Delega legislativa nella giurisprudenza costituzionale
La delega legislativa (artt. 76 e 77, co. 1, Cost.) consente al Governo di legiferare in materie di regole caratterizzate da particolare tecnicismo, nel rispetto dei principi e criteri direttivi in essa previsti e per un periodo di tempo limitato. Si tratta di uno strumento che, dapprima scarsamente utilizzato, ha poi conosciuto un notevole incremento, a partire dalla svolta in senso maggioritario dei sistemi elettorali verificatasi nell’ultima decade del secolo trascorso. Tuttavia, alla trasformazione della delega legislativa in strumento ordinario di normazione non ha corrisposto un maggior intervento in materia della Consulta, da sempre cauta nel dichiarare l’illegittimità della relativa legge. Segnali in senso contrario sembrano comunque potersi cogliere dalla rassegna della più recente giurisprudenza costituzionale, significativa di un più rigoroso atteggiamento della Corte in funzione di garanzia dell’art. 76 Cost.
La legge di delega, la cui regolamentazione si rinviene agli artt. 76 e 77, co. 1, Cost., è formalmente una legge approvata mediante la procedura ordinaria, di delega al Governo della facoltà di adottare decreti legislativi sull’argomento indicato, nel rispetto dei principi e criteri direttivi ivi previsti e per un periodo di tempo limitato. Si tratta di una legge che può contenere plurime deleghe e che, di regola, viene adottata dal Parlamento per operare riforme di settore o disciplinare materie ad alto grado di tecnicità1.
In disparte una fase ascendente, protrattasi sino alla metà degli anni cinquanta, il ricorso da parte dell’esecutivo alla normazione secondaria è progressivamente diminuito, per poi trovare, però, nuova linfa negli anni settanta.
È tuttavia solo nell’ultima decade del secolo appena trascorso che si assiste ad un notevole incremento nel ricorso allo strumento della delega legislativa. I vari governi che si sono succeduti alla guida del Paese, infatti, indipendentemente dalla colorazione politica, hanno inaugurato una nuova stagione in ordine all’utilizzo delle leggi di delega, chiedendo ed ottenendo dalle Camere spazi di manovra sempre più ampi e conseguendo, altresì, la possibilità di intervenire ripetutamente mediante l’adozione di decreti correttivi ed integrativi2.
È soprattutto durante la X legislatura (2 luglio 1987 – 22 aprile 1992) che lo strumento ha trovato un rilancio sostanziale, in concomitanza con la necessità di recepimento della normativa comunitaria. Anche altri sono i fattori che hanno causato tale exploit nell’utilizzo della delega: nel corso della XIII legislatura (9 maggio 1996 – 29 maggio 2001), ad esempio, lo strumento diviene il più ricorrente nel processo decisionale, in considerazione dei limiti apposti dalla Consulta al fenomeno della reiterazione dei decreti legge (C. cost., 24.10.1996, n. 360). In sostanza, l’uso della delega, per quanto strumento che avrebbe dovuto essere limitato a casi eccezionali, ha conosciuto, soprattutto di recente, una progressiva dilatazione, tanto da essere oramai, pacificamente, riconosciuto come un mezzo ordinario di normazione3. Le ragioni del ricorso sistematico alla legge di delegazione vanno evidentemente ricercate nel tentativo di superare il farraginoso procedimento di formazione delle leggi ordinarie, caratterizzato da un iter particolarmente complesso e dall’inevitabile imponderabilità dell’esito in sede di approvazione finale del testo in discussione, non essendo infrequente che valutazioni contingenti di carattere politico possano comportare l’arresto del procedimento prima che lo stesso giunga alla sua normale conclusione. Il fenomeno appena menzionato, come vedremo più oltre, avrebbe dovuto determinare un sempre maggior intervento, in funzione correttiva, della Corte costituzionale, ancorché così, in fin dei conti, non è stato.
Anche perché, peraltro, al descritto “abuso” dello strumento in termini quantitativi, si è poi accompagnata una altrettanto rilevante modifica anche a livello qualitativo, caratterizzata dal progressivo allontanamento a livello teorico da quelle garanzie che pure il legislatore costituente aveva predisposto ai fini dell’attribuzione al Governo dell’esercizio del potere normativo, con conseguente allargamento delle maglie per l’intervento in sede delegata dell’esecutivo. Ebbene, l’attualità di una riflessione sulle decisioni, anche recenti, della Corte costituzionale in materia di delega legislativa è suggerita proprio dal quadro testé delineato. Volendo brevemente anticipare le conclusioni, è possibile affermare che nonostante il progressivo aumento dei casi di ricorso allo strumento in esame, in materia di questioni di costituzionalità concernenti la delega legislativa, il giudice delle leggi è stato particolarmente cauto e sfuggente. L’intervento della Consulta a censura di leggi di delega adottate in violazione degli artt. 76 e 77 della Costituzione è stato pressoché inesistente, ancorché qualche segnale di apertura in senso opposto pare potersi comunque rintracciare soprattutto nella più recente giurisprudenza del giudice delle leggi.
