DEL CARRETTO, Francesco Saverio
Poche ed incerte sono le notizie sulla sua nascita e la sua famiglia. Secondo il Serra di Gerace - che è l'unico a riportare dati precisi - sarebbe nato a Barletta il 10 nov. 1778 da Giacomo e Maria de Tavares y Ulloa. Alcuni dei cenni biografici esistenti confermano tale luogo di nascita, mentre altri - benché compilati dai suoi contemporanei - lo danno nato in Sicilia; tutti indicano la generica data del 1777. Apparteneva ad un ceppo di un'antica famiglia di origine feudale genovese e piemontese, trapiantato in Spagna e venuto nel Regno di Napoli ai tempi di Carlo di Borbone.
Avviato alla carriera militare, come da tradizione familiare, frequentò a Napoli il collegio della Nunziatella, da cui uscì ufficiale nel 1796. Negli anni successivi è probabile che abbia partecipato alle guerre contro i Francesi, mentre nessuna ipotesi è possibile formulare sulla sua posizione nei confronti della Rivoluzione del 1799. Nel decennio francese fu in Sicilia con i Borboni e nelle milizie dell'isola combatté col grado di capitano contro le truppe di Giuseppe Bonaparte in Spagna.
Dopo la Restaurazione fu col grado di colonnello al comando delle milizie provinciali in Basilicata, dove si oppose con successo al brigantaggio. In Basilicata, secondo il Castille, sotto l'influenza della carboneria calabrese, avrebbe aderito alla setta prima del 1820.
Tale notizia, però, non trova riscontro in altre fonti e presenta notevoli incongruenze con le successive posizioni del D. e pertanto potrebbe non corrispondere al vero: la sua adesione alla setta sarebbe avvenuta - come per tanti altri - solo dopo il successo dei moti del 1820. Ciò renderebbe più lineare il comportamento successivo, da ministro di Polizia acceso ed efficace oppositore delle cospirazioni liberali, e quello opportunisticamente adottato subito dopo la sconfitta del Pepe ed il ritiro della costituzione: egli, che era stato capo di Stato Maggiore di quel generale nella guerra contro gli Austriaci, abiurava la propria scelta carbonara, dichiarando di aver aderito alla setta solo per boicottarla. Essendo stata avallata tale dichiarazione da personaggi di sicura fede borbonica, il D. fu riabilitato dalla commissione d'inchiesta, la cosiddetta Giunta di scrutinio.
Reintegrato nel grado di colonnello, egli operò in più riprese e con efficacia specialmente nel biennio 1824-25, al comando di colonne mobili contro i briganti di varie regioni del paese. Nel 1826 il re gli conferiva poteri eccezionali per la repressione del brigantaggio nella provincia di Cosenza. Agì con durezza, andando anche oltre il mandato conferitogli e sconfinando nella provincia di Catanzaro. Per tale motivo si attirò le proteste dell'intendente, il quale ottenne il suo richiamo.
L'anno successivo, per le capacità organizzative e di comando dimostrate contro il brigantaggio, il re lo poneva a capo della riorganizzata gendarmeria reale, con la qualifica di ispettore comandante. Per quanto riguarda il suo grado militare egli, che probabilmente era stato nominato brigadiere durante la lotta al brigantaggio, il 3 marzo 1828 veniva promosso maresciallo di campo.
In quello stesso anno, nel mese di giugno, gli venne affidata la prima importante missione della sua carriera: la repressione del moto carbonaro scoppiato nel Cilento e capeggiato dal canonico A. M. De Luca. Nominato commissario del re nei due Principati con pieni poteri, con la formula dell'"alter ego", il D. si recò nei paesi della rivolta con alcuni reparti della gendarmeria.
Nonostante l'immediata ritirata dei rivoltosi, la più parte dei quali scappò alla semplice notizia dell'arrivo delle truppe, il D. si comportò con estrema severità spinto, più che da pura ferocia, o dal proposito di dare una lezione ed un esempio duraturo ai carbonari, che temeva pronti ovunque all'insurrezione a causa della recente partenza dell'esercito austriaco, o dal desiderio di accrescere il proprio prestigio rispetto al rivale N. Intonti, ministro di Polizia. Contro il parere di quest'ultimo, la cittadina di Bosco, evacuata, fu rasa al suolo a cannonate; la commissione militare, da lui presieduta, fece eseguire ventitré condanne a morte; le teste dei condannati furono esposte nei comuni della zona. L'azione del D. fu molto stigmatizzata nell'ambiente liberale, dove egli iniziò a farsi quella fama di feroce repressore che lo accompagnerà fino alla morte. Anche molti moderati, come l'Intonti e - pare - lo stesso L. de' Medici, non condivisero il suo operato.
