Degrado ambientale
È ormai molto tempo che gli ecologi denunciano il fatto che il problema dell'alterazione degli ecosistemi è stato affrontato in modo superficiale, senza comprenderne a fondo le conseguenze. Due studi riguardanti aspetti diversi del problema - uno, promosso dalla Banca Mondiale, sul deterioramento dell'ecosistema agricolo in atto in Etiopia, e l'altro, effettuato da un ricercatore dell'Università di Yale, sugli effetti dell'inquinamento atmosferico e delle piogge acide sulle foreste nordorientali degli Stati Uniti -hanno fornito una precisa valutazione degli effetti dei crescenti stress, fisici e chimici, sugli ecosistemi. Ambedue giungono alle medesime conclusioni: se gli stress aumenteranno di intensità, gli ecosistemi continueranno a deteriorarsi fino a giungere al collasso.
Per molti scienziati queste conclusioni non rappresentano una sorpresa. Una piccola comunità di ecologi ha per anni cercato di mettere in guardia contro il fatto che gli stress causati dalla crescita della popolazione e dall'inquinamento possono determinare il deterioramento dell'ecosistema. Tale deterioramento sta ripercuotendosi negativamente sull'economia di moltissimi paesi, particolarmente quelli del Terzo Mondo, e affrontarne le conseguenze economiche è divenuto il principale problema di alcuni governi.
La crescente quantità di dati forniti dall'ecologia, dall'agronomia e dall'idrologia indica che un prolungato abuso dei sistemi biologici può mettere in moto cambiamenti che si 'auto-intensificano': ogni stadio di deterioramento affretta l'inizio del successivo. Quando nelle economie di sussistenza un cambiamento ecologico distruttivo si accompagna a una rapida crescita della popolazione, si determinano le condizioni perché si verifichi una vera e propria tragedia.
Kenneth Newcombe, studioso di problemi energetici ed ecologo della Banca Mondiale, ha descritto come sistemi complessi e interrelati si deteriorino passando attraverso molti stadi; il suo modello, basato su uno studio sul campo effettuato in Etiopia, mostra come la perdita della copertura arborea determini un declino a cascata nella produttività biologica ed economica. Secondo Newcombe, via via che gli uomini si spostano alla ricerca di nuovi terreni agricoli, le foreste naturali si 'ritirano' di fronte all'aratro. Senza alberi i nutrienti minerali non vengono più riciclati dagli strati più profondi del suolo, e con l'interruzione di questo ciclo inizia il declino della fertilità del suolo. In questo primo stadio i boschi residui sono ancora sufficienti e la graduale diminuzione della fertilità del terreno è quasi impercettibile.
Col crescere della popolazione nelle campagne e nei villaggi aumenta la richiesta di legno per costruzione e da ardere. Tagliare legname dalle foreste residue diviene così una fonte di reddito per le famiglie contadine, che spesso nelle proprie case utilizzano come combustibile anche i residui del raccolto o il letame. Ma ciò determina a sua volta l'interruzione di altri due cicli nutritivi: infatti la rimozione dei residui del raccolto e l'utilizzazione del letame per scopi diversi dalla concimazione dei campi determinano il degrado della struttura del suolo e lasciano il terreno più esposto all'erosione. Su campi in pendenza l'erosione annuale del suolo causa frequentemente perdite di 50-100 tonnellate per ettaro, il che determina un aumento del ritmo di distruzione delle foreste residue, mentre l'ulteriore diminuzione di fertilità del suolo comincia a ridurre l'entità del raccolto.
Una volta che le zone alberate si sono esaurite, cominciano a esser messi in vendita sui mercati locali letame e residui del raccolto invece che legna. La continua perdita di nutrienti e di materiale organico da parte dei terreni coltivati determina una drastica riduzione della loro resa e anche i terreni da pascolo non riescono più a nutrire adeguatamente il bestiame. Le famiglie traggono una quota di reddito liquido maggiore dalla vendita di letame che non da quella di prodotti agricoli, dato che il raccolto, per la sua irregolarità, si rivela insufficiente anche per la sussistenza. Infine in questi villaggi il letame bovino diviene la principale fonte di combustibile e quindi anche la principale fonte di reddito dei contadini della zona. Le famiglie di agricoltori utilizzano i residui del raccolto sia come combustibile che per sfamare il bestiame, che non riesce più a ricavare dai pascoli una sufficiente quantità di cibo. Il progressivo esaurimento dello strato superficiale del suolo espone gli agricoltori al rischio di una totale mancanza di raccolto anche in stagioni non particolarmente aride, e nei mercati i prezzi dei prodotti alimentari e dei combustibili salgono rapidamente.
In una economia di sussistenza, quando si raggiunge questo stadio finale, la produttività biologica è destinata a crollare. Le famiglie non riescono più a produrre cibo sufficiente, non solo da vendere sui mercati, ma neppure per loro stesse e il loro bestiame. Comincia un esodo su larga scala dalle zone rurali, spesso avviato da un periodo di siccità che in altri momenti avrebbe potuto essere sopportato. Si determina una situazione di carestia di proporzioni sempre più ampie; la mancanza di potere d'acquisto da parte degli agricoltori si accompagna a una assoluta carenza di cibo a qualunque prezzo.
Questo modello di ciclo accelerato di degrado trova al momento attuale una conferma in alcune zone dell'Africa. Un rapporto congiunto dell'United Nations Development Program e della Banca Mondiale (v., 1984) rileva che "questa transizione dallo stadio iniziale a quello finale è in atto in tutta l'Etiopia e ha raggiunto la fase terminale in alcune zone del Tigrè e in Eritrea". A un convegno di esperti promosso dalla Banca Mondiale e tenutosi in Botswana nel marzo del 1985, Newcombe comunicò che secondo alcuni dati era già stata raggiunta la fase finale in alcune zone di molti paesi dell'Africa meridionale e che praticamente in tutti vi erano zone che avevano raggiunto lo stadio in cui il disboscamento effettuato per ricavarne legname era superiore a quello effettuato per mettere a coltura nuove terre.
L'effetto a cascata descritto da Newcombe è la conseguenza della distruzione dei meccanismi autoregolativi dei sistemi naturali da cui dipendono gli uomini. È possibile individuare i diversi stadi del declino e il fattore che causa l'instabilità del sistema. Secondo Newcombe nelle economie di sussistenza si arriva al punto critico quando si tagliano più alberi per ottenere combustibile che per procurarsi nuovi terreni da coltivare.
Secondo le stime della FAO, nell'Africa tropicale il 60-70% del disboscamento viene effettuato per ricavare terreni da coltivare, ma in molti paesi la raccolta di legname da utilizzare come combustibile o per altri scopi oltrepassa il limite di rigenerazione naturale delle foreste accessibili che ancora rimangono. Nel 1980 uno studio della Banca Mondiale relativo all'Africa occidentale ha mostrato che la domanda di legna da ardere superava la produzione in 11 dei 13 paesi presi in considerazione; solo in Senegal e in Ghana la crescita annuale delle foreste ancora esistenti era ritenuta sufficiente a soddisfare la richiesta.
Il grado di squilibrio tra domanda di legna e rigenerazione naturale degli alberi è molto variabile. Ad esempio, in situazioni diverse come quelle della Mauritania, a clima semiarido, e del Ruanda, che è montagnoso, la richiesta di legna da ardere è 10 volte superiore alla rigenerazione naturale, in Kenya il rapporto è di 5 a 1, in Etiopia, Tanzania e Nigeria la domanda è 2,5 volte superiore alla rigenerazione naturale, e in Sudan è più o meno doppia.
Lo squilibrio che si riscontra in Sudan fornisce un buon esempio delle interazioni tra le popolazioni in rapida espansione e i sistemi biologici da cui traggono il loro sostentamento. Secondo valutazioni basate su dati della Banca Mondiale, il consumo nazionale di legna da ardere ha oltrepassato la soglia di rigenerazione naturale intorno al 1965. Da allora il consumo è stato superiore alla crescita di nuovi alberi, determinando così una diminuzione sia delle riserve di boschi che della crescita annua.
Durante i primi anni successivi al momento in cui fu superata la soglia di rigenerazione naturale, le foreste sudanesi subirono mutamenti di scarsa entità. Dopo 20 anni l'area coperta dalle foreste si è ridotta di circa un quinto, ma nei prossimi 20 anni è probabile che l'aumento della domanda porti all'esaurimento completo delle aree boschive. Durante la prima metà di questo arco di 40 anni non sono ancora divenuti evidenti i problemi che si presenteranno nella seconda, ma una volta superata la prima metà del periodo solo sforzi straordinari di controllo delle nascite e di rimboschimento potranno impedire il totale collasso del sistema.
Uno studio effettuato dall'ecologo F. H. Bormann dell'Università di Yale sulle conseguenze degli stress chimici sugli ecosistemi forestali degli Stati Uniti nordorientali ricorda l'analisi di Newcombe degli effetti degli stress fisici sugli ecosistemi rurali in Africa. Bormann si è interessato in particolare degli effetti dell'inquinamento atmosferico e delle piogge acide. Come Newcombe, egli ha identificato diversi stadi nel processo di deterioramento delle foreste: dapprima l'alterazione dovuta all'inquinamento è minima, e gli effetti sull'ecosistema forestale sono trascurabili; coll'aumentare del livello di inquinamento, le specie più sensibili cominciano a mostrare segni di sofferenza e la struttura generale dell'ecosistema inizia a modificarsi. In genere le specie di dimensioni maggiori sono le prime a scomparire, seguite dagli arbusti e dalle erbe; col tempo, via via che gli agenti inquinanti si accumulano, si verifica un calo della produttività e la capacità dell'ecosistema di provvedere alla propria reintegrazione diminuisce.
Con la riduzione della densità della vegetazione, diminuisce anche la quantità di nutrienti presenti nel sistema e a questo punto si intensifica lo scorrimento superficiale dovuto alle precipitazioni atmosferiche e l'erosione del suolo comincia a diventare evidente. La rimozione del terreno e dei suoi elementi nutritivi e la loro immissione nei corsi d'acqua e nei laghi vicini possono avere conseguenze disastrose. Se l'uomo non interviene per eliminare la fonte dello stress chimico, l'ecosistema continuerà a deteriorarsi fino ad arrivare al collasso. Per dare un esempio di questo stadio finale di collasso di un ecosistema, Bormann cita gli ecosistemi degradati esistenti intorno a fonti di forte inquinamento atmosferico come Copper Hill, nel Tennessee, e Sudbury, nell'Ontario.
