Degrado ambientale
A rischio il 'giardino d'Europa'?
La difesa del patrimonio ambientale in Italia
di Vittorio Emiliani
16 maggio
Inizia, con l'abbattimento della prima torre, lo smantellamento del Villaggio Coppola, il complesso edilizio abusivo realizzato a partire dagli anni Sessanta in un'area demaniale nel comune di Castel Volturno, sulla costa tra Napoli e Caserta, e cresciuto a dismisura nei decenni successivi. L'operazione ha un significato di grande valore simbolico, nel quadro della difesa e del ripristino del patrimonio ambientale, storico e paesaggistico italiano, messo a grave rischio dal dissesto idrogeologico e dall'abusivismo edilizio.
Segnali contrastanti
Nel primo anno del 3° millennio, in materia di ambiente e di paesaggio, in Italia si sono avuti segnali contrastanti: da una parte, è proseguita la demolizione 'esemplare' di alcuni ecomostri come il 'torracchione' scandaloso del Villaggio Coppola di Castel Volturno; dall'altra, è stata proposta una riduzione considerevole delle dimensioni del Parco naturale regionale dei Promontori, nell'area di Portofino, e di quello dei Laghi di Bracciano e di Martignano, a nord di Roma. Quale sarà la strategia prevalente nei primi anni del nuovo secolo è ancora presto per dirlo. Possiamo invece dire con certezza qual è stata, pur fra ritardi e lentezze, la linea di fondo dell'ultimo decennio del 2° millennio.
Risale al 1994 l'ultimo condono edilizio che, come tutti i precedenti, ha sortito quale effetto immediato la riaccensione violenta del fenomeno dell'abusivismo, a cominciare dalle già manomesse aree meridionali dove venivano presentate domande di sanatoria 'anticipata' per immobili ancora da costruire. Si calcola che nell'ultimo quindicennio circa un milione di case, oltre un quinto del totale, siano state edificate nella più completa illegalità. È stato però il solo episodio negativo di grande rilievo nel quadro di un decennio che, per es., ha visto crescere fino al 10% la superficie di aree naturali protette, con nuovi Parchi nazionali finalmente decollati - dalla intatta Val Grande alle Foreste Casentinesi - e con un'intensa attività svolta nel medesimo senso in alcune regioni del paese.
Al tempo stesso vi è stata tutta un'opera volta ad attivare, o a riattivare, la legislazione ancora recente sulla difesa del suolo (Autorità e piani di bacino) e sui piani paesistici, la cosiddetta legge Galasso del 1985. Per ora si è avuto un solo esempio forte di sostituzione dello Stato, cioè del Ministero per i Beni culturali, a una Regione gravemente inadempiente, la Campania: nel 1995, quando del dicastero era titolare Antonio Paolucci, i piani territoriali paesistici della Campania furono redatti dalle Soprintendenze, coordinate da Antonio Iannello. Contro questi piani la Regione ha puntualmente inoltrato ricorso, a conferma della storica riluttanza a pianificare da parte di enti che lo Stato centrale aveva negli anni Settanta delegato a tutelare territorio e paesaggio (riprendendosi in parte tale delega proprio con la legge Galasso, approvata quasi all'unanimità dal Parlamento).
Ne è prova il fatto che alcune Regioni mancano, dopo 16 anni, all'appello o sono ai preliminari, come la disastrata Sicilia, dove sono state approvate soltanto le linee-guida del piano, o come la non meno degradata Calabria, per la quale il Ministero cerca di ripetere la surroga avvenuta in Campania. Pure gravi e pesanti sono i ritardi che caratterizzano elaborazione, approvazione e adozione dei piani idrogeologici di bacino da parte delle Autorità nazionali create con la legge del 1989 nr. 183. Nel maggio 2001 risultava adottato soltanto il piano del Po, mentre progetti di piano erano stati approvati dal Comitato tecnico per l'Alto Adriatico, per il Tevere e per Liri, Garigliano e Volturno. Per l'Arno analogo progetto era in fase di ultimazione, per l'Adige di elaborazione. Delle 31 Autorità inter-regionali solo tre risultavano aver adottato il loro piano di assetto idrogeologico. Eppure le emergenze si susseguono drammaticamente. Nell'ottobre 1998 l'Accademia dei Lincei ha dedicato un fondamentale convegno di studi al fenomeno ricorrente delle colate di fango (quella che ha colpito Sarno nello stesso anno è l'esempio più clamoroso, ma è da ricordare anche la fiumara calabrese di Soverato nel 2000), che rappresentano lo stadio aggravato delle alluvioni, nel senso che interi territori collinari, avviati al dissesto idrogeologico da ogni sorta di abuso, si disfano e precipitano, colando a valle.
Le cause dello stress ambientale
Il Bel Paese, il Giardino d'Europa, è sottoposto, ormai da decenni, a forme diverse e purtroppo convergenti di stress ambientale che incidono profondamente sulla sua bellezza e sul suo stato di salute strutturale. Si calcola che oltre l'80% del territorio italiano sia stato antropizzato, cioè modificato dall'opera dell'uomo, con bonifiche, coltivazioni, disboscamenti, terrazzamenti, regolazioni idrauliche, opere infrastrutturali ecc.: interventi antichi, addirittura remoti, che hanno cambiato il volto ad aree estesissime. Si pensi soltanto alla Pianura Padana che in epoca romana era ancora coperta, per la parte che emergeva dalle acque, da una autentica foresta nordica, della quale rimangono alcuni lembi, presso Pavia nel cosiddetto Bosco dei Negri e intorno a Ravenna, laddove la piantata (anch'essa romana) di pini mediterranei non ha sostituito le varie specie di querce. Si pensi all'intensissima opera di bonifica promossa dai monaci: da Chiaravalle alle porte di Milano all'Abbazia di Pomposa sul delta del Po, o da quest'ultima alla Certosa di Padula. O all'imponente sistema di terrazzamenti che va dalle Cinque Terre liguri a Pantelleria e che ha dato volto e struttura al paesaggio collinare italiano, consentendo colture come la vite e l'olivo, altrimenti impossibili, e un utilizzo sapiente, stilla a stilla, di tutte le acque sorgive e piovane.