Tuttavia il D. ebbe molti consensi e compensi per aver così radicalmente estirpato gli aneliti rivoluzionari: il titolo di marchese, quello di cavaliere dell'Ordine di S. Giorgio, una cospicua rendita annua. La monarchia borbonica - sia quella più reazionaria di Francesco I, sia quella solo apparentemente o inizialmente più liberale di Ferdinando II - aveva trovato l'uomo giusto per tenere a bada le molte spinte rivoluzionarie, carbonare, mazziniane o autonomiste, che si ebbero fino al 1848. Ciò egli fece in special modo a partire dal febbraio 1831, quando, essendo stato allontanato l'Intonti dal Regno a causa delle sue simpatie per i liberali, aggiunse alla carica di comandante della gendarmeria anche quella di ministro di Polizia.
Come tale ebbe il merito di contrastare efficacemente la delinquenza comune e di rendere più sicure le strade del paese, ma la sua principale occupazione fu la prevenzione o la repressione delle varie congiure orchestrate a Napoli e nelle province.
Tra il 1832 e il 1833 ne stroncò in particolare tre: la prima capeggiata dal frate A. Peluso, le altre due, fallite sul nascere, una promossa da C. Rosaroll, l'altra di ispirazione mazziniana. Il D. riusciva ad operare gli arresti prima dello scoppio delle rivolte, usufruendo di una fitta rete di spie e di delatori. Anche in questi casi operò con una certa durezza, ma allo stesso tempo approvò la concessione della grazia da parte del re ai condannati a morte.
Nel 1837 gli toccò un'altra missione repressiva, questa volta in Sicilia, dove in occasione dell'epidemia colerica erano scoppiate sanguinose sommosse popolari, che in molti casi separatisti e liberali avevano cercato di indirizzare contro i Borboni. Recatosi nell'isola con pieni poteri il D. creò diverse commissioni militari, che emisero circa duecento condanne a morte.
Negli anni successivi il D. continuò a reprimere e stroncare sul nascere l'opposizione liberale. Sotto di lui la polizia e la gendarmeria erano divenuti il principale centro di potere del Regno, spesso incurante di qualsiasi legalità ed in grado di commettere vergognosi arbitri. È il caso ad esempio di G. Ricciardi, inviato in manicomio nel 1836 per uno scontro verbale col D.; è il caso di B. Musolino e di L. Settembrini; trattenuti in carcere per quindici mesi dopo essere stati assolti (1841-42).
Negli anni Quaranta però il D. ebbe una parte di secondo piano nella repressione delle maggiori congiure e si limitò ad arrestare i congiurati napoletani legati ai moti che scoppiavano all'Aquila (1841), Cosenza (1844), Reggio e Messina (1847) ed a tenere i contatti con le autorità locali e le milizie inviate da Napoli.
Gradualmente egli andava mitigando l'intransigenza nei confronti dei liberali, sia perché conscio - specie dopo l'elezione a papa di Pio IX - dell'impossibilità di fermarne l'ascesa, sia perché aspirava a rimanere a galla anche dopo il Successo liberale, nonostante l'odio che da anni si era attirato. Per tali motivi fu mite nei confronti di alcuni arrestati, come M. d'Ayala e C. Poerio, nel 1844 e ancor più nel 1847. Dopo la vittoriosa rivolta siciliana del gennaio 1848 progettava di farsi promotore presso il re della concessione di una costituzione, ma fu fatto arrestare ed espulso dal Regno da quello stesso Ferdinando II che diciassette anni prima aveva analogamente trattato l'Intonti. Stavolta però il re era spinto non solo dalla volontà di impedire e punire il pronunciamento del suo ministro, ma soprattutto dalla speranza di attirarsi in tal modo le simpatie degli ormai inarrestabili liberali.