È difficile analizzare il deterioramento degli ecosistemi forestali dovuto all'inquinamento, anche perché gli inquinanti sono molti e di natura diversa. Foreste apparentemente in buone condizioni possono per lungo tempo funzionare da bacini di raccolta di inquinanti prima di mostrare segni di stress. D'altra parte, gli stress chimici spesso indeboliscono le specie più sensibili, rendendole maggiormente vulnerabili a eventi naturali quali siccità, gelo, insetti o malattie, per cui un abnorme incremento nel numero di certi insetti potrebbe essere il risultato dell'indebolimento fisiologico di una specie di pianta che non riesce più a sottrarsi al loro sfruttamento.
Un altro studio delle pressioni esercitate sugli ecosistemi prendeva in considerazione le praterie che stanno subendo un processo di degradazione dovuto ad agenti fisici in nove paesi dell'Africa meridionale. Si tratta di un problema particolarmente rilevante in Africa, dove il numero dei capi di bestiame è cresciuto quasi altrettanto rapidamente della popolazione umana. Nel 1950 l'Africa aveva 219 milioni di abitanti e 295 milioni di capi di bestiame. Da allora la popolazione è aumentata di 2,8 volte fino a raggiungere i 610 milioni nel 1988, mentre il numero dei capi di bestiame è aumentato di un fattore 1,9, raggiungendo i 558 milioni.
Data la scarsa disponibilità di cereali e leguminose da granella per alimentare il bestiame, i 181 milioni di bovini, 200 milioni di pecore e 167 milioni di capre vengono nutriti quasi esclusivamente col pascolo. Se si esclude la fascia infestata dalla mosca tze-tze, il bestiame rappresenta un fattore essenziale dell'economia, ma in molti paesi le greggi stanno distruggendo il manto erboso che fornisce il loro nutrimento.Il resoconto della FAO riporta i dati relativi al grado di sfruttamento dei pascoli in nove paesi dell'Africa meridionale: "In alcune nazioni e in vaste zone di altre il bestiame supera la capacità di sostentarlo in percentuali che vanno dal 50 al 100%. Ciò ha determinato il deterioramento del suolo - riducendo così ulteriormente la sua capacità di fornire sostentamento - e una sua grave erosione che hanno innescato un ciclo accelerato di degrado" (v. SADCC, 1984). L'eccessivo sfruttamento dei pascoli e la diminuzione delle precipitazioni stanno modificando la natura della vegetazione dei pascoli e la loro capacità di fornire nutrimento al bestiame.
Coll'aumentare dello sfruttamento dei pascoli e della raccolta di legna, nelle regioni semiaride le erbe e gli arbusti legnosi perenni vengono rimpiazzati da erbe annuali che si riproducono rapidamente. L'estinzione di alberi come le acacie del Sahel (la fascia di savana semiarida che si estende da una parte all'altra dell'Africa a sud del Sahara) comporta una diminuzione del foraggio durante la stagione secca; infatti i baccelli ricchi di proteine che racchiudono i semi delle acacie costituivano un prezioso alimento in quei pascoli altrimenti brulli. Le erbe annuali ora predominanti sono molto più sensibili alla mancanza d'acqua di quelle perenni, e possono non germinare negli anni di siccità. I terreni da pascolo, che stanno già riducendosi per far posto a terreni coltivati, non riescono più a nutrire il bestiame, neppure negli anni in cui vi è abbondanza d'acqua.
Nonostante che il degrado ambientale abbia ormai raggiunto un punto tale da condizionare in maniera rilevante il futuro economico dell'Africa, è stato fatto ben poco per valutare in modo sistematico i mutamenti avvenuti nei sistemi di sostegno del continente. Una importante eccezione è rappresentata da uno studio fatto per conto dell'United Nations Environment Programme da Leonard Berry, della Clark University, per stabilire i mutamenti ambientali sulla base di cinque indicatori (v. tab. I). Questo studio, che all'inizio riguardava 14 nazioni e copriva il periodo dal 1977 al 1984, in seguito è stato esteso fino a comprendere 20 nazioni ed è stato aggiornato al 1985. L'aver incluso l'Africa orientale e meridionale non ha che confermato la gravità dei dati ottenuti nel primo studio.
Le nazioni che sono state prese in considerazione nello studio più recente, e che rappresentano una sezione trasversale del continente, hanno una popolazione di 352 milioni di abitanti. Questo studio si è concentrato su cinque indicatori del deterioramento ecologico: l'avanzamento delle dune di sabbia, il deterioramento dei pascoli, l'esaurimento delle foreste, il deterioramento dei sistemi di irrigazione e i problemi relativi alle colture agricole alimentate da acqua piovana. Neppure uno dei 100 indicatori - 5 per ognuno dei 20 paesi - ha mostrato segni di miglioramento, e l'elevato livello di deterioramento di più di un quarto di essi indicava una notevole riduzione nelle capacità dell'ecosistema di sostenere l'attività economica. La rassegna di Berry mostra come gli andamenti che si riscontrano in clima, ecologia, economia e demografia siano interdipendenti e in continua interazione, e presentino i segni di quel deterioramento che si 'auto-intensifica' già documentato da Kenneth Newcombe, cioè di quel ciclo di degrado che progressivamente riduce la capacità di recupero del terreno e limita le possibilità economiche delle persone che dipendono dalle sue risorse.
Il deterioramento ecologico - un processo insidioso dovuto a una cattiva gestione delle risorse - finisce coll'avere un'influenza negativa sullo sviluppo economico: salgono i costi effettivi della produzione e delle importazioni, mentre si abbassano la produttività della terra e del lavoro, il rendimento, le esportazioni e le entrate fiscali. I dati a nostra disposizione - siano essi relativi alle carenze regionali di acqua negli Stati Uniti, o di legna da ardere in India, o di prodotti alimentari in Africa - mostrano comunque con chiarezza che esiste una correlazione tra spreco o abuso di risorse e difficoltà economiche. Ancor più chiaro risulta il fatto che il declino economico su base ecologica tende a ignorare i confini nazionali.
Le eccessive pressioni esercitate sulla terra e la sua cattiva gestione hanno portato a un degrado dei terreni coltivati diffuso in tutti i continenti. In tutto il mondo il rendimento dell'agricoltura è più che raddoppiato durante la generazione passata, anche se le tendenze riscontrate nei livelli di produttività dei terreni coltivati sono state molto varie. All'estremità superiore vi sono nazioni che hanno addirittura triplicato la produttività del terreno, mentre in altre si è verificato un calo. Oltre al degrado del terreno già coltivato, la resa media del raccolto è diminuita perché sono stati messi a coltura anche terreni coperti da uno strato poco profondo di humus o in forte pendenza, o le zone aride a margine di quelle più fertili.
Dalla metà del secolo il progresso tecnologico e i maggiori investimenti nell'agricoltura hanno permesso a molte nazioni di superare gli effetti negativi del degrado del suolo. Ma in quattro paesi questo non è avvenuto (v. tab. II). In tutta l'Africa si è verificato un calo medio nella produzione di cereali e leguminose di circa un decimo: nell'ambito di questi quattro paesi, il calo più consistente si è verificato in Sudan, dove la resa media negli anni 1988-1990 è stata inferiore del 20% rispetto agli anni 1950-1952. Questo dato può risultare paradossale, in quanto ancora alla fine degli anni settanta si pensava che il Sudan diventasse il granaio del Medio Oriente, grazie agli investimenti dei paesi vicini, poveri di risorse alimentari e ricchi di capitali. Invece il degrado del suolo e la diminuzione delle piogge hanno trasformato il Sudan, che è una delle nazioni più povere della Terra, in un paese di campi profughi e di centri di assistenza per i bisognosi. La guerra civile che si è protratta durante gli anni ottanta e oltre ha ostacolato ogni tentativo di soccorso alimentare, portando il Sudan alla fame.
Non è detto che le nazioni indicate nella tab. II siano quelle in cui è più grave il degrado del suolo; esse rappresentano solo quelle in cui i progressi nella tecnologia agricola non sono bastati a superare gli effetti negativi di tale degrado o dell'aver messo a coltura anche terre marginali. In molti paesi il degrado dei terreni coltivati viene compensato da un intenso uso di fertilizzanti chimici, ma col tempo, e con l'aumentare dei costi dell'energia, sarà sempre più difficile rimpiazzare la fertilità naturale con quella artificiale.
Nello stesso modo in cui il degrado dei terreni coltivati riduce la disponibilità di prodotti alimentari nelle nazioni del Terzo Mondo, così il degrado delle foreste riduce la disponibilità di combustibili. Superato un certo punto, la riduzione della copertura arborea si traduce in scarsezza di legna da ardere e in aumento del suo costo, una tendenza che è ben esemplificata dal caso di Addis Abeba. Durante i 13 anni che vanno dal 1970 al 1983, i prezzi della legna da ardere sono più che triplicati, ma anche questo aumento può essere considerato modesto a paragone di ciò che è successo in altre zone dell'Africa e anche in altre zone dell'Etiopia stessa. In alcune province dell'Eritrea e del Tigrè, del tutto sconvolte dal punto di vista ecologico, il prezzo dei combustibili era, all'inizio degli anni ottanta, all'incirca doppio rispetto a quello di Addis Abeba.
Anche l'India si trova a dover affrontare una carenza di legna da ardere. Man mano che diminuisce la disponibilità di legna, i centri urbani dell'India sono costretti ad importarla da distanze sempre maggiori. A Delhi, per esempio, la legna da ardere viene importata dagli Stati di Orissa, Bihār, Maharashtra e Assam, da distanze che - come in quest'ultimo caso - arrivano a 1.000 km. Nonostante queste importazioni da Stati lontani, il numero di vagoni di legna da ardere che vengono scaricati a Delhi è calato da 12.424 negli anni 1981-1982 a 7.577 solo due anni dopo. Tale calo contribuisce a spiegare perché i prezzi della legna da ardere a Delhi sono stati 8 volte più alti nel 1983 che nel 1960 (v. tab. III). In questo stesso periodo gli aumenti registrati a Bombay e Bangalore sono stati ancora maggiori.
