Dei magni, dei minuti e nuovi dei
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il pantheon romano è un sistema flessibile e coerente, capace di rappresentare i bisogni della comunità tutta. Un mondo divino plasmato su quello umano dove l’interscambio è costante e in continuo aggiornamento.
A partire dal periodo repubblicano, lo abbiamo sopra sottolineato, assistiamo ad una rielaborazione del materiale religioso in chiave teologica, un’esplicita riflessione sui fenomeni religiosi e sugli dèi che si avvale e utilizza anche categorie filosofiche di matrice greca, per esempio l’allegoria, l’interpretazione naturalistica, l’indagine etimologica. Il fine è quello di organizzare, classificare, ordinare. Ciò non significa che l’immaginario religioso non abbia avuto una sua forma anche prima dell’età repubblicana. Il pantheon romano ha come principale caratteristica la flessibilità, che gli permette, nel suo progressivo stratificarsi, di mantenere una sua coerenza. Una categoria usata a lungo dagli storici moderni per parlare della religione romana è stata quella del “fare”, contrapposta a quella dell’“essere”, categorie che furono, secondo la letteratura scientifica ottocentesca, fattori distintivi l’una del popolo romano, l’altra di quello greco. Sono coppie di opposti solo limitatamente utili, ma possono avere indubbiamente un valore di spiegazione se pensiamo ai racconti sulle divinità dove è l’intervento degli dèi nella storia, il loro “fare”, a essere in primo piano, non le loro genealogie o il loro “essere” (Jörg Rüpke, La religione dei Romani, 2004, pp. 83-4).
L’agire del dio è per i Romani un tratto identificativo importante e si rivela un valido strumento d’indagine nel momento in cui la riflessione sugli dèi è anche una riflessione sul potere, sulla società. Ogni immaginario è plasmato su un modello reale e nella religione romana questo è quanto più evidente visto il forte legame con la realtà politica e sociale. Carl Koch, in un importante libro del 1937, Der römische Juppiter, seguì questa linea interpretativa mostrando che è sul modello dell’aristocrazia romana che si fonda la costruzione della divinità: come la superiorità del magistrato non dipende dalla sua appartenenza familiare, così è per gli dèi, ciò che conta è il loro agire nella società. Proviamo a vedere più da vicino questo fenomeno. Ovidio nelle Metamorphoses, nel descrivere uno spaccato di vita quotidiana degli dèi, racconta che Giove, per prendere un’importante decisione sul genere umano, ha invitato a casa sua tutte le divinità per un concilium, cioè una riunione. Dèi e dee subito si incamminano lungo la via Lattea, verso la regale dimora detta il Palatino del cielo. Che cosa incontrano lungo il cammino? A destra e a sinistra della strada, che possiamo immaginarci come la via principale, ci sono i palazzi degli dèi nobili; più lontano i quartieri umili dove si trovano le case degli dèi plebei, quasi a rappresentare un doppio celeste della più importante città del tempo, Roma (Ovidio, Metamorphoses, 1, 168-176).
La scena è proiettata nei cieli con maestria poetica ma conserva una sorprendente vivacità e verosimiglianza: il lettore riconosce in questo mondo lontano nello spazio e nel tempo, una imagery molto romana, una realtà a lui nota e vicina. Giove è la controfigura divina dell’imperatore Augusto ed ha la sua dimora sul Palatino, mentre la via lactea altro non è che il Sacer Clivus, l’angusta via che partendo dalla via Sacra risale fino alla residenza imperiale. Il concilio divino sembra convocato sul modello di un’assemblea del senato romano e la struttura stessa della società divina riproduce quella umana: gli dèi si dividono in nobiles e plebei. Non sono definizioni prodotte dalla fantasia di un poeta, ma appartengono alla tradizione romana. Agostino, nel De civitate Dei, per la quale consultò l’opera di Varrone, descrive i molti dèi posti a presiedere a ogni singola funzione della vita dell’uomo come una turba plebeorum deorum: Libero che presiede al seme degli uomini, Libera a quello delle donne, Diespiter quando porta il nascituro alla luce, Lucina, preposta ai flussi mestruali delle donne, Opi che aiuta i neonati accogliendoli nel grembo della terra; Vaticano apre la bocca al vagito, Levana posta a proteggere il sollevamento del bambino, Cunina le culle (4, 11). Il Padre della Chiesa spiega questo funzionamento dicendo che in queste specifiche incombenze, assegnate con minuzia a molti dèi, c’è una vera e propria collaborazione: gli eletti con i plebei lavorano come il senato con la plebe (7, 3). L’opposizione qui è tra selecti e plebei. Esistono diverse formule per descrivere l’organizzazione divina, ben radicate e certamente antiche, plasmate su diversi generi di opposizione: sociale – nobili o scelti e plebei; spaziale – superiori e inferiori; quantitativa – magni e minuti. Anche in questo caso il mondo degli dèi è immaginato e descritto a partire da quello umano, secondo l’organizzazione della società o altrimenti della città, come racconta Ovidio: qua le case dei nobili, più in là i quartieri dei plebei.