Imbarcatosi su di una nave, dopo essere stato perseguitato dall'odio popolare nei vari porti italiani dove attraccava, il D. riuscì a sbarcare nottetempo a Marsiglia ed a rifugiarsi per circa due anni a Montpellier. Nel 1850 gli fu consentito di tornare a Napoli. Riabilitato, ma ormai vecchio, non ebbe alcun incarico, ma solo promozioni e mansioni di prestigio formale. Fece parte della nobile compagnia delle guardie del corpo del re; il 21 dic. 1855 fu promosso al massimo grado di tenente generale; ottenne alcune onorificenze.
Morì a Napoli il 21 nov. 1861.
Fonti e Bibl.: Cenni biogr. piuttosto approssimativi e sommari furono scritti quando il D. era ancora in vita, con l'intento di condannarne l'operato: H. Castille, Le marquis D. ancien ministre du roi de Naples, Paris 1856; G. Ricciardi, Cenno biogr. intorno al D., in Id., Opere. Prose. Lavori biografici, Napoli 1861, pp. 201-06. Scarne appaiono anche le voci su di lui del Diz. del Risorg. naz., II, p. 885; della Enc. Ital., XII, p. 515; di F. Ercole Il Risorgimento ital., Gli uomini politici, II, Roma 1941, p. 29. L'unica fonte che riporta date precise di nascita e di morte, nonché i nomi dei genitori è la genealogia compilata da L. Serra di Gerace, in Arch. Di Stato di Napoli, Mss. L. Serra, IV, p. 1452. Sul suo operato in Basilicata, nei primi anni della Restaurazione, A. Lucarelli, Il brigantaggio politico del Mezzogiorno d'Italia (1815-1818), Bari 1942, ad Ind.; sulla sua attività negli anni Venti si soffermano: A. Genoino, Le Sicilie al tempo di Francesco I, Napoli 1934, ad Indicem; sulla repressione della rivolta del Cilento, notizie in M. Mazziotti, La rivolta del Cilento nel 1828, Roma 1906, passim; R. Moscati, La rivolta del Cilento del 1828, in Arch. stor. per la prov. di Salerno, VI (1933), 2, passim. Su tale periodo, ma ancor più su quello in cui è ministro di Polizia si soffermano diverse storie generali del Regno, che sono caratterizzate tutte da una netta avversione nei confronti del D., responsabile più del re dell'eccessivo assolutismo vigente nel paese per gli storici filoborbonici (in special modo G. De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1947 al 1861 [1868], Napoli 1964, pp. 55 s., 58, 69, 123; ma vedi anche H. Acton, Gli ultimi Borboni di Napoli, Firenze 1962, ad Indicem; P.Calà Ulloa, Il regno di Ferdinando II, a cura di G. F. de Tiberiis, Napoli 1967, ad Indicem), reo di essere liberale di idee e assolutista nei fatti per il liberale N. Nisco, Storia del Reame di Napoli dal 1824 al 1860, Naboli 1908, I, pp. 40 s., 66 ss., 70-76; II, pp. 11-15, 18, 45, 51-54, 58, 120 s. Ampie notizie sulla destituzione dell'Intonti e la scelta dei D. sono in G. Paladino, A Napoli nei primi mesi del 1831, in Studi di st. nap. in on. di M. Schipa, Napoli 1926, passim. Delle sue repressioni negli anni Trenta si occupano: G. Paladino, La congiura del "Monaco", 1830-33, in Arch. stor. per le prov. nap., n. s., XIV (1928), pp. 285-387 passim; Id., Una congiura mazzin. a Napoli nel 1833, ibid., n. s., X (1924), pp. 287-320 passim; e relativamente ai fatti siciliani F. Guardione, Il dominio dei Borboni in Sicilia dal 1830 al 1861 in relazione alle vicende nazionali con documenti inediti, I-II, Torino 1907, ad Indicem (ma in particolare I, pp. 165-71). Qualche notizia sugli ultimi anni della sua vita dopo il ritorno a Napoli è in R. De Cesare, La fine di un regno, Roma 1975, ad Indicem. Ampie notizie e severissimi giudizi sul suo operato sono nelle memorie di alcuni liberali del suo tempo ed in particolare in L. Settembrini, Ricordanze della mia vita e scritti autobiografici, Milano 1961, ad Indicem (ediz. a cura e con utili e documentatissime note di M. Themelly); G. Ricciardi, Mem. autografe di un ribelle, Parigi 1857, passim; L.De Samuele Cagnazzi, La mia vita, Milano 1944, ad Indicem.