Nel Novecento, tuttavia, con l'affermarsi delle bonifiche idrauliche industriali (in luogo di quelle, faticosissime certo, per colmata, a forza di carriole) e con lo sviluppo di sempre nuove infrastrutture collegate all'industrializzazione, all'espansione delle città e delle aree metropolitane, al crescere della popolazione e alle migrazioni interne, al dilatarsi del fenomeno automobilistico a livelli di massa (da 350.000 autovetture nel 1950 a più di 32 milioni alla fine del Novecento), il territorio, l'ambiente, il paesaggio italiano hanno subito in pochi decenni trasformazioni vaste e profonde che non erano intervenute in secoli e secoli di storia. Si è trattato di un consumo di beni primari irriproducibili - cioè acqua, aria, terra, suoli coltivati ecc. - raramente pianificato, sovente abbandonato alla speculazione se non al più totale abusivismo, a partire dalle cave di pietra o da quelle di sabbia e ghiaia.
Non si è tenuto conto anzitutto di un fatto essenziale: l'Italia è un paese geologicamente 'giovane', e quindi quasi integralmente in fase di assestamento, segnato da sismi frequenti e diffusi, ed è insieme un paese abitato, in forma organizzata di città, da oltre 2500 anni.
Si può dire in effetti che siano immuni da pericolo di terremoti la sola isola di Sardegna e, in buona parte, la chiostra delle Alpi, con le eccezioni tuttavia del Friuli-Venezia Giulia - dove un terzo del territorio è ad alto rischio e che è stato infatti, com'è noto, una delle regioni italiane più dolorosamente colpite da eventi sismici - e dell'Alto Adige, dove si sono registrate scosse nel luglio 2001. Nel resto del paese, l'intera dorsale appenninica è a rischio più o meno alto e la conferma è venuta dalle scosse ripetutesi fra Umbria e Marche nel 1997, che hanno causato fortunatamente poche vittime, provocando però danni ingenti al patrimonio abitativo e a quello storico-artistico: la sola Basilica di San Francesco ad Assisi, del resto, ha subito, dal 1250 a oggi, ben 24 terremoti di grado elevato. Vi sono regioni del Mezzogiorno quasi integralmente esposte al pericolo di sismi di grande portata: l'Abruzzo, per es., per quasi il 30% sismico ad alto grado e per un altro 51,5% a medio grado, oppure la Basilicata, per il 4,5% a rischio elevato e per l'81,6% a rischio medio. Situazioni analoghe sussistono per la Campania, per la Calabria, per le già citate Umbria e Marche, per il Lazio e per la stessa Toscana.
Tuttavia, anche se il segnale rosso della massima all'erta e anche quello di media pericolosità suonano soprattutto nel Mezzogiorno, è l'intero paese a risultare esposto a seri pericoli, aggravati, per le persone, laddove l'espansione edilizia è avvenuta per lo più in forme illegali e quindi senza alcuna misura - invece essenziale - di messa in sicurezza. Così, alla vetustà del patrimonio abitativo, sovente senza manutenzioni in alta collina e montagna, si somma l'estrema fragilità del patrimonio residenziale recente, fatto di case tirate su nella più grande economia. Lo stesso cemento armato poi è risultato rigido e insieme fragile, molto meno elastico dei materiali antichi, della pietra, del legno, del mattone. I nostri antenati conoscevano bene le tecniche antisismiche: gli edifici meglio costruiti da questo punto di vista, a Roma (che pure risente della sismicità dei Castelli, dell'Umbria, dell'Abruzzo o della stessa Campania), sono il Pantheon e il Colosseo. Ecco perché la stessa ricostruzione fra Umbria e Marche deve essere di necessità non rapidissima, per consentire la messa in sicurezza preventiva di tutto il patrimonio, storico-artistico e residenziale, intorno al quale, fra l'altro, gira un movimento turistico di migliaia di miliardi.
La maledizione dell'abusivismo edilizio, oltre a sconciare ambienti e paesaggi bellissimi, a partire dalle coste siciliane e calabresi, rende ancora più vulnerabili i territori quando vengano colpiti dai terremoti. Si pensi alle falde del dormiente Vesuvio, dove non dovrebbe esserci una sola casa e dove invece abitano ormai 700.000 persone, quasi tutte abusivamente, sicuramente tutte in pericolo, come nell'area, non meno a rischio, dei Campi Flegrei. Dal 1991 è stato creato sulle pendici del Vesuvio un Parco nazionale il cui presidente cerca, con enorme fatica, di arginare nuovi abusi e di demolire una parte di quelli vecchi.
Nei processi di antropizzazione, spesso violenti, subiti dal nostro paese rientrano i disboscamenti, che sono stati intensi per secoli e secoli, soprattutto nel Sud e nelle Isole. La politica mussoliniana della 'battaglia del grano', volta a rendere l'Italia autosufficiente, più che altro sul piano propagandistico, dal punto di vista cerealicolo ha prodotto ulteriori impoverimenti lungo le pendici appenniniche, privandole di altre aree di bosco e sottobosco. Analogo effetto ha sortito, in parte, la riforma agraria degli anni Cinquanta nei casi in cui, per lenire l'oggettiva 'fame di terra', ha prosciugato zone umide che ora (vedi la Valle del Mezzano nel comprensorio di Comacchio) sarebbe più utile ripristinare, o sottratto alla macchia colline ancora oggi di assai stentata produttività. Sta di fatto che, pur essendo per oltre due terzi un paese di montagna (al 35,2%) e di collina, nella graduatoria europea della forestazione l'Italia figura piuttosto indietro con un 22,1% di media, venendo molto dopo la Finlandia, la Svezia, la Grecia, l'Austria, il Portogallo e le stesse Germania (30%) e Francia (27%). Vi sono regioni, per es. le Marche, che potrebbero essere investite assai utilmente da processi di riforestazione intensivi, con generale beneficio ambientale e paesistico.