L’idea che gli dèi si distinguano in magni e minuti, appartiene già all’età arcaica. L’informazione proviene da un testo comico, ma questa non è una ragione per non prenderla sul serio. Al contrario, si tratta di un passo molto interessante della Cistellaria di Plauto in cui uno dei personaggi, invocando gli dèi, prima si rivolge a Giove, Giunone e Giano e poi, incalzando, non lascia fuori nessuno chiamando anche tutti gli dèi magni, quelli minuti e anche i patellari (Plauto, Cistellaria, 522). Troviamo qui dunque tre nuove categorie rispetto a quelle viste finora: gli dèi grandi e più importanti, gli dèi piccoli e più semplici e infine degli dèi più modesti ancora, gli dèi del piattino, dal momento che la patella è una stoviglia dove si servono le vivande per i membri della famiglia e per gli dèi domestici, a tutti gli effetti considerati gente di casa.
Quando si parla degli dèi magni si è nel contesto della religione ufficiale della città. Lucio Apuleio ne riporta un elenco attribuendolo al poeta Ennio: Giunone, Vesta, Minerva, Cerere, Diana, Venere, Marte, Mercurio, Giove, Nettuno, Vulcano, Apollo (De deo Socratis, 2) e lo stesso elenco lo ritroviamo in Livio quando trascrive il testo di una pubblica preghiera (Livio, Ab Urbe condita, 22, 10). Sono gli dèi più importanti e noti, a cui spettano templi maestosi e onori pubblici. Varrone li chiama Dèi Consenti e spiega che sono quelli che si onorano in città, i cui simulacri dorati sorgono presso il Foro, nel numero di 12, sei maschi e sei femmine (Varrone, De re rustica, 1, 1, 4). Ogni divinità ha una sfera di competenza, un’area di intervento specifica nella vita dei cittadini: Giove è signore e padre degli dèi, un dio fortemente caratterizzato politicamente, che rappresenta lo stato nei diversi aspetti del potere. Epiteti come Stator, Victor, Rector indicano la sua funzione sovrana. La sorella e sposa Giunone ha anch’essa un ruolo politico: ha una funzione regale (Giunone Regina) e una funzione difensiva (Giunone Sospita e Giunone Moneta); come patrona dei matrimoni è Iterduca, Domiduca, Unxia, Cinxia e delle nascite è Fluvonia e Lucina. Minerva è dea delle tecniche e delle arti. Le tre divinità sopra citate compongono la triade capitolina, terno divino e politico per eccellenza. Marte è protettore della guerra; Venere della sfera sessuale e incarna il piacere e la generazione, non solo quella umana, ma anche quella della natura nel suo insieme; Diana è identificata con la Luna e invocata dalle partorienti; Cerere è legata alla crescita del grano; Vesta è la dea del focolare pubblico; Mercurio è il dio che presiede al parlare efficace, utile nelle attività di relazione e scambio, legato al commercio e ai guadagni è divinità onorata dai mercanti; Nettuno deve il suo ruolo di divinità legata alle acque del mare e ai cavalli all’assimilazione, molto antica, con il dio greco Poseidone; Vulcano è la divinità del fuoco e della lavorazione del metallo; Apollo è legato alla sfera della salute, della purificazione, della profezia. Tra i Dodici Dèi più importanti compare anche Apollo, unica divinità greca. Ogni divinità ha, secondo un meccanismo intrinseco alla religione romana, un’area d’intervento, una funzione, tanto specifica quanto estensibile.