Secondo uno studio della fine degli anni settanta, 26 dei 45 distretti del Madhya Pradesh, uno Stato indiano con una popolazione di 52 milioni di abitanti situato nel centro geografico del subcontinente indiano, si trovavano a dover affrontare una carenza di legna da ardere. A seguito di questo studio, lo Stato - cioè il principale esportatore di legna da ardere - nell'agosto del 1981 vietò tali esportazioni. A differenza del caso dell'embargo sulle esportazioni dell'OPEC, tale divieto non mirava a ottenere un aumento del prezzo della legna da ardere in altre zone, ma una diminuzione del prezzo pagato dagli stessi abitanti di quello Stato.
In alcuni paesi del Terzo Mondo gli abitanti delle città spendono un quarto del proprio reddito in combustibili per cucinare. I funzionari di governo di Nuova Delhi già si chiedono dove la popolazione indiana, che nel 2000 si prevede ammonterà a un miliardo, riuscirà a trovare il combustibile per cucinare i propri cibi. Il passaggio dall'uso di legna da ardere a letame bovino e residui del raccolto, che è una conseguenza inevitabile della riduzione delle aree boschive, in India è già in una fase avanzata, come risulta dai dati relativi al Madhya Pradesh (v. tab. IV).
Nonostante che l'inquinamento atmosferico su larga scala e le piogge acide siano fenomeni recenti in confronto all'erosione del suolo, i costi che essi determinano stanno cominciando a divenire manifesti. Uno studio dell'Accademia delle Scienze cecoslovacca ha valutato il danno che deriva dalle piogge acide in almeno 1,5 miliardi di dollari l'anno, in gran parte dovuti alla perdita di foreste. La Cecoslovacchia, grazie a questo studio, è stata una delle prime nazioni a prendere atto dell'effetto dell'inquinamento atmosferico e delle piogge acide sulla produttività agricola, stabilendo in tal modo una connessione tra quest'ultima e il consumo di carburante fossile. Secondo l'Accademia, l'aumento dell'acidità del suolo e l'inquinamento atmosferico hanno un effetto negativo sui raccolti in quanto impediscono che si realizzino quegli incrementi di produttività che l'uso di fertilizzanti, triplicato dal 1960, poteva far prevedere. Circa l'avvelenamento del suolo dovuto alle piogge acide, lo studio rilevava che la crescente acidità stava modificando le caratteristiche del suolo, rendendo chimicamente non disponibili dei nutrienti che sono essenziali per le piante e liberando alluminio e altri metalli tossici. Secondo le stime dell'Accademia, per arrestare questo processo in aree boschive seriamente compromesse sarebbe necessario spargere una quantità di calce pari a 5-10 tonnellate per ettaro.
In Germania vi è profonda preoccupazione per i danni, sia estetici che economici, che l'inquinamento atmosferico e le piogge acide potrebbero arrecare alle foreste. Già nel 1983 il Ministero dell'Agricoltura bavarese valutava in 1,2 miliardi di dollari la perdita di alberi nella Germania meridionale. Paradossalmente si prevede che il danno alle foreste tedesche determinerà nel breve periodo un aumento del rendimento agricolo e una riduzione del prezzo del legname, anche se a lungo termine la diminuzione dell'area coperta da foreste e la scarsità degli alberi farà rialzare tale prezzo.
La perdita della copertura arborea e il degrado del suolo conseguenti all'inquinamento atmosferico (stress chimici) o all'eccessivo disboscamento per ricavare legna da ardere hanno effetti anche sul ciclo idrologico. Il degrado del suolo limita infatti la capacità di assorbire e trattenere l'acqua, e quindi aumenta la percentuale di acqua piovana che, scorrendo in superficie, si riversa direttamente nell'oceano; ciò determina una riduzione della ricostituzione dell'acquifero e un abbassamento del livello freatico.Un progetto intrapreso presso la Hatcliffe Research Station nello Zimbabwe mostra come modifiche di utilizzazione del suolo alterino il deflusso superficiale dell'acqua piovana, per esempio quando da un terreno si elimina il manto erboso naturale per prepararlo alla coltivazione. L'agronomo Henry Elwell ha misurato il deflusso in appezzamenti campione di tratti di savana in lieve pendenza e in condizioni diverse di copertura, varianti dalla vegetazione naturale inalterata al suolo nudo (v. tab. V). Egli ha trovato che via via che la savana non utilizzata come pascolo veniva sostituita da terreno nudo, il deflusso di acqua piovana aumentava dall'1 al 35%. Una pendenza del 4,5% come quella delle aree campione di Hatcliffe è modesta in confronto a quella di molti dei terreni coltivati nei paesi del Terzo Mondo.
Un'altra conseguenza del maggiore deflusso d'acqua è che le inondazioni sono più frequenti e più gravi. Uno studio effettuato dalla Croce Rossa svedese segnala che il numero di inondazioni considerate gravi verificatesi in tutto il mondo è salito da 15 negli anni sessanta a 22 negli anni settanta, registrando cioè un aumento del 50%, e secondo dati non ufficiali più recenti si è verificato un ulteriore incremento negli anni ottanta. La mortalità annuale dovuta a questi disastri è salita di sei volte, un dato che riflette la maggiore gravità delle inondazioni e l'aumento delle popolazioni esposte a questo rischio.
In Africa, dove l'11% della popolazione vive in paesi in cui la produttività del terreno è in calo, il deterioramento ecologico sta rallentando la crescita economica e in alcuni casi provoca un declino dell'economia. In un continente in cui l'agricoltura rappresenta la fonte di sostentamento primaria, questo declino ha contribuito a ridurre di circa un quinto il reddito pro capite dal 1975. Finché la popolazione dell'Africa continuerà a crescere rapidamente, è probabile che continui ad aumentare il livello di degrado ecologico, con conseguenze economiche ancora più gravi.
Tra tutte le conseguenze sociali del deterioramento ecologico, le più serie sono senza dubbio la riduzione della produzione alimentare pro capite e l'aumento della malnutrizione e della mortalità che tale riduzione spesso determina. Alcuni paesi hanno compensato il calo di produzione alimentare pro capite con le importazioni o i sussidi alimentari, ma in molti altri l'unica alternativa è quella di tirare la cinghia. Per chi vive, però, in paesi in cui il consumo medio è già vicino al livello di sussistenza, riduzioni ulteriori significano aumento della malnutrizione e della mortalità e, in casi estremi, carestie come quelle che si sono abbattute su molte nazioni africane negli anni ottanta.
Nonostante l'avanzamento tecnologico senza precedenti e la crescita economica della passata generazione, più di 30 nazioni hanno registrato una produzione di cereali pro capite, alla fine degli anni ottanta, minore che all'inizio degli anni cinquanta (v. tab. VI). L'entità di questo calo è stata molto diversa, variando dall'87% in Libano al 3% in Malaysia e Sierra Leone. Non è un caso che la maggior parte di questi paesi si trovino in Africa, Medio Oriente e America Centrale, cioè in quelle aree in cui il deterioramento ecologico sta verificandosi più rapidamente. Le popolazioni di queste nazioni ammontano, tutte insieme, a oltre 600 milioni, cioè al 9% della popolazione mondiale.
In alcune nazioni industrializzate, come il Giappone e Taiwan (che ovviamente non sono incluse nella tab. VI), il calo della produzione alimentare è la conseguenza di un programmato spostamento di forza lavoro nel settore non agricolo. La politica agricola giapponese ha come obiettivo quello di mantenere l'autosufficienza in alcuni prodotti essenziali come il riso - l'alimento principale della nazione - e di aumentare invece in maniera significativa l'importazione di prodotti alimentari per gli allevamenti industriali, in rapida espansione, di polli e bovini. Anche Taiwan segue politiche analoghe.
Il calo nella produzione cerealicola pro capite verificatosi in molti paesi non è dovuto esclusivamente al deterioramento ecologico, ma in parte è la conseguenza della mancanza di politiche demografiche e di una generale incuria nei confronti dell'agricoltura. Politiche demografiche inefficaci o inesistenti possono non solo determinare una maggiore domanda di prodotti alimentari, ma anche compromettere i sistemi che servono di sostegno all'agricoltura. In pratica, l'espansione demografica rende più rapido il declino ecologico.
Con un'unica eccezione, in tutte le nazioni in cui si registra un calo della produttività della terra (v. tab. II) si registra anche una diminuzione della produzione cerealicola pro capite. L'unica eccezione è quella del Sudan, in cui l'area coltivata è aumentata più rapidamente della popolazione, riuscendo così a controbilanciare ampiamente il calo della produttività.
Negli ultimi anni l'attenzione si è concentrata sul declino agricolo dell'Africa, ma in realtà in Medio Oriente si è registrata una riduzione ancora maggiore nella produzione di cereali pro capite. In Iraq, Giordania e Libano si sono verificati, dalla metà del secolo, cali varianti dal 55 all'87%, e in quasi tutti i paesi mediorientali ogni anno l'aumento della produzione agricola riesce sempre meno a compensare l'aumento della popolazione.
Questa situazione ha attirato meno l'attenzione rispetto a quella dell'Africa in quanto la riduzione della produzione cerealicola pro capite è stata compensata da un aumento delle importazioni coperto dalle entrate petrolifere. Fintantoché le esportazioni di petrolio renderanno possibile finanziare i crescenti deficit alimentari del Medio Oriente, il degrado dell'agricoltura potrà continuare a essere ignorato, ma un giorno o l'altro questi paesi si troveranno con popolazioni ben più consistenti delle attuali, con una quantità di petrolio ormai insufficiente a finanziare le importazioni alimentari e con la principale fonte di risorse - quella agricola - irrimediabilmente compromessa.
Le due principali eccezioni alla situazione di generale deterioramento agricolo del Medio Oriente sono costituite da Israele e dall'Arabia Saudita. Israele si è impegnato a fondo per ripristinare i livelli di produttività agricola che erano un tempo propri di questa regione, convertendo letteralmente il deserto in giardini. I risultati che ha raggiunto dimostrano come sia possibile rovesciare la situazione di deterioramento in cui si trovano molte aree, oltre al Medio Oriente, sempreché vi sia la volontà politica di affrontarla.
Il caso del Medio Oriente è unico in quanto non solo il degrado ecologico in atto è tra i più gravi, ma allo stesso tempo questa è una delle aree in cui si riscontrano le più gravi turbolenze politiche. Gli effetti devastanti del lungo conflitto tra Israele e i vicini Stati arabi, della disintegrazione del Libano e degli altri conflitti regionali avranno gravi ripercussioni di lungo periodo.