Le aree protette
Di contro a questo quadro negativo occorre ricordare che nell'ultimo decennio la protezione della natura ha fatto passi da gigante, grazie alla l. 6 dicembre 1991, nr. 394, detta legge Ceruti, fortemente voluta anche da Antonio Cederna, allora deputato. Con questa legge si è passati dai quattro Parchi nazionali del dopoguerra (i primi due, Abruzzo e Gran Paradiso, istituiti da Benedetto Croce nel 1922) alla ventina attuale, con una crescita da uno striminzito 4% a circa il 10% del territorio nazionale, anche se una parte di queste aree deve ancora essere protetta in modo attivo, al di là di carte e decreti. Vi sono, tuttavia, regioni nelle quali la superficie tutelata, fra oasi, riserve e parchi, regionali o nazionali, è ancora assai modesta: 0,7 ettari per abitante nella splendida Sardegna, tanto ferita dagli incendi dolosi, poco più di 2 ettari nel Veneto. I valori massimi si registrano in Valle d'Aosta, con 34,4 ettari per abitante, seguita dal Trentino-Alto Adige, dall'Abruzzo e dalla Calabria.
Il discorso sulle aree protette è fondamentale nel nostro difficile paese perché la sua natura collinare e montana esige oggi cure ancor più particolari. Fino all'Unità d'Italia, infatti, soltanto un terzo scarso degli italiani abitava nei Comuni di pianura, mentre attualmente vi si concentra, di fatto, la metà della popolazione (una densità molto alta se si pensa che i territori pianeggianti rappresentano meno di un quinto di tutta l'Italia, esattamente il 18,3%). Parallelamente, montagna e collina sono state protagoniste di un esodo biblico che ha spostato verso le città di pianura e verso le coste (fino agli anni Sessanta anche verso l'estero) milioni di italiani. Il rapporto si è dunque invertito e nelle terre alte è rimasto soltanto un quinto di tutta la popolazione, con uno spopolamento che inesorabilmente continua e che cancella un numero sempre più alto di aziende agricole di montagna: per il prossimo decennio si prevede la scomparsa di conduttori agricoli in un altro milione e più di ettari, sull'Appennino e anche sulle Alpi.
Ciò significa che un sistema plurisecolare di cura del territorio, di coltivazione, di regimentazione delle acque, di taglio controllato dei boschi, di pulizia di torrenti, canali, chiuse, di attenzione ai pascoli, un sistema poggiato su continui terrazzamenti sostenuti da muri e muretti, è andato e continuerà ad andare in crisi in maniera sempre più grave, divenendo, da protezione che era, un'autentica minaccia per il fondovalle. Qui infatti le alluvioni si scaricano con una velocità e una violenza accresciute, anzi potenziate in modo dirompente, dalla sparizione pressoché completa delle strade 'bianche', sterrate, che, bellissime pure dal punto di vista paesistico, concorrevano al drenaggio e sono ora sostituite quasi ovunque da arterie asfaltate che tagliano a fette montagne e colline intere. A questo asfalto spalmato un po' ovunque, con pendenze fortissime, si è aggiunta spesso la cementificazione degli alvei di torrenti grandi e piccoli. I risultati di tutto ciò si manifestano periodicamente a Genova e sulle riviere liguri, in Garfagnana e in Versilia, dove, inoltre, gli incendi boschivi, così frequenti e quasi tutti dolosi, concorrono a 'cuocere' altri terreni prima coperti di vegetazione e ora esposti, con le prime piogge battenti, al dissesto e alla colata a valle.
In natura 'tutto si tiene', tanto più quando questa natura è stata 'fatta a mano', o comunque curata attentamente dall'uomo. Questa cura adesso non c'è più o c'è sempre meno: i conduttori di aziende agricole con un'età al di sopra dei 65 anni sono passati a rappresentare più del 35% degli agricoltori, quando soltanto 15 anni fa formavano un quarto del totale, mentre sempre più esiguo è il numero di quelli più giovani. Da varie parti, dopo anni di incentivi europei volti a ridimensionare le piccole aziende agricole, si avanza l'idea di accordare invece agevolazioni mirate ai coltivatori che rimangano in montagna e nell'alta collina, in modo da evitare che la sparizione di altri presidi agricoli renda irreversibile una crisi già profonda. Si tratta di un discorso da esaminare con la massima attenzione e da combinare - ecco il punto strategico - con una più incisiva politica per le aree protette, all'interno delle quali già oggi l'Unione Europea accorda finanziamenti cospicui a fondo perduto per le attività ecocompatibili.
Insomma, favorire la persistenza di contadini, di allevatori e di artigiani in montagna, incentivare cooperative giovanili per la cura dei boschi, dei loro prodotti, degli stessi centri storici, all'interno di nuovi Parchi, è una delle poche ricette che possono salvare l'ambiente e il paesaggio italiano, evitando, oltre tutto, che la montagna e l'alta collina continuino a franare, a smottare, a scendere a valle, con esiti disastrosi. Dai primi anni Novanta il CNR ha censito annualmente oltre 1000 movimenti franosi fra Campania e Calabria, poco più di 1000 fra Marche e Umbria, quasi 1000 fra Lombardia e Liguria e così via: un bollettino disastroso, come confermano le cronache quotidiane, per es. dall'Oltrepò Pavese che 'si squaglia come un gelato'.