La presenza di una divinità greca come Apollo ci permette di sottolineare un aspetto caratteristico di questo sistema religioso, la sua duttilità: il pantheon è un sistema coerente e flessibile, dove ogni divinità può entrare a condizione di rispettarne le regole. Arnobio, nell’Adversus nationes a riguardo dice: “Non è forse detto negli scritti dei dotti che gli indigitamenta di Numa Pompilio non conoscevano il nome di Apollo? Questo dio era a voi sconosciuto e solo più tardi cominciò ad esservi noto” (2, 73). Gli indigitamenta sono elenchi ufficiali di divinità riconosciute dal sistema. Non si tratta di un unico elenco, ma di elenchi costruiti nel tempo, sotto autorità religiose come quella che la tradizione attribuisce al mitico Numa Pompilio, o di elenchi compilati per particolari occasioni rituali, che raccolgono divinità appartenenti ad una medesima area di intervento. In questi elenchi si trovano anche divinità provenienti da altre culture e divinità che entrano nel pantheon in seguito alla decisione di autorità religiose, come Libitina, Fede e Terminus, la cui assunzione si deve allo stesso Numa, fondatore di molti culti, come abbiamo già detto. Possiamo osservare che anche tra gli dèi magni, un dio non è sempre stato, ma “ha cominciato ad essere” per volere e intermediazione di un’autorità deputata a farlo. D’altronde anche le numerose astrazioni divine come Libertà, Pace, Pietà e Concordia, caratteristiche della religione romana, mostrano molto bene il funzionamento di questo meccanismo: si può eleggere una “qualità” a “divinità” quando si vuole dare rilevanza a un valore socialmente e politicamente importante: messaggio chiaro di uno specifico programma culturale.
Un altro aspetto che risponde al funzionamento di questo sistema, capace di mostrare molto bene come la cultura romana pensa e foggia le proprie divinità sono gli dèi minuti. Sono così chiamati gli dèi presenti in ogni momento importante nella vita dell’uomo. Agostino, Tertulliano, Arnobio ne sono i testimoni più generosi: le loro informazioni derivano in gran parte dalle Antiquitates rerum divinarum di Varrone, in particolare dal libro dedicato agli dèi certi. Dèi certi, dèi minuti o plebei: definizioni che descrivono la natura di queste divinità da punti di vista diversi e complementari. Ma quali sono questi dèi e queste dee poste a presiedere minuziosamente ad ogni aspetto della vita umana? Fare anche solo qualche nome aiuterà a cogliere immediatamente il fascino e la particolarità di questo gruppo affollato: durante la gestazione e il parto si invocano Fluvonia (da fluo “scorro”) o Mena (da mensis “mese”), per la regolarità del flusso mestruale; Consevio (da sero “semino”) per il concepimento; Alemona (da alo “nutro”) perchè il feto nel ventre materno sia nutrito; Ossipagina (da ossa e pango “conficco le ossa”) perché in esso sia posto lo scheletro osseo; le Parche Nona, Decima (da nonus e decimus) preposte agli ultimi delicati mesi di gravidanza e Parca (da pario “partorisco”); Lucina (da lux “luce”) affinché il bambino venga alla luce felicemente; Intercidona (da intercido “separo”), Pilumno (da pilum “pestello”) e Deverra, nome con il quale era chiamata la scopa, proteggono la puerpera la notte dopo il parto; Cunina (da cuna “culla”) protegge i giacigli degli infanti, Rumina e Rumino (da ruma “mammella”) garantiscono l’allattamento di femmine e maschi; durante la crescita ci si rivolge a Fabulino (da fabulor “parlo”) o a Numeria, l’uno insegna a parlare, l’altra a contare; durante i riti di passaggio vissuti collettivamente come il matrimonio ecco Afferenda (da affero “reco”) che garantisce la dote o Domiduca (da domi duco “conduco a casa”) che assiste la processione che porta la donna a casa dello sposo; nei momenti privati come la sessualità ecco Prema (da premo “spingo”), Pertunda (da pertundo “foro”), Perfica (da perficio “conduco a termine”), Mutuno (da muto “membro virile”), dèi che accompagnano gli sposi sotto le coperte nei singoli atti d’amore. Insomma dèi per ogni cosa fino ad arrivare alla morte con Nenia (da nenia “canto funebre”) e Libitina per il corteo funebre.
