ALBERTI, Francesco Felice
Nacque a Trento, il 4 ott. 1701, figlio primogenito di Gervasio e della contessa Barbara Bortolazzi.
La famiglia paterna, discendente dagli antichi dinasti di Castel d'Enno, aveva assunto dal proprio capostipite il cognome di Alberti e, abbandonate le terre avite della Val di Non, si era trasferita a Trento fin dai primi anni del XVI secolo, intrecciando così la sua storia a quella delle più illustri e titolate casate patrizie trentine.
Il D. - che dal 1714 poteva fregiarsi del titolo comitale concessogli da Carlo VI con il predicato di "von Enno" - compiuti i primi studi presso il ginnasio cittadino e abbracciata la carriera ecclesiastica, frequentò le lezioni del Collegio Germanico di Roma dal 1720 al 1724. Interrotto il soggiorno romano per succedere al canonicato dello zio Francesco Sigismondo, spartì gli anni della sua giovinezza tra gli impegni capitolari e quelli, non meno gravosi, di capofamiglia. La buona conoscenza dottrinale e la sincera affezione alla causa vescovile gli procurarono, col passare degli anni, incarichi di delicata responsabilità. Fu ben presto consigliere del vescovo Antonio Domenico Wolkenstein (1725-1730) e nominato visitatore della diocesi; si dispose poi, coadiuvato da altri religiosi, al riordino e alla trascrizione dei documenti conservati nell'archivio capitolare vescovile (un compito, questo, che aveva finalità schiettamente politiche: mettere in luce, cioè, l'intangibilità dei diritti spettanti all'Ecclesia tridentina).
Ma l'abilità diplomatica del D., dalla quale non era disgiunta una buona dose di spregiudicatezza, si dispiegò al meglio sul terreno della politica familiare. In breve tempo, navigando con destrezza tra abboccamenti politici e accordi matrimoniali, la consorteria albertina legò a sé i più bei nomi del patriziato trentino: Cazuffi, Particella, Saracini, Pompeati, Manci e Migazzi - l'esigua schiera di casate che da secoli teneva ben strette le cariche del magistrato consolare e il governo della città - presero a guardare con occhio attento e disponibile alle mura del palazzo albertino. Di contro, un ostacolo assai più ostico per l'intraprendente e ambizioso D. fu rappresentato dal capitolo della cattedrale, l'assemblea di nobili prelati che serbava il potere di nominare gli aspiranti alla sede vescovile.
In seno a esso convivevano, divise da una palese ostilità, le due anime del principato: la nobiltà feudale tirolese, tradizionalmente devota a Casa d'Austria, e il patriziato trentino che traeva lustro e potere dal controllo delle magistrature civiche. Da secoli, da quando cioè il territorio episcopale si era legato in confederazione militare ai governi austriaci e viveva quasi all'ombra di essi, la fazione filoasburgica dominava il consesso dei canonici mostrandosi a ogni passo un'esecutrice ossequiente dei dettami d'Oltralpe.
Fu proprio a questa ossequiosità che il D. dovette il primo smacco della sua, fino allora assai fortunata, carriera: l'elezione a coadiutore vescovile, il 29 maggio 1748, di Leopoldo Ernesto Firmian. La nomina di un coadiutore si era resa necessaria per estromettere il vescovo Domenico Antonio V. Thun, un uomo alle soglie della pazzia, e anche in questa occasione i maneggi della corte viennese avevano avuto facile gioco nel favorire un candidato di provata lealtà asburgica di fronte al troppo "italiano" Degli Alberti. Il partito dei canonici albertini, subito spalleggiato dal magistrato consolare, avversò immediatamente il coadiutore, e l'ostilità crebbe via via allorché il Firmian diede corso a una serie di misure legislative che ledevano i tradizionali privilegi nobiliari trentini. Per sovrappiù, il riformismo firmiano cadeva in coincidenza con la prima forte spinta accentratrice austriaca, e mentre a Vienna si spingeva per inglobare definitivamente il principato agli Erbländer, a Trento il patriziato battagliava a spada tratta per difendere ciò che restava di una pur risicata autonomia.
Il malcontento diffuso e la sensazione di una irrimediabile sconfitta accrebbero i favori per il D.: così, il 6 marzo 1756, con voto unanime del capitolo, il D. veniva eletto coadiutore plenipotenziario con diritto di futura successione.
La nomina del D. (divenuto vescovo nel 1758) sembrò ridare fiato alle speranze di libertà amorosamente coltivate dal ceto dirigente trentino. Il suo disegno politico mostrò subito un aspetto contraddittorio: quanto fu aperto e, possiamo dire, riformista all'interno, tanto fu, all'opposto, chiuso e grettamente conservatore dinnanzi a ogni iniziativa che minacciasse le vacillanti strutture politiche del principato vescovile. Egli si disfece subito delle misure introdotte dal Firmian ripristinando in toto le attribuzioni giurisdizionali del capitolo, abolendo il tribunale ecclesiastico del concistoro, riaffermando le esenzioni aristocratiche dai fori ordinari, ma non per questo rinunciò a una politica di severissimo controllo morale del clero, come attestano le sue lettere pastorali, la vigile sorveglianza sulle ordinazioni e l'istruzione clericale, o la stessa ristampa delle costituzioni sinodali compendiate e arricchite. E un'analoga ambivalenza si può osservare nel campo delle riforme economiche. Il D. appoggiò in ogni circostanza le rivendicazioni daziarie e fiscali del magistrato consolare e non ricusò di aiutarlo nemmeno quando esso propose una legge di contenimento della manomorta ecclesiastica; fermo e intransigente fu invece il diniego che egli oppose sempre alle risoluzioni di marca imperiale - da quelle relative alle tariffe dei dazi a quelle sulla circolazione monetaria - nelle quali scorgeva il pericolo di una repentina esclusione dell'economia trentina dai commerci con l'area veneta e dunque la sua temuta omologazione all'Impero.
Gli ultimi anni del suo episcopato furono impegnati in una strenua ma defatigante battaglia diplomatica per rinviare l'ormai inevitabile incorporazione del principato ai territori ereditari austriaci. Colpito da un attacco di pleurite, morì a Trento nella mattinata del 31 dic. 1762, e venne sepolto nella tomba del prozio, vescovo Giuseppe Vittorio Degli Alberti, davanti all'altare maggiore della cattedrale di Trento.
Fonti e Bibl.: Punto di partenza irrinunciabile per ogni studio sul Trentino del XVIII secolo è l'ottimo libro di C. Donati, Ecclesiastici e laici nel Trentino del Settecento (1748-1763), Roma 1975; alle esaustive notizie che già il Donati, pp. 241-263, fornisce sulla biografia del D. possiamo aggiungere alcuni riferimenti più mirati: B. Bonelli, Monum. Eccl. Trident., Tridenti 1765, pp. 262-264; F. Ambrosi, Comment. della storia trentina, II, Rovereto 1887, pp. 55-63, 190-214; A. Steinhuber, Gesch. des Collegium Germanicum Hungaricum in Rom, II, Freiburg im Breisgau 1895, p. 278; F. Alberti d'Enno, I signori d'Enno ora conti Degli Alberto d'Enno, in Tridentum, IX-X (1906-1907), pp. 196-208; G. Costisella, Ilpal. Calepini a Trento; famiglia Alberti d'Enno (1678-1812), in Studi trentini di scienze stor., XXXIX (1960), pp. 114-139.