Le Cinque Terre sono state in questi ultimi anni un segno di speranza, pur continuando a essere contemporaneamente un simbolo di pericolo. La loro storia è esemplare: nei secoli, portando spesso la terra a spalla, con le 'coffe', sono stati innalzati 6729 km di muretti a secco - che, messi in fila, risulterebbero più lunghi della Grande Muraglia cinese - e nelle 'fasce' o 'cenge' così ottenute sono stati impiantati soprattutto vigneti di uve bianche, il famoso Sciacchetrà. Purtroppo la coltivazione a mano, faticosa e costosa, non è più praticabile. Così i coltivi da 1200 ettari si sono ridotti ad appena 100, con il risultato di far decadere gravemente quel miracolo di ingegneria ambientale, agraria e paesaggistica. La creazione del Parco nazionale, che la popolazione, guidata dal sindaco di Riomaggiore, Franco Bonanini (oggi presidente del Parco), ha fortemente voluto, ha permesso di salvare, grazie ai finanziamenti europei, un patrimonio unico al mondo. Alle Cinque Terre si arriva, infatti, soprattutto in treno, dal 1870, o in auto fino alla sola Monterosso dove c'è un parcheggio terminale. All'interno, nessuna strada, unicamente sentieri, vigneti e macchia mediterranea a strapiombo su un mare anch'esso tutelato dal Parco. Mi è capitato di percorrere anni fa il tratto dal confine nord di Bonassola scendendo fino a Vernazza ed è uno dei ricordi naturalistici e paesaggistici più sfolgoranti che personalmente conservi. In questo angolo intatto del Levante ligure, il turismo straniero, principalmente di americani, tedeschi e olandesi, è copioso e qualificato. I gestori del giovane Parco hanno lanciato agli appassionati l'idea - che ha raccolto consensi e adesioni - di farsi carico di un pezzo di Cinque Terre provvedendo alle spese di coltivazione e di manutenzione. Ma è indispensabile fare presto per invertire la tendenza al decadimento e alla rovina di quell'incredibile complesso di terrazzamenti messo su da abitanti che erano insieme marinai e vignaioli. È una scommessa formidabile, per tutta l'Italia.
Un'altra scommessa riguarda i Sassi di Matera, cinquant'anni fa superaffollati (vi si stipavano con le bestie oltre 22.000 persone) e considerati una 'vergogna nazionale', oggi invece oggetto di un rigoroso piano di recupero che ha già riportato oltre 2000 residenti in quella mirabile città rupestre, dove antichi sistemi consentivano, e consentono, di economizzare, come nel Nord Africa, ogni stilla d'acqua e ogni cenno di umidità e di frescura.
Il problema delle risorse idriche
Lo spreco di acque (di falda perlopiù) e l'avanzare della desertificazione, che minaccia circa un terzo dell'Italia, rappresentano un altro dei grandi temi ambientali del paese. Purtroppo si è giunti con enorme ritardo a regolare l'uso plurimo delle acque, captate 'a tutta forza' dal sottosuolo o inquinate con sostanze varie (atrazina, piombo ecc.). Semplificando, si può dire che l'Italia sia spaccata in due, con un Nord ricco di acque spesso però inquinate e un Sud invece povero di risorse idriche e con acquedotti che perdono lungo il percorso in media la metà dell'acqua trasportata, con punte del 70%. Di recente si sono levati alti allarmi per la siccità nelle regioni meridionali, dove molte dighe non sono state mai completate o quantomeno servite dalla rete che deve collegarle agli impianti di sollevamento, di depurazione, di irrigazione. Sono passati venticinque anni da quando, alla metà degli anni Settanta, un ministro dell'Agricoltura competente come Giovanni Marcora stimava che all'epoca occorressero 1000 miliardi di lire soltanto per questi indispensabili completamenti. Negli stessi anni la Commissione De Marchi, concludendo un lavoro approfondito iniziato dopo le devastanti alluvioni di Venezia e di Firenze del novembre 1966, proponeva, senza successo, un piano venticinquennale di spesa per la difesa del suolo di circa 10.000 miliardi. Il risultato di tanta imprevidenza sono stati i continui disastri che ci sono costati centinaia di vite umane e danni per non meno di 60.000 miliardi di lire. La captazione indiscriminata o quasi di acque dal sottosuolo ha causato o aggravato i fenomeni di sprofondamento del suolo. Ciò è avvenuto, per es., ai bordi della laguna veneziana e nella parte emiliano-romagnola della pianura padana, con il dissesto dell'intero sistema di scolo delle acque e con seri pericoli per le città (Ravenna, da questo punto di vista, è in condizioni ancora peggiori di Venezia). La fascia litoranea è stata quindi attaccata dalla terra e dal mare: lungo l'Adriatico esistevano ancora prima dell'ultimo conflitto mondiale circa 1260 km di dune a uno o più cordoni, di cui oggi sopravvive meno del 10%, circa 120 km. È una perdita enorme di bellezza paesistica, ma pure di sicurezza: per il graduale ripascimento delle spiagge, contro le mareggiate e le tempeste di vento che scagliano salmastro e sabbia verso le pinete e i boschi retrostanti disseccandoli, e così via. Anche qui cemento e asfalto hanno accelerato l'erosione naturale rendendola ovunque grave o drammatica.
Purtroppo è decaduto anche il livello di civiltà e di preveggenza degli italiani che abitano lungo i fiumi. La più recente alluvione del medio Po ha evidenziato fra le sue cause principali i fabbricati di ogni genere costruiti, contro ogni legge, nelle aree di golena e i pioppeti intensivi piantati in quella sorta di alveo di sicurezza dove il fiume deve poter sfogare l'onda di piena. È significativo che alcuni Comuni a nord di Roma abbiano formalmente protestato contro la prescrizione del piano di riassetto del Tevere con il quale si vietava di costruire ancora nelle aree alluvionali.