In tutte le nazioni dell'Africa settentrionale, a eccezione dell'Egitto, la produzione di cereali pro capite è in diminuzione. Eppure queste nazioni sono situate proprio su quelle stesse terre che erano un tempo il granaio dell'Impero romano. L'Algeria, la Libia e la Tunisia importano al giorno d'oggi ben più della metà dei cereali che consumano e nell'Africa subsahariana la grande maggioranza della popolazione vive in paesi con un tasso di produzione alimentare pro capite in diminuzione: in sei paesi, con una popolazione totale che è circa un terzo di quella del continente, la produzione pro capite è diminuita dalla metà del secolo in proporzioni variabili da un terzo alla metà.
Il confronto tra i rendimenti dei primi anni cinquanta e della fine degli anni ottanta riportati nella tab. VI non dà pienamente conto della gravità della situazione presente in Africa, dato che in molti paesi - e senz'altro nell'Africa nel suo insieme - la produzione di cereali pro capite in realtà è aumentata nel periodo compreso tra la metà del secolo e la fine degli anni sessanta. Ciò significa che il calo registrato dopo di allora è stato ancora più rapido di quanto non risulti considerando il più ampio periodo riportato nella tabella.
Anche nell'America Latina e nei Caraibi vi sono sei paesi la cui produzione cerealicola pro capite è in diminuzione. Per la maggior parte si tratta delle nazioni più piccole, situate nell'America Centrale. Nell'America Meridionale le nazioni andine più meridionali - Cile, Perù e Bolivia - hanno a stento mantenuto i livelli di produzione del 1950.
La situazione alimentare dell'Asia nel suo complesso è abbastanza buona, in gran parte grazie alla produzione di cereali di Cina e India. Delle cinque nazioni in cui si è verificato un calo nella produzione di cereali pro capite, la Cambogia e l'Afghanistan sono state dilaniate dalla guerra per molti anni; nelle altre tre - Nepal, Malaysia e Bangladesh - il degrado ecologico si trova in una fase molto avanzata. Il disboscamento del Nepal non solo fa aumentare il grado di erosione del suolo compromettendo così l'agricoltura, ma contribuisce a rendere più gravi le inondazioni che distruggono i raccolti e sono causa di carestie in Bangladesh, una delle nazioni più povere della terra insieme a Ciad, Etiopia e Mali. All'inizio del settembre del 1988 il Bangladesh era per due terzi coperto d'acqua, il che era una conseguenza diretta delle abbondanti piogge monsoniche, ma indirettamente dipendeva anche dallo sconvolgimento del ciclo idrologico del bacino idrografico dell'Himalaya. Questa inondazione, la peggiore a memoria d'uomo, ha lasciato senza tetto 25 dei 110 milioni di abitanti del paese, che sono andati ad aumentare il crescente numero di 'profughi ambientali'.
Stabilire quali effetti abbia sulla nutrizione il degrado del suolo e la diminuzione della produzione di cereali pro capite è reso difficile dalla scarsezza di ricerche sull'argomento. Uno dei pochi studi che cerca di stabilire una connessione tra pressione demografica, da un lato, ed erosione del suolo e nutrizione, dall'altro, è un rapporto elaborato da William Jones e Roberto Egli per conto della Banca Mondiale. Gli autori notano che negli altipiani dei grandi laghi di Ruanda, Burundi e Zaire "col crescere della densità di popolazione, specialmente dove maggiore è la carenza di terra, i coltivatori si sono risolti a cercare una fonte di amido nei tuberi. Le statistiche mostrano come i tuberi, che producono una maggiore quantità di amido per ettaro, stiano rimpiazzando i cereali e le leguminose in modo consistente e continuo" (v. Jones ed Egli, 1984). Man mano che la dimensione degli appezzamenti diminuisce e cala la produttività del terreno, i coltivatori piantano manioca, igname o patate al posto del mais, così da massimizzare il numero delle calorie anziché quello delle proteine prodotte dai loro campi. In realtà, in questo modo essi passano da un sistema agricolo basato su raccolti da vendere sul mercato a un sistema che mira a soddisfare esclusivamente i bisogni legati alla sussistenza.
Quasi tutte le forme di degrado ambientale globale hanno un effetto negativo sulla produzione alimentare: l'erosione del suolo sta lentamente compromettendo la produttività di circa un terzo delle terre coltivate del mondo; il disboscamento sta determinando un aumento del deflusso superficiale delle precipitazioni e del numero di inondazioni che devastano i raccolti; il danno provocato ai raccolti dall'inquinamento atmosferico e dalle piogge acide è evidente sia nei paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo; i dati ottenuti su appezzamenti campione indicano che le rese di alcuni raccolti, come la soia, diminuiscono a causa della maggiore quantità di raggi ultravioletti che passa attraverso la fascia di ozono della stratosfera che si è assottigliata; la saturazione e la salinizzazione delle terre irrigate abbassa la produttività di circa un quarto delle terre coltivate del mondo; infine i cambiamenti climatici a livello mondiale, con estati più calde, possono anch'essi avere effetti dannosi.
In questo capitolo cercheremo di valutare fino a che punto vi sia stata una riduzione della capacità produttiva a livello mondiale causata da tutte queste forme di degrado ambientale. Non possiamo presentare dati dettagliati e precisi sulla riduzione dei raccolti perché dati di questo tipo non esistono. Tuttavia speriamo che questo articolo possa contribuire ad attrarre l'attenzione sulla gravità delle conseguenze negative determinate da un ambiente inquinato e a spingere le principali istituzioni che si occupano dello sviluppo agricolo internazionale, come la Banca Mondiale e la FAO, a effettuare delle ricerche sugli effetti del degrado ambientale sulla produzione di cereali.
Rapporti sul degrado del suolo sono venuti da ogni angolo del pianeta. Nel luglio del 1989 il primo ministro australiano Robert Hawke asserì che "nessuno dei problemi ambientali dell'Australia è così grave quanto quello del degrado del suolo [...] che riguarda quasi due terzi della terra coltivabile del nostro continente". Secondo notizie pubblicate sulla "Pravda", in Unione Sovietica la fertilità del suolo stava diminuendo in maniera catastrofica. Quanto all'India, in un discorso pronunciato alla radio nel 1985, l'allora primo ministro Rajiv Gandhi asserì: "La continua opera di disboscamento ci ha posto di fronte a una gravissima crisi ecologica. Questa tendenza deve essere fermata". Egli istituì pertanto un Comitato nazionale per lo sviluppo delle terre degradate che doveva trasformare ogni anno 5 milioni di ettari di queste terre in piantagioni per la produzione di legna da ardere e foraggio.
È stato valutato che ogni anno, in tutto il mondo, i coltivatori perdono dalle loro terre una quantità di suolo superficiale superiore di 24 miliardi di tonnellate a quella del suolo di nuova formazione. Ciò vuol dire che nel corso degli anni ottanta c'è stata una perdita di 240 miliardi di tonnellate, una quantità pari a più della metà del terreno agricolo degli Stati Uniti.
L'agronomo Harold Dregne ha classificato i terreni agricoli delle principali regioni geografiche in tre categorie a seconda del livello di degrado: 1) degrado lieve, che comprende tutti i terreni la cui resa potenziale è stata ridotta di meno del 10%; 2) erosione moderata, per riduzioni comprese tra il 10 e il 50%; 3) erosione grave, per potenzialità ridotte di oltre il 50%. Ovunque vi sono zone con erosione grave, ma l'Africa, l'Asia e il Sudamerica ne hanno molte di più dell'Europa o del Nordamerica (v. tab. VII).
Secondo la FAO, l'erosione del suolo potrebbe ridurre la produzione agricola in Africa di un quarto nel periodo compreso tra il 1975 e il 2000, se non vengono adottate delle misure per preservarlo. La coltivazione itinerante praticata tradizionalmente in Africa per mantenere la fertilità del suolo ha cominciato a dare risultati peggiori, in quanto, a causa delle alte densità di popolazione, i coltivatori devono tornare agli stessi appezzamenti ogni 5-10 anni invece che ogni 20-25, come erano soliti fare. L'abbreviarsi del ciclo di riposo e la diminuzione della copertura vegetale accelerano il processo di erosione del suolo e il degrado del terreno. Gbdebo Jonathan Osemeobo, del Dipartimento forestale federale della Nigeria, ha rilevato come l'agricoltura itinerante abbia un effetto 'catalitico' sull'avanzamento del deserto nelle parti settentrionali della Nigeria, cioè negli Stati di Sokoto, Kano, Kaduna, Bauchi e Borno. Egli ritiene che queste terre abbiano ormai un ruolo marginale sia per la silvicoltura che per l'agricoltura.
L'effetto della riduzione dello strato superficiale del suolo sulla produttività della terra negli Stati Uniti è stato stabilito con chiarezza grazie a 14 studi effettuati sul mais e 12 sul grano. I primi, condotti principalmente in quegli Stati che formano la cosiddetta Corn belt, hanno mostrato come la riduzione di un pollice (2,5 cm) dello strato superficiale determini una riduzione nel rendimento del mais di circa il 6%. I risultati ottenuti per il grano, facendo una media dei 12 studi, danno esiti analoghi. Se utilizziamo questi dati per fare un calcolo considerando il mondo nel suo insieme, ne risulta che la perdita di 24 miliardi di tonnellate l'anno di strato superficiale del suolo (che corrisponde a 1 pollice su 61 milioni di ettari) determinerebbe una riduzione del 6%, cioè 9 milioni di tonnellate l'anno, nel raccolto di cereali, che dovrebbe ammontare a 146 milioni di tonnellate (assumendo che la resa media mondiale sia di 2,4 tonnellate per ettaro). Oppure, a puri fini di calcolo, si potrebbe immaginare che tutto lo strato superficiale del suolo (generalmente profondo 7 pollici) andasse perduto da una zona di 9 milioni di ettari, il che comporterebbe l'abbandono di quei terreni e la perdita di oltre 21 milioni di tonnellate di cereali l'anno. La valutazione più bassa è quella che compare nella tab. IX, relativa al calo di produttività dovuto a cause ambientali.