A lungo gli studiosi di religione antica hanno considerato tali divinità, per questa loro costante presenza, frutto di quel sentimento religioso secondo il quale l’uomo antico avrebbe pensato ogni azione, ogni cosa, ogni evento, come animati da una potenza divina (animismo). In realtà essi rappresentano un meccanismo evoluto, capace di eleggere a divinità tutto ciò che è reputato significativo, importante: una tassonomia della realtà eletta a sistema divino, capace di rivelare con trasparenza i codici culturali dominanti, le conoscenze sulla realtà, i valori sociali. Il loro essere dèi certi è legato al loro essere minuti, che non significa essere poco importanti, ma piuttosto depositari di incarichi minuziosamente identificabili. Spiega Agostino che a questi dèi, secondo i modelli dell’immaginazione umana, sono assegnati scompartimenti di lavoro, come gli esattori al minuto e come gli artigiani nel quartiere degli argentieri, in cui un vasetto per riuscire perfetto passa per le mani di molti artigiani (De civitate Dei, 7, 4). In gioco per i Romani non c’è la produzione di un oggetto, ma la vita biologica, la salute fisica e psicologica, il buon funzionamento sociale e politico, le diverse attività su cui la comunità fonda il proprio benessere. Il mondo divino è immaginato come un doppio di quello umano: ad ogni fenomeno corrisponde un equivalente divinizzato posto a presiederlo. Se gli dèi magni assumono su di sé la responsabilità di ampie aree di intervento, gli dèi minuti sono incaricati di mansioni maggiormente dettagliate. Questi sono dunque gli dèi plebei. Il numero di queste divinità è molto ampio. Esse presiedono a situazioni anche molto diverse tra loro: dallo stress psicologico, alla costruzione di una casa, dalla consacrazione di un bosco, ai lavori dei campi. Le liste di queste divinità sono in costante aggiornamento, al fine di rendere più ampie le possibilità di intervento divino e di diminuire il margine di errore nell’invocazione: ogni richiesta può trovare una risposta quanto più è precisa.
Nell’ambito di un sistema politeista come quello romano, dove al centro c’è la funzionalità divina, è necessario un pantheon duttile e flessibile; anche grazie a questa caratteristica i nuovi culti che arrivano in città trovano uno spazio, un pubblico, una ratio. Non è per fragilità culturale che si assiste a una adozione di culti esteri o di divinità straniere; piuttosto è il funzionamento stesso della religione romana a permetterlo. L’interazione fra la città e i suoi territori che si estendono progressivamente è molto forte: spesso i funzionari amministrativi e militari non sono romani, ma scelti tra l’élite locale; di contro a Roma, che tende ad assumere i tratti della metropoli, giungono mercanti e intellettuali da ogni parte del Mediterraneo. Questi due movimenti complementari contribuiscono fortemente alla conoscenza e all’assorbimento di culture straniere e di nuove divinità. Non si tratta di un appiattimento, piuttosto di un assorbimento attivo, capace di adattare elementi nuovi a nuove esigenze. Non solo Apollo emigra dalla Grecia.
Asclepio è venerato a Roma come Esculapio, dio il cui tempio è edificato nel 293 a.C. sull’isola Tiberina: dopo una terribile peste, in seguito alla consultazione dei Libri Sibillini, il senato invia una delegazione ad Epidauro per ottenerne la statua. Il mito del dio che lo vuole figlio di Apollo e le numerose iscrizioni in lingua greca trovate nei pressi del santuario romano mostrano che il dio mantiene la specifica area di competenza che aveva in Grecia: come il padre, Esculapio è dio della medicina. Proserpina è la versione romana della dea Persefone, dea degli inferi. In realtà i Romani adottano questa divinità dagli Etruschi: la greca Persephone in etrusco diviene Persipnai e infine in latino Proserpina. La dimensione sotterranea presente nella religione greca e in quella etrusca è reinterpretata a Roma: Varrone spiega che il suo nome deriva dal verbo proserpere, cioè “avanzare serpeggiando” e a lei è attribuito un ruolo tra gli dèi preposti all’agricoltura. Nella speculazione stoica è interpretata come il seme dei cereali (Cicerone, De natura deorum, 2, 66). Lo sposo Plutone, diviene Dis pater o Dite e rimane una divinità ctonia. Macrobio racconta che il primo tempio al dio fu eretto nel Lazio insieme a quello di Saturno. L’oracolo che ne aveva consigliato la costruzione indicava di sacrificare teste umane, pratica che poi fu conservata attraverso il dono di statuette riproducenti fattezze umane, affinché gli uomini facessero simbolicamente espiazione di sé (Saturnali, 1, 7, 30-31). Un altro rituale dedicato al dio e alla sua sposa lo racconta Censorino, attingendolo da Varrone: nel 249 a.C., in un momento particolarmente critico della prima guerra punica, i quindecimviri, consultati i libri Sibillini, ne traggono l’indicazione di celebrare in onore del dio i ludi Tarentini o Terentini nel Campo Marzio (Censorino, De die natali, 17), luogo dove era stato edificato un altare sotterraneo, che aveva l’aspetto di una cavità infernale, accessibile solo in specifici giorni.