Rispettare la biodiversità
Per concludere si può ricordare che il nostro paesaggio è fra i più belli e variati del mondo ed è fatto di biodiversità che vanno rispettate.
In questo senso, facendo un esempio, nei rimboschimenti occorre privilegiare le essenze tipiche del bosco e del sottobosco italico, evitando di ripetere gli errori e le forzature di quanti hanno coperto i crinali appenninici di conifere anziché di lecci. Tuttavia occorre notare che, rispetto a pochi anni fa, è maturato un grado più elevato di sensibilità e di conoscenza: il rilancio di un'agricoltura fondata sui prodotti tipici antichi - a cominciare dai vini e dagli oli a denominazione di origine controllata - apre nuove prospettive alla conservazione o al restauro di un paesaggio tipicamente 'nostrano'. Occorre però anche qui fare attenzione, evitando le monocolture: per es., non riempire la collina italiana di soli vigneti. Ma, rispetto all'abbandono e alla decadenza, siamo, per fortuna, di fronte a un altro ordine di problemi.
La normativa sulla tutela ambientale
Il principio della "tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione" è sancito dalla Costituzione (art. 9), ma è soprattutto dalla seconda metà degli anni Ottanta che la tematica della salvaguardia dell'ambiente, intesa come diritto fondamentale della persona e interesse fondamentale della collettività, ha assunto grande rilievo ed è stata oggetto di numerosi interventi legislativi. Questi sono ispirati, complessivamente, alla concezione dell'ambiente in una prospettiva unitaria, che abbraccia nella sua definizione varie componenti (assetto del territorio, gestione delle risorse naturali, tutela del paesaggio, condizioni di vita salubre ecc.), ciascuna delle quali può costituire, e nella concreta esperienza italiana costituisce, isolatamente e separatamente, oggetto di tutela e cura. Una tappa fondamentale riguardo alla tutela del patrimonio ambientale italiano è rappresentata dalla l. 8 agosto 1985, nr. 431 (nota come 'legge Galasso'), che ha delegato alle Regioni le funzioni amministrative in materia di protezione delle bellezze naturali, stabilendo, comunque, che sono sottoposti a vincolo paesaggistico i territori costieri e quelli contermini ai laghi per una profondità di 300 m dalla battigia, i fiumi, i torrenti e i corsi d'acqua, le montagne per la parte eccedente i 1600 m per la catena alpina e i 1200 m per quella appenninica, i ghiacciai e i circhi glaciali, i parchi e le riserve nazionali o regionali, i territori coperti da foreste e da boschi. In considerazione dell'importanza del vincolo paesaggistico, peraltro, la delega di funzioni alle Regioni non comporta il venir meno dei poteri statali, che possono essere esercitati o in via sostitutiva, in caso di inerzia delle Regioni, o attraverso l'annullamento delle autorizzazioni concesse dalle Regioni: sistema, questo, ritenuto dalla Corte Costituzionale coerente con la rilevanza del valore costituzionale della tutela paesaggistica, la cui attuazione richiede il concorso dello Stato e delle Regioni in un quadro di leale collaborazione (sentenza nr. 151 del 1986).
Alla legge Galasso ha fatto seguito un altro fondamentale provvedimento, la l. 8 luglio 1986, nr. 249, con la quale, nel quadro di un organico intervento finalizzato ad assicurare la promozione, la conservazione, il recupero di condizioni ambientali conformi agli interessi fondamentali e alla qualità della vita, nonché la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale e la difesa delle riserve naturali dall'inquinamento, è stato istituito il Ministero dell'Ambiente. Tale legge ha, altresì, impegnato il governo a dare attuazione alle direttive comunitarie in materia di valutazione di impatto ambientale dei progetti per la realizzazione di opere in grado di produrre rilevanti modificazioni dell'ambiente. Ha, infine, dettato norme in materia di danno ambientale, stabilendo che qualunque fatto doloso o colposo in violazione di legge o provvedimenti adottati in base a leggi, che comprometta l'ambiente, a esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato. Nel 1999, poiché non si era verificato il processo di unificazione di tutte le competenze in materia di tutela ambientale e molte restavano suddivise tra vari organismi pubblici, il Ministero dell'Ambiente è stato riorganizzato.
Per quanto riguarda singole materie riconducibili all'uno o all'altro dei settori nei quali si articola la tutela ambientale, sono stati adottati numerosi altri provvedimenti, quali per es. la legge sulla difesa del suolo (l. 18 maggio 1989, nr. 183), la legge quadro in materia di parchi (l. 6 dicembre 1991, nr. 394), le disposizioni in materia di risorse idriche (l. 5 febbraio 1994, nr. 36), le leggi o i decreti legislativi in materia delle varie forme di inquinamento (d.p.r. 24 maggio 1988, nr. 203, per l'inquinamento atmosferico; l. 26 ottobre 1995, nr. 447, per l'inquinamento acustico; l. 22 febbraio 2001, nr. 36, per l'inquinamento elettromagnetico).
Sul piano organizzativo, rilevante importanza hanno avuto l'istituzione del Servizio per l'inquinamento atmosferico, acustico e per le industrie a rischio (d.p.r. 27 marzo 1992, nr. 309) e soprattutto quella dell'Agenzia nazionale per la protezione dell'ambiente (ANPA; l. 21 gennaio 1994, nr. 61). L'ANPA svolge attività tecnico-scientifiche, di indirizzo e di coordinamento verso le agenzie regionali (ARPA) e delle province autonome (APPA), nonché di consulenza e supporto tecnico-scientifico al Ministero dell'Ambiente. Opera inoltre come banca dati attraverso la realizzazione del Sistema informativo nazionale ambientale (SINA), raccogliendo tutti i dati provenienti dai vari settori, al fine di informare i soggetti, pubblici e privati, chiamati a intervenire sullo stato dell'ambiente. Nel 1998, dato che molte Regioni nel meridione non avevano ancora provveduto a creare le rispettive ARPA, si è avviato un programma di rafforzamento delle Agenzie nel Sud, detto Sistema agenziale nel Mezzogiorno. Nel 1999 l'ANPA ha attivato un programma di sviluppo del sistema nazionale delle conoscenze ambientali con la collaborazione delle ARPA-APPA, costituendo una rete di Centri tematici nazionali (CTN).
