Deh ragioniamo insieme un poco, Amore
Il sonetto (in Rime LX) figura nella Raccolta Bartoliniana, oggi dell'Accademia della Crusca, nel codice 1289 dell'Universitaria di Bologna, nel Vaticano 3214 e nell'Ital. IX 529 della Marciana.
D., durante un viaggio, esorta Amore a fargli compagnia e a ragionare della sua donna: potrà così liberarsi dalla pena che l'angoscia e abbreviare il viaggio stesso, anticipando quasi il ritorno. Forse si tratta del viaggio giovanile di D. a Bologna, ma la questione, per la quale rimandiamo a ciò che hanno detto in proposito il Witte, il Lamma, il Barbi e il Contini, ha un'importanza relativa se si considera che il viaggio è l'unico riferimento concreto della rima ed è, pertanto, subito catturato nella dimensione interiore, soggettiva, che è la sola che interessi il poeta. Per ora a D. non si pone il problema della rappresentazione del reale, ma piuttosto quello della realizzazione o visualizzazione del mondo interiore, secondo la consueta tendenza stilnovistica. Più interessante è, se mai, rilevare che qui Amore è consolatore e portatore di gioia, diversamente da quanto accade in Cavalcando l'altr'ier (in Rime VIII) dove appare in atteggiamento doloroso. E evidente l'insistenza di D. su questo punto: il ritmo gioioso è scandito dall'accento che cade sugl'infiniti (pensare-dilettare-tranquillare-ritornare), i quali generano, con la loro lunghezza sillabica, un andamento ampio e disteso, quasi una sosta, come se la prospettiva del colloquio, che è gioia anticipata, sospenda, nella fronte, l'ansia che incalza il poeta e che si fa sentire nella sirima, dove diventa quasi impazienza. " Un ottimismo di base ", nota il Contini (Rime 46), " si oppone, in Dante giovanissimo, al pessimismo pressoché obbligatorio del Cavalcanti, che lo guadagnerà più tardi ". A quest'epoca, anteriore all'influenza drammatica del Cavalcanti, e sotto la lezione del Fiore, il De Robertis riporta i sonetti Cavalcando l'altr' ier e Guido, i' vorrei, che giudica non lontani da questa lirica. In entrambi i casi la si attribuisce a un D. molto giovane, senza per questo non riconoscere alla composizione una certa maturità (non diversamente il Sapegno), tanto che il Contini non sa staccarlo per ragioni linguistiche e tonali dal sonetto LXXII. Il fatto è che, in questa rima, si realizza quel tono di scongiuro che, per l'Auerbach, caratterizza la poesia giovanile di D.: il poeta evoca con desiderio l'immagine di una circostanza che tarda a verificarsi (Deh ragioniamo), e l'evocazione c'introduce immediatamente in quell'atmosfera interiore che D. approfondisce senza distrazioni nei versi successivi, scandendo e variando un solo tema e conferendogli così una particolare unità. Nella tensione, nell'eccezionale durata del momento che precede l'evento, sta una delle ragioni dell'interesse di questo sonetto.
Bibl. - Barbi - Maggini, Rime 217 ss.; D. De Robertis, Il libro della Vita Nuova, Firenze, 1961; Contini, Rime 46; E. Auerbach, La poesia giovanile di D., in Studi su D., Milano 1963, 35 ss.; N. Sapegno, in Il Trecento, ibid. 1965.