Un altro esempio di divinità reinterpretate sono Castore e Polluce. In Grecia sono chiamati Dioscuri, “i figli di Zeus”. Ai Romani invece non interessa sottolineare la genealogia di questi dèi. Essi li chiamano Castori, generalizzando il nome di uno dei due, e sottolineando così la loro identità di “gemelli”. Per i Romani l’aspetto fondamentale di questi dèi è il loro ruolo di soccorritori: dopo l’aiuto divino ricevuto dalla cavalleria romana durante la battaglia del 499 a.C. il dittatore Aulo Postumio erige il tempio al gemello esperto di giochi ippici, Castore appunto (Livio, Ab Urbe condita, 2, 20), facendolo entrare nel pantheon come patrono dei cavalieri.
Anche Ercole gode di grande popolarità a Roma. La sua figura gioca un ruolo importante in un fenomeno piuttosto interessante, la “deificazione privata”. A Roma non solo mercanti e artigiani, ma anche alcuni liberti che partecipano attivamente alla vita economica e ne traggono grandi benefici, alla loro morte, si rappresentano sulla tomba come divinità: tra le preferite ci sono Mercurio ed Ercole. Ercole porta su di sé la tradizione mitologica dell’Eracle greco e arrivato a Roma acquista fama e un posto stabile nell’immaginario religioso: i suoi santuari hanno sede nel Foro Boario, centro commerciale della città. Il suo culto appartiene originariamente ai sacra privata della gens dei Potitii e dei Pinari e solo in seguito diviene culto pubblico: Livio racconta che questa transazione non piacque al dio che punì il censore che lo privatizzò, Appio Claudio, facendolo diventare cieco e uccidendo tutti i membri delle due gentes (Livio, Ab Urbe condita, 9, 29). Per riparare alla colpa commessa, da allora, sull’Ara Maxima si sacrifica un bue in onore di Ercole. Sempre presso l’Ara Maxima si svolge anche il servizio della “decima” e i racconti che circolano su questa procedura religiosa mostrano molto bene la romanizzazione della divinità. Racconta Macrobio che il suonatore di flauto Ottavio Erreno, abbandonata l’arte, fece fortuna con il commercio e per questo dedicò la “decima” parte dei suoi guadagni al dio (Saturnali, 3, 6, 11). Gli aspetti caratteristici di Ercole, intrepido, astuto, legato ai piaceri materiali, rappresentano da vicino la vita e la figura del mercante che in lui si riconosce: in vita gli offre sacrifici e nella morte cerca di assomigliargli facendosi ritrarre con i suoi attributi sulla tomba. Osserviamo che culti d’importazione straniera si naturalizzano a Roma attraverso una ricezione attiva, una capacità di adattamento e rifunzionalizzazione così forte che la linea di demarcazione tra “straniero” e “indigeno” tende a sfumare. L’incontro con le divinità greche è importante e significativo e si estende per un lungo arco di tempo, ma non è il solo a caratterizzare e a influenzare la vita religiosa della città.
A Roma si diffondono anche culti provenienti da altre regioni del mondo antico, chiamati “culti orientali”, con una terminologia ormai datata. Si tratta di riti in onore di diverse divinità che s’installano nella religione pubblica e in quella privata a partire dal III secolo a.C. fino ai primi secoli dell’impero.