Da ultimo, nuove disposizioni in campo ambientale sono state dettate dalla l. 23 marzo 2001, nr. 93. Esse riguardano vari aspetti delle problematiche emergenti nel settore della tutela ambientale, dalle emissioni dei gas serra al traffico illecito di rifiuti, e intendono assicurare uno standard minimo omogeneo di controlli sull'ambiente e sul territorio, finanziare lo sviluppo delle agenzie regionali, secondo i progetti proposti dall'ANPA, adeguare e qualificare la rete e la strumentazione dei laboratori per i controlli ambientali, realizzare il coordinamento del sistema informativo ambientale. Sono inoltre previsti finanziamenti per la gestione delle attività della Commissione per le valutazioni dell'impatto ambientale e per la bonifica e il ripristino ambientale dei siti inquinati.
I parchi italiani
La legge nazionale che determina il riferimento per l'istituzione dei Parchi è la legge quadro l. 6 dicembre 1991, nr. 394. In base a essa, i Parchi nazionali rientrano tra le aree protette e sono istituiti e delimitati in via definitiva con decreto del presidente della Repubblica su proposta del ministro dell'Ambiente, dopo aver sentito la Regione; a ogni Parco è preposto un Ente Parco, con personalità di diritto pubblico e con il potere di adottare il regolamento disciplinante l'esercizio delle attività consentite entro il proprio territorio. L'Ente Parco predispone, inoltre, il piano, che sarà adottato dalla Regione, per disciplinare l'organizzazione generale del territorio e i criteri per gli interventi sulla flora, sulla fauna e sull'ambiente naturale. La legge stabilisce che i Parchi nazionali hanno rilevanza nazionale o addirittura internazionale per valori naturalistici, scientifici, culturali, educativi ecc., e si differenziano dai Parchi naturali regionali, i quali sono costituiti da aree che rappresentano un sistema omogeneo individuato nell'ambito di una o più regioni limitrofe. Le Riserve naturali possono essere statali o regionali e sono costituite da aree che contengono una o più specie naturalisticamente rilevanti della flora o della fauna o che presentano uno o più ecosistemi importanti per le diversità biologiche o per la conservazione delle risorse genetiche. La legge istituisce, infine, le Aree protette marine, nelle quali sono vietate le attività che possano comprometterne l'integrità. In particolare sono vietati la cattura, la raccolta e il danneggiamento delle specie animali e vegetali, nonché l'asportazione di minerali e di reperti archeologici, la navigazione a motore, ogni forma di discarica di rifiuti solidi e liquidi; il raggiungimento delle finalità è affidato all'Ispettorato centrale per la difesa del mare. Poiché alcune Regioni non hanno ancora adeguato la propria legislazione alla l. nr. 394, la natura dei Parchi regionali si presenta varia per dimensioni, per caratteristiche dell'ente, per i poteri assegnati e per il grado d'autonomia.
Attualmente in Italia vi sono 21 Parchi nazionali (quello di più antica costituzione è il Parco del Gran Paradiso, il più recente quello delle Cinque Terre; quattro sono in via d'istituzione), 107 Parchi regionali (i più antichi sono quello dei Promontori di Portofino e quello Ticino Lombardo; 17 sono in via d'istituzione), oltre 400 Riserve naturali (di cui 154 statali) e 16 Parchi provinciali o sovracomunali. Nel 1989, per iniziativa di alcuni Parchi regionali, è nata la Federazione italiana dei Parchi e delle Riserve naturali (Federparchi), alla quale aderiscono 16 Parchi nazionali, 81 Parchi regionali e numerose Riserve naturali, oltre a Regioni, Province, Comuni che gestiscono territori tutelati, e varie associazioni. Gli scopi della Federazione consistono nel "favorire la conservazione e la corretta valorizzazione dell'ambiente naturale; promuovere la creazione del sistema nazionale delle aree protette; rappresentare gli enti gestori nei confronti degli altri organismi nazionali e internazionali; favorire la collaborazione, la circolazione delle informazioni e lo scambio delle esperienze". La Federparchi fa parte dell'Unione mondiale per la conservazione della natura (IUCN) ed è tra i fondatori dell'Associazione dei Parchi abitati dell'Unione Europea.
Globalmente è sottoposto a tutela il 10% circa della superficie italiana (percentuale che varia dal 9 all'11% secondo le diverse tipologie di calcolo adottate). Pur rappresentando meno del 2% della superficie dell'Europa, il totale delle aree protette italiane ospita la metà delle specie vegetali e quasi un terzo di quelle animali vertebrate dell'intero continente.
