DEL CARRETTO, Giacomo, marchese del Finale
Figlio di Enrico (II), marchese di Savona, nacque verso il 1215. Infatti il padre, insieme con Guillaume Gratapaille di Clery (indicato nei documenti come "dominus Gratapalea" e cognato del D.), si impegnò il 15 luglio 1224 ad abitare in Alba in tempo di guerra, promettendo che al suo posto sarebbe venuto a risiedervi suo figlio, non appena avesse compiuto i 15 anni.
Morto il padre verso il 1233, il D. fu affidato alla tutela del cognato Guillaume Gratapaille, ereditando un feudo compatto, posto a controllo di una vitale arteria commerciale tra le Riviere e il retroterra padano; esso comprendeva anche il Finale, zona di reclutamento militare e sbocco marittimo destinato a rivestire un ruolo fondamentale come porto sottratto al monopolio commerciale che il Comune genovese stava tentando di attuare sulle coste liguri. Nel retroterra padano, i feudi da lui controllati gli furono contesi dal Comune di Alba, in lotta ormai decennale coi Carretteschi per il possesso del castello di Monforte. Nel 1234 le due parti ricorsero all'arbitrato del Comune di Asti che, legato al D. dall'identica politica filosveva, pronunciò una sentenza favorevole al marchese. Tuttavia, fallito un abboccamento con Guillaume Gratapaille, essendo il D. ancora minorenne, Alba non esitò ad occupare Monforte con un colpo di mano. La contesa si trascinò ancora a lungo: solo nel 1255, morto il Gratapaille, si giunse ad un accordo che assicurò ad Alba il castello conteso e riconobbe al D. il castello di Novello, su cui il Comune vantava diritti.
Negli anni arroventati della lotta tra Chiesa ed Impero, il D. fu fedele alleato, come lo era stato il padre, di Federico II durante le operazioni militari nel settore nordoccidentale della penisola; contemporaneamente, egli mantenne i legami familiari e politici con la casa di Savoia, assistendo, come alleato di Amedeo IV, al trattato tra il conte e il Comune di Torino (18 nov. 1235). Nel 1240, rompendo i suoi legami con Genova, il D. venne in aiuto di Manfredo (II) Lancia, vicario imperiale, impegnato nel tentativo di occupare Pietra Ligure, che il vescovo di Albenga aveva consegnato al Comune genovese; nell'agosto, raggiunse Federico II che si trovava allora a Pavia. L'anno seguente collaborò col nuovo vicario imperiale di Lombardia, Marino da Eboli, alle prese con l'assedio del castello di Segno, posto nei pressi di Savona.
Coi suoi uomini del Finale il D. costruì una macchina da guerra, con cui batté le mura del castello notte e giorno; gli uomini di Noli, assediati, chiesero rinforzi al Comune di Genova, che li inviò con grave ritardo, permettendo al da Eboli e al D. di impadronirsi del castello. Genova spedì, allora, un contingente di truppe guidato da Fulco Guercio, che tentò di dare il guasto al territorio del Finale. Tuttavia, il D. riuscì a sconfiggere le truppe genovesi e a catturare il Guercio. Il Comune provvide a inviare altre truppe, guidate da Lanfranco Malocello, legato da rapporti familiari col D.; un tentativo di abboccamento fra i due fallì, cosicché le operazioni militari ripresero da entrambe le parti con rinnovato vigore.Nel 1243 Genova inviò un forte esercito per assediare Savona, roccaforte imperiale nel Ponente; in aiuto della città arrivò un contingente di 200 cavalieri assoldati da Pavia, Alessandria, Tortona e Albenga, che riuscì a raggiungere la città assediata attraverso il territorio del Del Carretto. A Mallare egli fece raccogliere le sue genti e con abbondanti vettovagliamenti entrò a Savona, ponendosi alla testa della resistenza. Nonostante la reticenza degli Annali genovesi nel ricordare l'episodio, il risultato dovette essere il fallimento dell'assedio; non migliore esito ebbero le trattative, avviate nell'aprile, tra il Comune e il D., che aveva provveduto a liberare Fulco Guercio, come atto di buona volontà. Di Albenga egli divenne rettore, benché lasciasse l'effettivo governo della città al marchese Manfredo d'Incisa, capitano imperiale, e a Giacomo Spinola, suo vicario. Negli anni seguenti le operazioni militari proseguirono senza fatti degni di nota.