Il degrado del suolo è provocato anche dalla sua alterazione chimica; infatti le crescenti concentrazioni di sale che si riscontrano nei suoli irrigati riducono i raccolti di alcune delle zone più intensamente coltivate del mondo. Nella fretta di portare a termine i progetti di irrigazione elaborati dal 1950 al 1980, è stato spesso trascurato il sistema di drenaggio che è essenziale per garantire il successo a lungo termine di questi progetti. Quando l'acqua di un fiume viene deviata verso le terre coltivate e viene distribuita a valle, se non c'è un buon drenaggio determina un innalzamento della falda freatica sotterranea. Se questa arriva in superficie, l'acqua evapora nell'atmosfera concentrando i sali negli strati superficiali del suolo.
La saturazione e la salinizzazione abbassano il rendimento di circa il 24% delle terre coltivate irrigate del mondo, sia nei paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo. Questi processi, come abbiamo visto anche nel caso dell'erosione del suolo, abbassano gradualmente il livello di produttività della terra fino al punto che la sua coltivazione non conviene più e viene pertanto abbandonata. Presumendo che vi sia una diminuzione di rendimento dell'1% all'anno nel 24% dei 180 milioni di ettari di terre irrigate coltivate a cereali, in prevalenza riso e grano, con una resa media di 2,5 tonnellate per ettaro, vengono persi ogni anno per queste cause altri 1,1 milioni di tonnellate di cereali. Oppure, se si utilizza la valutazione dell'agronomo sovietico Victor Kovda, secondo il quale vengono ogni anno abbandonati 1-1,5 milioni di ettari di terre irrigate, la perdita annua relativa al raccolto di cereali ammonterebbe a 2,4-3,6 milioni di tonnellate. Nella tab. IX è riportata la cifra più bassa.
La deforestazione influisce sulla produzione alimentare in molti modi. Essa ha un effetto diretto, in quanto altera il ciclo idrologico locale facendo aumentare il deflusso superficiale, e un effetto meno evidente, influenzando il ciclo idrologico naturale e la quantità di acqua piovana sulla terraferma. Il primo di questi due effetti è oggi evidente in tutta la sua gravità nel subcontinente indiano, dove la deforestazione del bacino idrografico dell'Himalaya ha fatto aumentare il deflusso superficiale determinando inondazioni sempre più serie. In India l'area soggetta a inondazioni annuali è più che triplicata dal 1960 (v. tab. VIII). Questo processo ha avuto una sua dimostrazione tragica nel settembre del 1988, allorché due terzi del Bangladesh vennero invasi dall'acqua per molti giorni. Questa inondazione - la più grave che si sia mai registrata - compromise il raccolto autunnale di riso e rese necessario un ulteriore aumento delle importazioni di cereali.
Se non verrà posta fine alla deforestazione, la legna da ardere diverrà ancora più scarsa e ciò costringerà a un uso sempre maggiore di letame e di residui del raccolto come combustibili. Questo impoverisce il suolo non solo di nutrienti, ma anche di quei materiali organici che aiutano a mantenere integra la sua struttura. I dati disponibili riguardanti lo Stato del Madhya Pradesh nell'India centrale indicano che questa regione si trova già in uno stadio avanzato di questo processo: i tre principali combustibili usati per cucinare dai suoi 62 milioni di abitanti sono letame bovino (9,6 milioni di tonnellate), legna (9,5 milioni) e residui del raccolto (6,9 milioni). Situazioni analoghe fanno diminuire la produttività della terra anche in altri Stati dell'India, nel Bangladesh, in Pakistan, in dozzine di paesi africani e in Cina.
Solo recentemente i ricercatori hanno individuato altre due minacce per la sicurezza da un punto di vista alimentare: le automobili e gli impianti energetici a carbone. I danni ai raccolti prodotti dall'inquinamento dell'aria possono adesso essere misurati nelle società dell'Europa occidentale e degli Stati Uniti in cui l'automobile ha un ruolo preponderante, e nelle economie dell'Europa orientale e della Cina che usano il carbone come principale risorsa energetica. La maggior parte delle nostre conoscenze sull'argomento deriva da uno studio, durato sette anni, patrocinato da due enti americani, l'Environmental Protection Agency e il Department of Agriculture. Il risultato di questo studio è che gli inquinanti più dannosi, negli Stati Uniti, sono l'ozono, l'anidride solforosa e gli ossidi di azoto. Tra questi, l'inquinante che provoca i danni più gravi è senz'altro l'ozono. I raccolti sono estremamente sensibili all'azione esercitata da quantità piccolissime, misurabili in parti per milione (ppm), di ozono a livello della superficie terrestre. Se viene superata la concentrazione naturale di 0,025 ppm, l'ozono superficiale produce un danno alle colture in crescita già in quantità valutate in 0,05 ppm se l'esposizione si prolunga per più di 16 giorni; se la quantità arriva a 0,10 ppm bastano 10 giorni di esposizione, e a 0,30 ppm occorrono solo 6 giorni. La nocività dell'ozono risulta evidente dalle misurazioni effettuate in 70 diverse località degli Stati Uniti, dove la concentrazione media di ozono è variata durante una stagione da 0,038 a 0,065 ppm. Stranamente l'ozono ha provocato danni sia in zone di campagna scarsamente popolate che in aree urbane ad alta densità.
Se a scopo sperimentale vengono aumentate le concentrazioni medie stagionali di ozono da 0,04 a 0,09 ppm, la resa del raccolto si riduce drasticamente: dall'1 al 13% nel caso del mais, dal 7 al 31% per la soia, e dal 4 al 27% per il grano invernale. I livelli prevalenti di ozono superficiale registrati durante gli anni ottanta hanno determinato una riduzione di raccolto che per gli Stati Uniti è stata stimata pari al 5% e forse addirittura al 10%.
Se utilizziamo la cifra più bassa, il 5%, per valutare il danno prodotto dall'ozono, senza prendere in considerazione gli effetti negativi di altri inquinanti atmosferici, nelle regioni più colpite - Nordamerica, Europa (esclusa l'Unione Sovietica) e Cina - il raccolto di cereali del 1987, di 913 milioni di tonnellate, avrebbe dovuto essere superiore di 48 milioni di tonnellate. Poiché il maggior aumento nel consumo di combustibili fossili, che rappresenta la principale fonte di inquinamento, si è verificato negli ultimi 40 anni, si presume che il calo di rendimento del raccolto aumenti di circa 1 milione di tonnellate l'anno.
Abbiamo visto che la concentrazione di ozono superficiale fa diminuire i raccolti; ma anche l'assottigliamento dello strato di ozono nell'atmosfera superiore, che fa sì che una maggiore quantità di raggi ultravioletti raggiunga la superficie terrestre, può avere degli effetti negativi, specialmente sulle specie più sensibili, come la soia. Secondo le misurazioni effettuate da un gruppo di esperti per il governo degli Stati Uniti, l'ozono stratosferico ha subito una riduzione di circa il 2% dal 1969 al 1986. I dati ottenuti su coltivazioni sperimentali indicano che ogni aumento percentuale di radiazione ultravioletta determina una riduzione dell'1% nel rendimento della soia. Ciò vuol dire che l'assottigliamento dello strato di ozono stratosferico potrebbe causare significative riduzioni anche nella resa dei principali raccolti ad alto contenuto proteico, ma purtroppo nessuno sta effettuando delle rilevazioni per stabilire l'entità di tale riduzione.
Di tutti i cambiamenti globali che sono stati messi in moto dall'uomo, il cambiamento del clima è quello che può avere effetti più sconvolgenti. Il nostro mondo, già messo a dura prova dal rallentamento della produzione alimentare, deve adesso affrontare anche il problema di estati più calde. Nel 1988 la siccità - e il caldo - ha danneggiato il raccolto di cereali negli Stati Uniti al punto che per la prima volta è stato inferiore al consumo, il che fornisce un drammatico esempio di come estati più calde possano influenzare l'agricoltura, specie nel lungo periodo.
I cambiamenti climatici non avranno gli stessi effetti in tutti i paesi. L'aumento di 2,5-5,5 gradi centigradi (4,5-9,9 gradi Fahrenheit) previsto per la fine del prossimo secolo rappresenta una media globale, ma le temperature dovrebbero aumentare molto di più alle medie e alte latitudini e sulla terra piuttosto che sugli oceani. Si prevede che i cambiamenti saranno minimi in prossimità dell'equatore, mentre a latitudini più alte si potrebbero verificare aumenti doppi rispetto a quelli previsti per la Terra nel suo insieme. Questa distribuzione non omogenea avrà effetti tragici sull'agricoltura mondiale, dato che la maggior parte delle derrate alimentari viene prodotta proprio su quelle masse continentali che si trovano alle medie e alte latitudini dell'emisfero settentrionale.
I mutamenti climatici influenzano l'agricoltura in moltissimi modi. Estati più calde determinano una maggiore evaporazione durante il periodo della crescita, e pertanto fanno aumentare i rischi di siccità. Finora sono stati presi in considerazione principalmente gli effetti causati da temperature più alte sull'umidità del suolo o comunque relativi a situazioni di siccità, ma in condizioni di grande caldo potrebbe esser compromesso il processo di impollinazione di coltivazioni di primaria importanza. Ad esempio, l'impollinazione del mais può esser facilmente danneggiata da alte temperature durante i 10 giorni durante i quali essa ha luogo. Alan Teramura, dell'Università del Maryland, riferisce che un aumento di due soli gradi centigradi nella temperatura estiva di alcune regioni chiave dell'Asia in cui si coltiva riso può ridurre drasticamente il raccolto.
Durante il 1988, che è stato l'anno più caldo del secolo, tutti e tre i principali paesi produttori nel settore agricolo hanno avuto raccolti più limitati in conseguenza del caldo e della siccità: rispetto al 1987 il raccolto di cereali ha subito una diminuzione del 27% (74 milioni di tonnellate) negli Stati Uniti, dell'8% (16 milioni di tonnellate) in Unione Sovietica e del 2% (7 milioni di tonnellate) in Cina. Nessuno è in grado di stabilire con sicurezza se almeno una parte di questo calo di 97 milioni di tonnellate sia stata causata dall'accumulo di gas responsabile dell'effetto serra, ma certo l'estate del 1988 è stata il tipo di stagione che i modelli meteorologici globali prevedono che capiterà sempre più spesso via via che quei gas che trattengono il calore continueranno ad accumularsi nell'atmosfera. Sembra molto probabile che il decremento nella resa dei raccolti causato dalle estati più calde sarà di gran lunga superiore a qualsiasi possibile incremento.