Di fronte al sensibile aumento del territorio sottoposto a tutela, si deve osservare che negli ultimi anni si è in vario modo manifestata una preoccupante controtendenza. Ne è un esempio il caso del Parco di Portofino, per il quale nell'aprile 2001 la Regione Liguria e i Comuni hanno votato una riduzione della superficie da 4600 a 1000 ettari. Analogamente la creazione del Parco nazionale del Gennargentu, voluta e auspicata fin dal 1962, è stata a lungo bloccata dalle pressioni esercitate da un'alleanza di cacciatori e allevatori. Sempre a causa dell'opposizione dell'ambiente venatorio, il Parco nazionale dell'Appennino tosco-emiliano è stato varato con una perimetrazione a 'macchia di leopardo' e il Parco regionale del Velino-Sirente, in Abruzzo, è stato decurtato di 4000 ettari su 60.000. Sono invece gli agricoltori a opporsi all'istituzione del Parco nazionale delle Murge, in Puglia. Sempre più forti sono, nel Lazio, le sollecitazioni, soprattutto da parte degli speculatori edilizi, a ridurre le superfici dei parchi di Veio e di Bracciano. Infine, una delle prime Riserve italiane, il Parco lombardo della Valle del Ticino, istituito nel 1983, è minacciata dall'espansione dell'Aeroporto di Malpensa e dalla costruzione della strada statale Boffalora-Malpensa.
L'abusivismo edilizio
Nella legislazione italiana il fenomeno dell'abusivismo edilizio è stato oggetto di numerosi interventi, statali e regionali, a partire dalla l. 17 agosto 1942, nr. 1150, che prevedeva la demolizione o la rimessa in pristino delle costruzioni abusive. Seguì la l. 6 agosto 1967, nr. 756, che introduceva una sanzione pecuniaria equivalente al valore delle opere abusive in alternativa alla demolizione, mentre la successiva l. 28 gennaio 1977, nr. 10, conteneva le norme relative all'edificabilità dei terreni e introduceva la misura della confisca per le ipotesi più gravi di non ottemperanza all'ordine del Comune di demolire la costruzione abusiva.
Il tentativo di reprimere gli abusi edilizi e urbanistici ha trovato un'organica sistemazione nella l. 28 febbraio 1985, nr. 47 ("Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive"), volta a proteggere il territorio in conformità alla normativa urbanistica. Tale legge, che evidenzia alcuni principi fondamentali cui anche le Regioni, a livello legislativo, sono tenute ad adeguarsi, promuove anzitutto un rafforzamento e una maggiore efficacia della vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia, puntualizzando i doveri dei sindaci e degli altri soggetti coinvolti in tale attività (ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, segretari comunali, direttori dei lavori ecc.); inoltre, nella definizione di un nuovo regime sanzionatorio, introduce la distinzione fra infrazioni formali e sostanziali. Tuttavia, proprio tale distinzione, che ha permesso l'applicazione della sanatoria a opere totalmente abusive (cioè sprovviste di concessione o autorizzazione edilizia), purché conformi sostanzialmente alla normativa urbanistica (caso questo prevalente in Italia), ha fatto sì che il provvedimento, varato per regolarizzare il fenomeno dell'abusivismo, si sia tradotto in un condono che ha avuto l'effetto opposto di incentivare il fenomeno stesso; la medesima cosa, peraltro, si è ripetuta con le disposizioni in materia edilizia contenute nella legge finanziaria 23 dicembre 1994, nr. 724. Alla repressione dell'abusivismo miravano due disegni di legge, presentati rispettivamente nel luglio 1999 dal ministro dei Lavori pubblici e nel gennaio 2001 dal ministro dell'Ambiente, che non sono mai stati passati all'approvazione del Parlamento. L'ultima iniziativa in materia è stata l'istituzione di una Direzione generale del Ministero dei Lavori Pubblici, a sostegno degli interventi contro l'abusivismo edilizio (decreto pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 24 maggio 2001).
Le dimensioni attuali del fenomeno possono essere quantificate in base alle stime presentate da Legambiente e dal CRESME (Centro di ricerche economiche e sociologiche di mercato sull'edilizia). Da queste risulta che nel quinquennio 1996-2000 sono state realizzate 163.391 costruzioni abusive, per una superficie complessiva di 22,9 milioni di m2 e un valore immobiliare di 20.608 miliardi di lire. Più del 75% delle costruzioni illegali è concentrato nelle regioni meridionali e nelle isole, in particolare in Campania, Sicilia, Puglia e Calabria, dove esiste quasi il 60% del totale nazionale delle costruzioni illegali. Per il solo anno 2000, secondo dati di Legambiente, sono state immesse sul mercato 28.938 costruzioni abusive per un valore immobiliare di 3548 miliardi di lire e una superficie complessiva di 3.941.900 m2. La percentuale di quelle abusive sul totale delle nuove costruzioni è dell'11%.
Nonostante si tratti di dati ancora molto allarmanti, il fenomeno appare in calo. Nel 2000 il numero di costruzioni abusive è diminuito, rispetto all'anno precedente, del 13,8% (corrispondente a circa 4600 unità) e la riduzione è ancora maggiore se si considera l'arco degli ultimi tre anni (-15,1%). Questa inversione di tendenza è dovuta anche all'opera di abbattimento degli edifici abusivi promossa in varie regioni. Oltre a quello del Villaggio Coppola, altri esempi eclatanti di smantellamento hanno riguardato l'albergo del Fuenti sulla costa amalfitana e le case dell'oasi di Simeto presso Catania e della Valle dei Templi ad Agrigento.