I legami del D. con la corte sveva si fecero, nel frattempo, più stretti, tanto che nei primi giorni di maggio del 1247, a Cremona, egli sposò una figlia naturale di Federico II; probabilmente si trattava di Caterina di Marrano, ricordata da re Enzo come "cara sorella" nel suo testamento del 1272; questa ipotesi è corroborata da un altro documento del 1265, da cui risulta come la figlia di re Enzo fosse affidata alle cure di sua zia, moglie del marchese Del Carretto. Genero dell'imperatore (con tale qualifica è ricordato da ora in poi nei documenti), il D. si vide riconosciuto un notevole prestigio alla corte imperiale, tanto da essere nominato da Federico II vicario della regione a nord di Asti. È probabile, tuttavia, che almeno formalmente egli rivestisse una posizione subordinata a quella di Tommaso di Savoia, cui era stato concesso il vicariato generale "a Papia superius".
Nel giugno 1247 egli ricevette l'incarico dall'imperatore di prendere sotto la sua protezione la certosa di Pesio; nell'agosto dell'anno seguente gli fu affidato il compito di raccogliere le collette da versare al monastero di Casanova. Nel novembre, a Vercelli, fu teste all'atto in cui Federico concesse in feudo a Tommaso di Savoia, zio del D., Torino, Moncalieri, Ivrea, il Canavese ed altre località, che erano state per il momento affidate dall'imperatore al Del Carretto.
Secondo gli accordi presi in questa circostanza, quest'ultimo avrebbe dovuto consegnare tali località a Tommaso non appena fossero cessate le ostilità tra Papato e Impero; se la pace non fosse stata fatta entro tre anni, il D. avrebbe dovuto consegnare Ivrea e il Canavese; nel caso in cui la pace non fosse stata firmata entro cinque anni, il D. avrebbe dovuto consegnare gli altri territori, senza attendere ulteriori ordini imperiali. A lui spettò, inoltre, il compito di amministrare la regione e di riscuotere i redditi che dovevano essere versati a Tommaso. Nel dicembre, un nuovo accordo tra Federico II e Tommaso permise a quest'ultimo di utilizzare i proventi della Curia imperiale per provvedere alla difesa delle sue terre, ma con l'impegno di procedere secondo il consiglio del D.; a rappresentarlo a Torino rimase il cognato Guillaume Gratapaille, che in questa città morì verso la fine del 1250.
Partito alla volta di Cremona nel febbraio 1249, l'imperatore provvide a lasciare Vercelli in custodia al marchese Lancia e al D., che finì col concentrare nelle sue mani numerosi incarichi: quello di rettore di Albenga, di podestà di Ivrea e del Canavese e quello, già ricordato, di vicario imperiale. Crollato lo schieramento ghibellino dopo l'improvvisa morte dell'imperatore, anche il potere del D. venne bruscamente ridimensionato. Seguendo la sorte delle città alleate di Savona e di Albenga, nel febbraio 1251 egli si sottomise al Comune di Genova: quest'ultimo si impegnò a non chiedergli il risarcimento dei danni di guerra, impose la distruzione del castello di Varigotti, ma riconobbe la sua signoria sul territorio del Finale; il D., oltre a riconfermare le convenzioni strette col Comune da suo padre Enrico (II) nel 1227, fu costretto a cedere a Genova il castello di Segno e ai Fieschi, rappresentanti di papa Innocenzo IV, quello di Pietra Ligure. Nel giugno dello stesso anno, "magister" Martino, cappellano e auditore generale delle cause nella Curia papale, ratificò l'accordo.
Al D. toccò, non si sa a quale titolo, il trono d'oro tempestato di gemme di Federico II. Il 12 giugno 1251 egli lo offrì in pegno alla compagnia finanziaria di Guido Spinola, da cui aveva ricevuto la somma di 2.000 libre di genovini, promettendo di restituire in cambio 1.600 provini; il D., tuttavia, non dovette far fronte all'impegno pattuito, perché l'anno seguente il trono passò nelle mani della società Mangiavacche che, con lauto profitto, provvide a venderlo ad un inviato del re Corrado di Svevia.