L'unica conclusione che possiamo trarre è che dovremmo avere una conoscenza molto più approfondita degli effetti prodotti sull'agricoltura da queste forme di degrado ambientale - erosione del suolo, saturazione e salinizzazione delle terre irrigate, inondazioni, inquinamento atmosferico, piogge acide, assottigliamento dello strato di ozono stratosferico, estati più calde - ognuna delle quali potrebbe determinare un prezzo da pagare in termini di produzione alimentare; il mondo potrebbe così perdere una quantità annua di cereali valutata in 14 milioni di tonnellate, quasi l'1% all'anno (v. tab. IX), e questa cifra non prende in considerazione gli effetti delle estati più calde, come quelle verificatesi negli anni ottanta e previste per gli anni novanta.
La domanda cruciale a cui dobbiamo rispondere è allora: in che rapporto sta questa perdita con gli incrementi dovuti a maggiori investimenti per irrigazione, fertilizzanti e altro? Presumendo che l'irrigazione di nuove terre (2,3 milioni di ettari l'anno) durante gli anni ottanta abbia determinato una resa media superiore di circa 1,5 tonnellate per ettaro rispetto alla resa precedente di quelle stesse terre, allora la produzione mondiale di cereali è aumentata di più di 3 milioni di tonnellate l'anno. L'aumento nell'uso di fertilizzanti, valutabile in 3 milioni di tonnellate l'anno, presumendo che ogni tonnellata di fertilizzanti determini un incremento di resa di 7 tonnellate, avrebbe fatto crescere la produzione di altri 21 milioni di tonnellate. Se aggiungiamo altri 5 milioni di tonnellate, valutando così con larghezza gli incrementi dovuti ad altre cause, l'aumento totale raggiunge i 29 milioni di tonnellate. Sottraendo da questa cifra i 14 milioni di tonnellate persi annualmente per il degrado ambientale, il guadagno netto nel rendimento cerealicolo ammonta a 15 milioni, una quantità ben inferiore ai 28 milioni di tonnellate necessari semplicemente a controbilanciare l'aumento della popolazione. In realtà, queste cifre mostrano come vi sia stato un aumento netto nella produzione di cereali di poco inferiore all'1% annuo, mentre la popolazione cresce a un ritmo vicino al 2%. Non è pertanto possibile che tale aumento riesca a soddisfare la crescita della domanda. L'effetto di bilanciamento esercitato dalle pressioni sull'ambiente può in parte spiegare il drammatico rallentamento nella crescita della produzione mondiale di cereali e leguminose verificatosi negli ultimi anni.
Dall'inizio dell'agricoltura fino alla metà del nostro secolo l'aumento delle terre coltivate e la crescita demografica hanno proceduto più o meno di pari passo, ma in seguito si è verificato un sensibile rallentamento. Dopo la brusca caduta verso la metà degli anni ottanta, c'è stato un nuovo ampliamento delle terre coltivate, anche perché gli Stati Uniti hanno riportato a una buona produttività alcune aree che, con i programmi di gestione delle risorse agricole, erano state trascurate.
Ogni anno si perdono milioni di ettari di terra coltivata o perché l'erosione del suolo è arrivata a un punto tale che non conviene più metterlo a coltura, o perché esso viene utilizzato per costruirvi nuove case, o industrie, o strade. Perdite di questo genere sono più rilevanti nei paesi industriali o in via di industrializzazione e densamente popolati dell'Asia orientale, come Cina, Giappone, Corea del Sud e Taiwan, in cui circa mezzo milione di ettari ogni anno viene adibito a scopi non agricoli. Ma anche altri paesi ad alta densità di popolazione, come l'India e il Messico, si trovano in situazioni analoghe. Sia l'ex Unione Sovietica che gli Stati Uniti stanno abbandonando i terreni sottoposti a rapida erosione, il che, se si considera anche la crescente necessità di mettere i campi a riposo in anni alterni per mantenerne la produttività, ha ridotto di circa il 13% le aree cerealicole sovietiche dal 1977. Per timore di riduzioni analoghe, gli Stati Uniti nel 1986 hanno adottato un piano quinquennale consistente nel piantare erba o alberi su 40 milioni di acri (16 milioni di ettari) di suolo sottoposto a rapida erosione prima che andasse definitivamente perduto. Nel 1990 già 34 milioni di acri erano stati destinati a questo programma di recupero del suolo.
A livello mondiale la possibilità di aumentare le aree coltivate traendone un profitto è limitata - solo poche nazioni, come il Brasile, potranno farlo - ma in media, durante gli anni novanta, guadagni e perdite dovrebbero controbilanciarsi, come è successo durante gli anni ottanta. Pertanto dovrebbe proseguire la tendenza a una diminuzione dell'area cerealicola globale pro capite, passata da 0,16 ettari nel 1980 a un valore previsto per il 1990 di 0,14 ettari (v. tab. X).
Le previsioni relative all'espansione dei terreni irrigati in tutto il mondo sono solo di poco più ottimistiche. Dopo una lenta espansione durante la prima metà di questo secolo, vi è stato un aumento da 94 milioni di ettari nel 1950 a 236 milioni nel 1980, reso possibile dagli altissimi investimenti per l'irrigazione destinati sia a progetti su larga scala che prevedevano la diversione di fiumi, sia a impianti di estrazione di acque sotterranee, di proprietà degli agricoltori stessi. Si è così avuta un'espansione dell'area irrigata pro capite del 43% (v. tab. XI).
Già nel 1980, tuttavia, erano state sfruttate tutte le zone adatte, anche da un punto di vista economico, ad accogliere grandi serbatoi idrici a scopi irrigui, e il numero di nuovi progetti che venivano portati a termine diminuiva. L'espansione delle zone irrigue ha subito pertanto una brusca frenata, divenendo inferiore alla crescita della popolazione, e poiché continua a rallentare è molto probabile che gli incrementi che essa rende possibili saranno del tutto annullati dalla saturazione e dalla salinizzazione, dall'abbassamento delle falde freatiche e dall'interramento dei bacini esistenti.
Durante gli anni ottanta l'aumento netto di terreni irrigati nel mondo è stato valutato in soli 23 milioni di ettari: ciò vuol dire che nell'ultimo decennio vi è stata una riduzione dell'area irrigata pro capite di quasi l'8%. Mentre l'area di terreno coltivato pro capite è diminuita costantemente dalla metà del secolo in poi, questa tendenza verso una riduzione dell'area irrigata pro capite rappresenta una novità, e fa di questo decennio il primo in cui si sia riscontrata una diminuzione di ambedue i valori; questo dato può in parte spiegare il deciso rallentamento nella crescita della produzione alimentare avvenuto alla fine degli anni ottanta.
L'andamento della crescita dell'area irrigua totale corrisponde a una curva nota col nome di curva a S, che descrive efficacemente qualunque processo di crescita in un ambiente fisico finito. È un andamento che dà anche una descrizione dell'espansione delle aree coltivate nel tempo, il cui punto di flessione corrisponde agli anni ottanta. Questo andamento a S della curva è ben noto ai biologi, in quanto corrisponde ai diagrammi di crescita di vari organismi in ambienti finiti. Gli studenti di biologia imparano questo concetto nelle esercitazioni di laboratorio, osservando la crescita di una popolazione di moscerini della frutta in un vaso di vetro, o di alghe in una capsula di Petri quando viene loro fornito tutto il nutrimento necessario. Dapprima la crescita è lenta, e gli organismi che si riproducono sono pochi; poi accelera finché qualche tipo di impedimento, quali gli stress fisiologici dovuti all'alta densità, oppure l'accumularsi dei residui determina il suo rallentamento fino a bloccarla completamente.
Noi sappiamo che la resa di cereali per ettaro, come qualunque processo biologico di crescita in un ambiente finito, finirà col corrispondere alla curva a S della crescita. Ciò che non sappiamo è quanto la resa di cereali nei paesi ad agricoltura avanzata sia al presente vicina alla curva finale della S. È tuttavia interessante notare che anche l'adozione di mezzi atti ad aumentare i rendimenti - come fertilizzanti, o varietà ad alto rendimento, o irrigazione - è cresciuta a livello mondiale seguendo una linea che oggi, all'inizio degli anni novanta, corrisponde alla curva a S della crescita.
Dalla metà del secolo in poi la crescita nella produzione mondiale di prodotti alimentari è stata indotta dal sempre maggiore uso di fertilizzanti chimici, che è passato dagli appena 14 milioni di tonnellate del 1950 ai circa 145 milioni di tonnellate del 1990. Se per qualche ragione improvvisamente si smettesse di utilizzarli, la produzione mondiale di generi alimentari probabilmente verrebbe decurtata del 40% o più.
Il contributo apportato all'incremento della produzione alimentare dall'irrigazione e dalle varietà ad alto rendimento è dovuto in larga misura alla loro capacità di massimizzare l'efficacia dei fertilizzanti. Gli ibridi di mais, che sono stati inizialmente realizzati negli Stati Uniti e da allora si sono diffusi in tutto il mondo, sono stati largamente adottati perché hanno dimostrato di rispondere efficacemente ad abbondanti applicazioni di fertilizzanti azotati. I coltivatori del Terzo Mondo sono passati dalle varietà tradizionali a quelle varietà nane di grano e di riso, ad alto rendimento, che hanno determinato la cosiddetta rivoluzione verde proprio perché erano così sensibili ai fertilizzanti. Il rapido aumento nell'uso dei fertilizzanti dipende pertanto dalla sempre più ampia diffusione delle sementi ad alto rendimento. Ma anche l'adozione di queste nuove varietà segue un andamento a S; essa è dapprima lenta, perché sono pochi i coltivatori che si sentono di sperimentare la novità, poi diviene più rapida via via che i vantaggi che offre divengono evidenti. Alla fine anche tale adozione rallenta, e si ferma quando le nuove varietà sono state piantate su tutti i terreni che risultavano adatti.
La curva relativa all'adozione in India di grano ad alto rendimento, che ha contribuito a raddoppiare il raccolto tra il 1965 e il 1972, illustra bene quanto abbiamo detto. È improbabile che queste nuove varietà si diffondano su tutte le aree coltivate a grano perché molte delle aree che restano sono terreni semiaridi sui quali non danno buoni risultati. I grafici relativi all'uso di varietà ad alto rendimento - mais negli Stati Uniti, riso in Indonesia e grano in Messico - hanno tutti la stessa forma a S.