Resta prioritaria la demolizione di quelli che sono stati definiti gli 'ecomostri', enormi complessi edilizi eretti abusivamente, con grave scempio del patrimonio ambientale e paesistico, in prossimità di spiagge, parchi e riserve naturali. Una lista di undici ecomostri era inserita nel disegno di legge presentato nel gennaio 2001, che ne prevedeva l'immediato abbattimento. L'elenco è composto da: Spalmatoio di Giannutri, Grosseto (11.000 m3 di mini appartamenti in una zona inserita nel Parco nazionale dell'Arcipelago Toscano); Scheletro di Palmaria a Portovenere, La Spezia (10.000 m3 di costruzioni destinate ad albergo e a mini appartamenti, inserite nel Parco regionale dei Promontori e delle Isole); Conca di Alimuri a Vico Equense, Napoli (struttura a ridosso della battigia destinata a uso alberghiero e inserita nel piano urbanistico territoriale della penisola sorrentino-amalfitana); Baia Punta Licosa a Montecorice, Salerno (53 edifici residenziali in un'area situata all'interno del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano); Pietra di Polignano a Mare, Bari (albergo e villini, per un totale di 34.000 m3, situati nella fascia di 300 m dalla battigia, soggetta a vincolo di inedificabilità assoluta); Fossa Maestra, Carrara (65 mini appartamenti in un'area di valore paesaggistico e ambientale da sottoporre a conservazione); Baia di Copanello a Stalettì, Catanzaro (albergo e abitazioni a schiera); Villaggio Sindona a Lampedusa (12 edifici a schiera realizzati in località Cala Galera nella riserva naturale di Lampedusa, soggetta a vincolo paesaggistico, idrogeologico e di inedificabilità assoluta); Capo Rossello a Realmonte, Agrigento (complesso di edifici residenziali per complessivi 9000 m3, vicino alla battigia); Scala dei Turchi a Realmonte, Agrigento (complesso alberghiero di circa 15.000 m3); Punta Perotti, Bari (due edifici di 11 e 13 piani sul lungomare di Bari, a una distanza inferiore a 300 m dal mare).
Gli incendi boschivi
Il numero medio degli incendi boschivi in Italia è passato da circa 6000 negli anni Sessanta a 12.000 negli anni Ottanta, a 15.000 negli anni Novanta, corrispondenti a quasi 42 incendi al giorno, cioè circa 2 all'ora. Secondo le stime del Corpo Forestale dello Stato, nel decennio 1990-2000 in Italia sono bruciati più di 500.000 ettari di bosco e le azioni di rimboschimento e di ricostituzione boschiva non sono riuscite a rimediare alle devastazioni. I danni sono ingenti sia sul piano economico sia su quello ecologico: dal primo punto di vista sono rappresentati dal valore della massa legnosa; dal secondo, sono connessi alle funzioni 'senza prezzo' svolte dal patrimonio boschivo, quali la difesa idrogeologica, la produzione d'ossigeno, la conservazione naturalistica, il richiamo turistico, le possibilità di lavoro per numerose categorie.
Gli incendi dei boschi, pur seguendo l'andamento climatico, non si manifestano uniformemente sul territorio. A parità di condizioni climatiche e di coefficiente di aridità, vi sono altre diverse situazioni che ne favoriscono lo sviluppo, quali l'afflusso turistico, l'abbandono rurale delle campagne, l'attività di particolari pratiche agronomiche e pastorizie, le vendette, le speculazioni.
In base all'andamento meteorologico e climatologico, si registrano due periodi ad alto rischio: l'uno estivo, nei mesi di luglio, agosto, settembre, più marcato nelle regioni del Centro-Sud, e, in parte, in Liguria; l'altro invernale, nei mesi di gennaio, febbraio e marzo, localizzato in particolare nelle zone dell'arco alpino, quali la Liguria, il Piemonte, la Lombardia, il Veneto. In questi periodi, anche se con differente intensità e pur variando da zona a zona, si determinano le condizioni di aridità, predisponenti il fenomeno.
Le cause scatenanti l'incendio dei boschi possono essere naturali (legate all'azione innescante di eruzioni vulcaniche o di fulmini oppure a fenomeni di autocombustione, per altro rarissimi nei nostri climi) o antropiche, volontarie (per es. per creare terreni coltivabili e di pascolo, per trasformare il terreno rurale in edificatorio, per protestare contro la creazione di aree protette e l'imposizione dei vincoli ambientali) o colpose (legate all'imprudenza, alla negligenza, alla disattenzione). Ma la causa prima degli incendi boschivi deve essere ricercata essenzialmente nell'alto grado di depauperamento e forte spopolamento delle zone dell'alta collina e della montagna, che ha determinato l'abbandono di tutte quelle pratiche agronomiche e selvicolturali in passato effettuate nelle campagne e nei boschi: i diradamenti, le ripuliture, il pascolo disciplinato, eventuali colture e, in alcuni casi, anche il fuoco controllato, facevano sì che il sottobosco non fornisse esca agli incendi, mentre nel contempo la presenza attiva dell'agricoltore e del pastore era garanzia e sicurezza per un rapido intervento quando l'incendio scoppiava.
Una correlazione significativa è quella degli incendi boschivi con la circolazione veicolare. Le statistiche mostrano infatti che a un progressivo aumento degli autoveicoli circolanti e dello sviluppo viario corrisponde l'incremento degli incendi boschivi. Dal rilevamento dei punti d'innesco del fuoco si evince come moltissimi incendi abbiano inizio dal bordo di strade e autostrade.
Secondo le disposizioni della l. 21 novembre 2000, nr. 353, alle Regioni è affidato il compito di approvare il piano regionale per la programmazione delle attività di previsione, prevenzione e lotta attiva contro gli incendi boschivi, sulla base di linee guida e di direttive deliberate dal Consiglio dei ministri. La normativa precisa che l'attività di prevenzione consiste nel "porre in essere azioni mirate a ridurre le cause e il potenziale innesco d'incendio nonché interventi finalizzati alla mitigazione dei danni conseguenti". Le Regioni possono concedere contributi a privati proprietari di aree boschive per operazioni di pulizia e manutenzione silvicolturale, prioritariamente mirate alla prevenzione degli incendi boschivi, e curano inoltre le attività formative e informative relative all'educazione ambientale. Gli interventi di lotta attiva contro gli incendi boschivi, cioè le attività di ricognizione, sorveglianza, avvistamento, allarme e spegnimento con mezzi da terra e aerei, sono coordinati, sul territorio nazionale, dal Dipartimento di protezione civile, che si avvale del Centro operativo aereo unificato (COAU).