Negli anni seguenti il D. mirò a normalizzare le sue relazioni con le potenze comunali confinanti col suo feudo, anche perché le distruzioni della guerra dovevano averlo messo in serie difficoltà finanziarie, come dimostra la vicenda del trono imperiale. La necessità di mantenere aperta la strada passante per il suo feudo diventava esigenza vitale per permettergli di ripristinare il gettito doganale che questo controllo gli assicurava. Il D. dovette raggiungere il suo scopo: il traffico commerciale attraverso il suo feudo riprese con rinnovato vigore, tanto da spingere i mercanti toscani e lombardi a coniarvi una moneta, detta "carratina", con l'obiettivo di danneggiare la concorrenza delle città guelfe lombarde (cfr. Annali Placentini ghibellini, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, XVIII, a cura di G. H. Pertz, Hannoverae 1863, p. 507).
L'8 apr. 1251 egli giurò fedeltà al Comune di Asti, ottenendo in feudo i castelli di Novello, Montechiaro, Lequio e Saliceto. Nel 1253 Bonifacio II del Monferrato lo nominò tra i tutori del figlio Guglielmo. Il 12 luglio 1254, a Piacenza, partecipò all'accordo che impegnò Oberto Pelavicino, da una parte, e gli alleati di Ezzelino da Romano, dall'altra, a lottare contro chiunque fosse nominato re o imperatore, dopo la morte di Corrado di Svevia, avvenuta il 21 maggio di quello stesso anno. Il 17 luglio 1255 stipulò un importante accordo col Comune di Alba, che pose fine ad una lunga contesa per il possesso dei castelli di Monforte e di Novello; inoltre, si impegnò a risiedere in città, a partecipare al Consiglio comunale e a tenere sicura la strada passante per il suo feudo. Nel maggio 1256 si accordò col Comune di Savona; nel febbraio dello stesso anno, a seguito del conflitto tra il Comune di Mondovì e i marchesi aleramici, appoggiati da Alba, si venne ad un accordo per la liberazione dei prigionieri di guerra; nel novembre si impegnò con lo stesso Comune a delimitare le rispettive zone di influenza e a risiedere in città, promettendo aiuti militari. Nel frattempo, egli fu chiamato ad occuparsi della prigionia di Tommaso di Savoia, che, trovandosi a Torino, era stato clamorosamente catturato dai Torinesi alleatisi col Comune di Asti. Al D., come procuratore del principe, fu affidato il compito di trattare la sua liberazione. Concluse con il Comune astigiano un primo accordo il 5 nov. 1256 e un secondo il 14 febbraio successivo, ma solo nel luglio riuscì a ottenere la liberazione di Tommaso: questi, peraltro, riprese subito le armi contro Asti e il D., il 17 novembre, fu testimone della tregua firmata dal principe e dal Comune.
In seguito il D. si riavvicinò ad Asti, rimanendo fedele allo schieramento ghibellino negli anni in cui veniva formandosi in Piemonte una zona di influenza angioina. Il 21 febbr. 1260 è ricordato come alleato del Comune nella tregua stipulata con Carlo d'Angiò. Cinque anni dopo, ammalato gravemente, fece varie donazioni ad istituti religiosi, in particolare al monastero di Millesimo. È incerto se egli sia morto l'anno seguente (come risulta da un codicillo aggiunto al suo testamento, pubblicato dal Moriondo) o tra il 1266 (dato che è ricordato come ancora in vita nella nuova tregua firmata da Asti e Carlo d'Angiò il 14 agosto) e il 1268 (anno in cui i suoi tre figli procedettero alla divisione del feudo paterno). Il D. ebbe tre figli: Corrado, il primogenito, Antonio ed Enrico, questi ultimi due affidati alla tutela di Nicoloso Doria. Sono ricordate anche due sue figlie: Margherita, andata sposa a Giovanni de Brayda, e Aurelia, sposata a Franceschino Grimaldi, signore di Monaco.
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