Quando le varietà ad alto rendimento sono state piantate su tutti i terreni adatti, anche l'aumento nell'uso dei fertilizzanti rallenta. Questa tendenza risulta adesso evidente in molti dei principali paesi produttori di alimenti. Negli Stati Uniti l'uso di fertilizzanti, che si era quintuplicato nel periodo compreso tra il 1950 e il 1981, ha subito una brusca flessione negli anni ottanta, contribuendo all'abbassamento verificatosi nella produzione di cereali. Un'analoga tendenza si sta registrando nell'Europa occidentale. In Unione Sovietica, dove le forti sovvenzioni concesse per i fertilizzanti avevano fatto sì che se ne facesse un uso eccessivo, il progressivo avvicinamento ai prezzi del mercato mondiale in conseguenza delle successive riforme economiche ha determinato una riduzione nell'uso di fertilizzanti valutata in circa il 10% nel periodo compreso tra il 1987 e il 1990. Anche in Cina l'uso dei fertilizzanti, che aveva subito un'impennata ancora più rilevante di quella registrata negli Stati Uniti, è adesso in diminuzione.
Vi sono poi alcuni paesi, come l'India, nei quali l'uso dei fertilizzanti potrebbe ancora aumentare con buoni risultati, ma opportunità del genere, a livello mondiale, sono ormai scarse. Poiché l'uso dei fertilizzanti dipende dalla disponibilità di acqua e poiché, come abbiamo visto, si è ridotta la possibilità di espandere le aree irrigate, è molto probabile che anche l'uso dei fertilizzanti subirà un calo. Esso continuerà ad aumentare via via che verranno sviluppate nuove varietà con rendimenti sempre maggiori, ma quando le rese sono già notevoli secondo gli standard internazionali gli ulteriori aumenti non possono che essere modesti in confronto all'imponente balzo determinato dall'adozione delle prime varietà ad alto rendimento.
Proprio come lo straordinario incremento nell'uso dei fertilizzanti spiega, almeno in gran parte, la crescita senza precedenti della produzione di cereali verificatasi nel periodo 1950-1984, così il loro uso più limitato può fornire una parziale spiegazione della ridotta produzione cerealicola che ha avuto inizio verso la metà degli anni ottanta. La International Fertilizer Industry Association, che ha sede a Parigi, prevede che l'aumento annuo nell'uso di fertilizzanti, calato da quasi il 6% negli anni settanta al 2,6% nel decennio successivo, arriverà all'1,5% durante gli anni novanta.
L'ultima e fondamentale limitazione naturale all'incremento della resa dei raccolti è quella che si porrà quando verrà raggiunto il limite superiore dell'efficienza della fotosintesi, un limite stabilito dalle leggi fondamentali della fisica e della chimica. Via via che le potenzialità genetiche delle specie ad alto rendimento si avvicinano a questo limite, diminuisce l'effetto dei fertilizzanti sui raccolti. I progressi ottenuti in relazione alla coltivazione delle piante, grazie anche all'uso di biotecnologie, possono far aumentare i rendimenti fino ad avvicinarli al limite stabilito dalla fotosintesi, ma ci sono ben poche speranze di riuscire ad alterare i meccanismi di base di tale processo.
Sappiamo di non poter continuare a danneggiare i sistemi da cui dipende la nostra vita senza pagarne alla fine le conseguenze; ma quali saranno gli effetti sull'uomo, quale sarà il prezzo da pagare? È possibile che l'accumulo di carcinogeni nell'ambiente raggiunga livelli tali da far aumentare l'incidenza dei tumori e quindi il tasso di mortalità? O che le crescenti concentrazioni di gas che causano l'effetto serra rendano alcune regioni del pianeta così calde da essere inabitabili, costringendo a migrazioni umane di massa? O si tratterà di qualcosa che al momento non riusciamo nemmeno a immaginare?
Sappiamo anche che non possiamo continuare a far aumentare la popolazione mondiale. L'aggiunta di 93 milioni di persone l'anno - l'equivalente della popolazione attuale della Gran Bretagna, più quelle di Belgio, Danimarca, Irlanda, Norvegia e Svezia - determinerà a un certo momento problemi gravissimi. Ma di che problemi si tratterà? E si tratta di problemi imminenti o di qualcosa che riguarda un futuro lontano?
Tra tante incertezze, sembra ormai fuor di dubbio che la scarsezza di cibo nei paesi in via di sviluppo sia la conseguenza più grave e immediata del degrado ambientale a livello mondiale, una conseguenza che sta già compromettendo il benessere di centinaia di milioni di persone. Tutti i principali mutamenti riguardanti la situazione fisica della Terra - l'erosione del suolo, la decimazione delle foreste, il deterioramento dei pascoli, l'espansione del deserto, le piogge acide, l'assottigliamento dell'ozono stratosferico, l'accumulo di gas che causa l'effetto serra, l'inquinamento atmosferico, la perdita di alcune varietà biologiche - stanno avendo un effetto negativo sulla produzione alimentare. Il deterioramento della dieta che si è verificato in Africa e in America Latina durante gli anni ottanta, la diminuzione della produzione cerealicola mondiale pro capite successivamente al 1984 e l'aumento dei prezzi di riso e grano registrato negli ultimi due anni possono essere i primi segni dei problemi che dovremo affrontare.
In passato fare delle previsioni sulla produzione alimentare significava solo fare delle estrapolazioni sulla base delle tendenze registrate nel tempo. Ma ora che in molti paesi i rendimenti si stanno avvicinando alla parte superiore della curva a S della crescita, questo metodo diviene inadeguato. La produzione cerealicola di molti paesi, come Cina, Indonesia, Messico e Unione Sovietica, è cresciuta poco o niente dal 1984. Inoltre il degrado del suolo e le estati più calde - il primo difficile da misurare e le seconde impossibili da prevedere con precisione - influenzeranno l'andamento della produzione.
Per un verso le previsioni sono più facili ora che in passato. Poiché è improbabile che durante gli anni novanta si possano verificare dei cambiamenti significativi in relazione all'estensione delle aree coltivate, fare delle previsioni sulla produzione significa solo valutare quanto velocemente potrà aumentare la produttività dei terreni. L'incremento maggiore nella produttività dei terreni agricoli, misurato come resa cerealicola per ettaro, si è verificato durante gli anni sessanta, raggiungendo in quel decennio il 26%; ma la resa è salita solo del 21% durante gli anni settanta e del 19% nel decennio successivo.
In considerazione degli effetti negativi del degrado ambientale di cui abbiamo parlato, è probabile che la crescita della produttività dei terreni agricoli a livello mondiale subirà un ulteriore rallentamento durante gli anni novanta, e forse l'incremento estremamente limitato registrato tra il 1984 e il 1990 deve essere considerato come un segno premonitore. Al momento è difficile stabilire se questo andamento corrisponda solo a un'interruzione momentanea in una tendenza di lungo periodo che entro poco riprenderà a risalire in modo deciso, o se invece sia indicativo della difficoltà di continuare a far aumentare rapidamente la produttività dei terreni in paesi dove le rese sono già alte e in un mondo in cui il degrado ambientale sta riducendo le potenzialità produttive. Ad esempio, dal 1950 i rendimenti di mais negli Stati Uniti e di grano nell'Europa occidentale sono quasi triplicati. Nell'ambito del Terzo Mondo, le rese di grano in India sono più che raddoppiate dal 1965, e analoghi risultati sono stati ottenuti per il riso in Cina dal 1960. È chiaro che questi paesi non possono continuare a raddoppiare o triplicare le rese cerealicole per ettaro ogni pochi decenni. Ma quali aumenti ulteriori ci possiamo ragionevolmente aspettare? E quanto rapidamente?
Gli andamenti relativi alla produttività del terreno in Giappone possono aiutare a rispondere a tali domande. In questo paese i rendimenti cerealicoli hanno cominciato a salire verso il 1880, molti decenni prima di quanto sia avvenuto in altre nazioni. Al presente i rendimenti a livello mondiale, considerando la grande diversità delle condizioni di coltura, sembra che si trovino più o meno in una situazione analoga a quella del Giappone nel 1970. Per esempio, nel 1989 il rendimento del riso in Cina - il maggior produttore di riso a livello mondiale - è stato valutato in 3,8 tonnellate di riso raffinato per ettaro, esattamente lo stesso rendimento del Giappone nel 1970. Attualmente la resa di mais per ettaro negli Stati Uniti è quasi doppia rispetto a quella ottenuta nel 1970 in Giappone per il riso, mentre in Europa occidentale quella del grano è superiore del 25%. All'altro estremo, nel 1989 il rendimento di riso in India è stato meno della metà di quello ottenuto nel 1970 in Giappone. Dal 1970 il rendimento di riso per acro è cresciuto in Giappone in media dello 0,9% l'anno, meno della metà della crescita della popolazione mondiale prevista per gli anni novanta, valutata pari all'1,8% l'anno. Se in questo decennio si riuscirà a ottenere lo stesso tasso di incremento delle rese mondiali, la produzione di cereali aumenterà di 158 milioni di tonnellate, cioè di circa il 9%. Ma poiché si prevede che la popolazione mondiale aumenterà in questo decennio di più di 960 milioni (18%), la produzione cerealicola pro capite registrerà un decremento dell'8% (v. tab. XII). Se pertanto nel prossimo decennio il mondo non riuscirà a ottenere risultati migliori di quelli ottenuti dal Giappone negli ultimi vent'anni, non potremo evitare un deterioramento nella dieta di gran parte dell'umanità e la fame per molti.
Ma il problema cruciale degli anni novanta è che non sappiamo neppure se il mondo sarà in grado di eguagliare i risultati del Giappone. Nonostante il vigoroso incentivo rappresentato dal sostegno del prezzo interno del riso, che è stato fissato a un valore quadruplo rispetto al prezzo di mercato mondiale, i coltivatori giapponesi non dispongono di nuove scoperte in campo agronomico che permettano di ottenere ulteriori incrementi nella produttività. E sarà molto difficile per gli agricoltori nel resto del mondo - che non sono altrettanto preparati o ben disposti nei confronti delle innovazioni scientifiche - riuscire a ottenere risultati migliori.
Il deterioramento della dieta e l'aumento della fame nel mondo non sono più soltanto un'ipotesi. In Africa la quantità di persone che soffre la fame è aumentata sia come numero assoluto che come percentuale della popolazione. In America Latina la crescente povertà, la diminuzione della produzione alimentare pro capite e l'aumento dei prezzi degli alimenti stanno a indicare una analoga tendenza. Il progresso nella riduzione della mortalità infantile, che rappresenta l'indice più sensibile dello stato nutrizionale di una società, è prima divenuto più lento, poi si è fermato o si è addirittura assistito a un'inversione di tendenza in molti paesi.
Se nel mondo si continueranno a impiegare le consuete politiche per l'agricoltura e la pianificazione familiare, entro pochi anni potrebbe divenire inevitabile un'emergenza alimentare di proporzioni tali da coinvolgere non solo le popolazioni a basso reddito del Terzo Mondo ma un numero ben più alto di persone, e i suoi effetti si ripercuoterebbero sul mondo intero. Il vertiginoso aumento dei prezzi cerealicoli e le conseguenti sommosse a causa del cibo potrebbero destabilizzare i governi e minacciare l'integrità del sistema monetario internazionale.
A meno di rivoluzionari avanzamenti tecnologici, continuerà ad aumentare il divario registrato negli ultimi anni tra crescita demografica e produzione alimentare. Purtroppo in molte nazioni è stata sprecata l'opportunità di rallentare la crescita della popolazione nel periodo di tempo guadagnato, per quello che riguarda la disponibilità di cibo, grazie alla rivoluzione verde. Ci sarà senz'altro qualche crescita nella produzione dovuta alle varietà ad alto rendimento, ma è improbabile che essa riesca a eguagliare quella registrata tra il 1965 e il 1985.
È necessario continuare a sostenere l'agricoltura in tutti i modi possibili. Bisogna che sia fatto un massiccio sforzo internazionale per proteggere il suolo, conservare l'acqua e ripristinare la produttività dei terreni degradati. Ma l'esperienza giapponese insegna che anche fare tutto quello che è possibile agendo su un solo membro dell'equazione cibo/popolazione non è sufficiente.
Negli anni novanta la possibilità di nutrire il mondo in modo adeguato dipenderà dalla velocità con la quale riusciremo a rallentare l'espansione demografica, così da adeguarla alla prevista crescita della produzione alimentare. L'unico obiettivo ragionevole è quello di cercare di dimezzare il tasso di crescita demografica, così come è stato fatto in Giappone negli anni cinquanta e in Cina negli anni settanta. Per raggiungere questo scopo bisognerà rendere le persone consapevoli del rapporto che esiste tra le dimensioni della famiglia oggi e la qualità della vita domani. Se i governi non riusciranno a dare precedenza assoluta a questi obiettivi, qualunque sforzo sarà vano. Né uno sforzo di pianificazione familiare delle dimensioni che sono necessarie ha alcuna possibilità di successo se la comunità internazionale non affronta in maniera efficace il problema dell'indebitamento del Terzo Mondo. In molte nazioni oberate dai debiti manca quel progresso economico e sociale che in genere porta ad avere famiglie più piccole, e se non riusciremo a ridurre questi debiti al punto in cui ricomincia a esservi un progresso economico è probabile che la necessaria riduzione della natalità non si verifichi.
Le tendenze registrate recentemente a proposito della popolazione sono molto preoccupanti. Il tasso annuale di crescita della popolazione mondiale, che ha subito una brusca accelerazione durante il periodo di ripresa seguito alla seconda guerra mondiale, ha raggiunto il vertice di circa l'1,9% nel 1970; quindi si è gradualmente abbassato fino ad arrivare all'1,7% all'inizio degli anni ottanta. Tuttavia verso la fine del decennio ha ripreso a crescere, raggiungendo l'1,8%, in gran parte a causa di un modesto aumento del tasso di natalità in Cina e della diminuzione del tasso di mortalità in India. Dato che alla fine degli anni ottanta la fertilità è aumentata, invece di diminuire come alcuni avevano previsto e molti sperato, si pensa che durante il decennio in corso si registrerà un aumento di almeno 960 milioni di persone, contro gli 840 milioni degli anni ottanta e i 750 milioni del decennio precedente.
Il timore per gli effetti della crescita demografica non è nuovo; sono ormai passati due secoli da quando Malthus pubblicò il famoso trattato nel quale sosteneva che le popolazioni tendono a crescere in modo esponenziale mentre la produzione alimentare cresce linearmente. A suo parere se non si poneva un freno alle eccessive nascite, preferibilmente attraverso l'astinenza, carestia e fame sarebbero divenute inevitabili. Malthus aveva torto nel senso che non aveva previsto le enormi potenzialità del progresso tecnologico in relazione all'incremento della produttività del terreno. Egli scriveva in un'epoca precedente alla formulazione dei fondamentali principî della genetica a opera di Mendel e alla dimostrazione di Liebig che tutti gli elementi nutritivi che le piante assumono dal suolo possono essere reintegrati in forma minerale. Malthus aveva però ragione nel prevedere che sarebbe stato difficile incrementare la produzione alimentare con la rapidità della crescita della popolazione. Oggi sulla Terra vi sono centinaia di milioni di persone che soffrono la fame, in parte a causa di una ineguale distribuzione, ma in misura crescente a causa della diminuzione della produzione alimentare pro capite. E questo numero è in continuo aumento.
Malthus si preoccupava del rapporto tra crescita della popolazione e capacità produttiva della Terra. Sappiamo adesso che l'aumento della popolazione e l'attività economica hanno effetti su molte altre capacità della natura, quale l'assorbimento dei prodotti di rifiuto. Qualunque sia il livello di inquinamento, alto o basso, più persone vogliono dire più inquinamento. Se i rifiuti industriali e agricoli di vario tipo superano la capacità di assorbimento dei sistemi naturali, gli effetti cumulativi dei materiali tossici presenti nell'ambiente cominciano a interferire con la salute dell'uomo.
Un'altra conseguenza della continua crescita della popolazione in gran parte del Terzo Mondo è la mancanza di legna da ardere, che rappresenta il combustibile primario. Se la maggiore domanda di legna da ardere per cucinare supera la rigenerazione produttiva delle zone boschive locali, le foreste si allontanano dai villaggi. Le donne, alle quali spetta principalmente il compito di raccogliere la legna, devono spesso percorrere grandi distanze per trovarne a sufficienza, e in alcuni casi le famiglie sono ridotte ad avere un solo pasto caldo al giorno. Malthus si chiedeva se vi sarebbe stato cibo a sufficienza, ma non avrebbe mai immaginato che la ricerca di un combustibile per prepararlo sarebbe entrata a far parte della quotidiana lotta per la sopravvivenza.
L'eccezionale aumento di popolazione previsto per gli anni novanta significa che anche la disponibilità pro capite di alcune risorse fondamentali, quali terra, acqua e legna, scenderà a una velocità senza precedenti (v. tab. XIII). Come abbiamo già detto, non si prevede che possa essere ampliata l'area totale di terreni coltivati, e la disponibilità di terreno pro capite per la produzione degli alimenti basilari scenderà dell'1,7% l'anno. Ciò significa che il terreno cerealicolo pro capite, che nel 1990 era in media di 0,13 ettari, si ridurrà di un sesto negli anni novanta. E con un previsto incremento di terreni irrigati inferiore all'1% l'anno, anche l'area irrigata pro capite subirà un calo di quasi un decimo.
L'area di foreste pro capite, diminuita a causa sia della generale perdita di foreste sia della crescita della popolazione, subirà un probabile calo di un quinto o più in questo decennio. Anche gli 0,61 ettari pro capite di pascoli, che permettono di produrre gran parte del latte, del formaggio e della carne di cui disponiamo, diminuiranno di un quinto entro il 2000 per la crescita demografica e l'avanzamento dei deserti. Continuare a migliorare le condizioni di vita con queste decurtazioni delle risorse naturali pro capite non sarà facile.
Una delle ragioni per le quali il mondo si trova di fronte a queste drammatiche riduzioni delle risorse pro capite è l'atteggiamento di condiscendenza e fondamentale disinteresse col quale sono stati considerati i programmi di pianificazione familiare sia a livello nazionale che nell'ambito degli organismi internazionali per lo sviluppo. Dopo due decenni durante i quali gli Stati Uniti si sono posti alla guida degli sforzi internazionali a favore della pianificazione, l'amministrazione Reagan ha ritirato tutti i finanziamenti americani all'United Nations Population Fund e all'International Planned Parenthood Federation, che sono i due principali enti internazionali di assistenza per la pianificazione familiare. Cedendo alle pressioni politiche dell'estrema destra, che si è servita dell'opposizione all'aborto per tagliare questi finanziamenti, l'amministrazione ha così rinunciato al suo ruolo di guida in questo settore. Il paradossale risultato è stato che, essendo stata eliminata la possibilità di consultare i servizi di pianificazione familiare, a un numero sempre maggiore di donne nel Terzo Mondo non è rimasta altra alternativa che abortire.
All'interno degli organismi internazionali per lo sviluppo, le politiche demografiche continuano a mancare di efficacia. La Banca Mondiale ufficialmente riconosce la necessità di porre un freno alla crescita della popolazione, ma in realtà fa poco in questo senso. Il Segretario generale delle Nazioni Unite raramente fa menzione di questo problema e tanto meno fornisce quella guida che sarebbe necessaria. La Chiesa cattolica e molte società musulmane, con le loro radicate resistenze di natura religiosa, hanno determinato questo clima di disattenzione verso il problema.
Nel complesso, gli anni ottanta non hanno rappresentato un decennio efficace in relazione agli sforzi per raggiungere un buon equilibrio tra la popolazione e i sistemi naturali dai quali essa trae il suo sostentamento. La persistente crescita della popolazione e l'estendersi del degrado ambientale hanno spinto centinaia di milioni di persone in una spirale drammatica di redditi in diminuzione e di fame crescente. Dato che ogni anno cresce il numero di coloro che vengono immessi in questo ciclo che minaccia la vita stessa, è molto probabile che il mondo debba presto fare i conti con le conseguenze determinate da lunghi anni di disinteresse per le politiche demografiche.
(V. anche Ambiente, tutela dell'; Ecologia).
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