In ordine agli interventi operati dalla Corte costituzionale in materia di delega legislativa non si può non segnalare che è stato proprio con riguardo a tale ambito che, chiarendosi come la violazione della Costituzione possa intervenire non solo in via diretta ma anche mediata, è stata pretoriamente elaborata la figura della “norma interposta”. Il riferimento è alla nota sentenza 26.1.1957, n. 3 con cui la Consulta ha offerto l’inquadramento teorico entro il quale riportare la legge di delegazione ed i rapporti tra questa ed il decreto legislativo delegato. La Corte ha rilevato che la legge di delega va considerata con riferimento all’art. 76 Cost., per verificare se sia stato rispettato il precetto che ne legittima il processo formativo, fissando la disposizione in esame i limiti entro i quali l’esercizio della funzione legislativa può essere delegato al Governo. Se la legge di delegazione non contiene, anche solo in parte, i requisiti ivi espressamente indicati «sorge il contrasto tra norma dell’art. 76 e norma delegante, denunciabile al sindacato della Corte costituzionale, s’intende dopo l’emanazione della legge delegata». Sulla base di tale affermazione ci si sarebbe aspettati un sindacato “forte” da parte della Consulta, teso a sanzionare le Camere per le ipotesi di mancata osservanza delle garanzie sancite all’art. 76 Cost. Eppure così non è stato. Come, invero, è stato significativamente messo in evidenza, il giudice costituzionale ha incontrato «maggiori difficoltà nel sanzionare il Parlamento che non difenda le proprie prerogative piuttosto che il Governo che le usurpi»4, e ciò probabilmente al fine di evitare che le pronunce di incostituzionalità delle norme deleganti avessero, inevitabilmente, a travolgere, gli atti (i decreti legislativi) dalle medesime originate. Assai limitati sono, infatti, stati i casi in cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di leggi di delega. In tal senso, possono storicamente richiamarsi la sentenza 15.7.1959, n. 47 con cui la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità, per violazione dell’art. 76 Cost., della delega legislativa contenuta in una legge della Regione Sicilia in quanto carente di principi e criteri direttivi, e la sentenza 28.7.2004, n. 280 ove è stata invece dichiarata l’illegittimità di disposizioni contenute nell’atto di delegazione (nello specifico, i commi 5 e 6 dell’art. 1 della l. 5.6.2003, n. 131), per incongruità, in quanto l’oggetto della delega, come ha sottolineato la Corte, si risolveva «proprio in quella porzione della legislazione (i principi) necessariamente di pertinenza del Parlamento»; inoltre, anche i principi direttivi della delega sono stati ritenuti in violazione del disposto costituzionale in quanto funzionali all’individuazione di altri principi e come tali inidonei ad orientare l’attività del legislatore. Senonché, più di recente, la Corte costituzionale, dopo anni di (eccessive) cautele e remore rispetto agli interventi da operarsi in ordine alle deleghe legislative5, sembra aver intrapreso la strada di un ripensamento dell’orientamento sin qui seguito. Il riferimento è, anzitutto, alla sentenza 25.11.2016, n. 251.
Nel caso in esame, su ricorso della Regione Veneto, la Corte costituzionale è stata chiamata a giudicare la legittimità costituzionale di alcune norme della l.7.8.2015, n. 124 («Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche»), meglio nota come legge Madia di riforma delle pubbliche amministrazioni.
Le norme impugnate delegavano il Governo ad adottare decreti legislativi per il riordino di numerosi settori inerenti a tutte le amministrazioni pubbliche, comprese quelle regionali e degli enti locali, in una prospettiva unitaria, spaziando, però, dalla cittadinanza digitale (art. 1), alla dirigenza pubblica (art. 11), dal lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (art. 17), alle partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche (art. 18), ai servizi pubblici locali di interesse economico generale (art. 19) così influendo su varie materie, cui corrispondono interessi e competenze sia statali, sia regionali (e, in alcuni casi, degli enti locali). Per questo motivo, la Corte costituzionale ha ritenuto di dover dapprima verificare se, allo scopo di escludere la violazione delle competenze regionali, nei singoli settori in cui intervengono le norme impugnate, fra le varie materie coinvolte, ve ne fosse una, di competenza dello Stato, cui ricondurre, in maniera prevalente, il disegno riformatore nel suo complesso. Ha quindi affermato che, in caso di esito negativo di tale riscontro, perché vi è una concorrenza di competenze, statali e regionali, relative a materie legate in un intreccio inestricabile, risulta necessario che il legislatore statale rispetti il principio di leale collaborazione e preveda adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni (e degli enti locali), a difesa delle loro competenze. Su queste basi, la Corte ha salvato dall’illegittimità costituzionale le norme recanti la delega a modificare e integrare il Codice dell’amministrazione digitale (art. 1), in quanto riconducibili in maniera prevalente alle competenze statali previste dall’art. 117, co. 2, lett. r) e m), Cost. Al contempo ha dichiarato però l’incostituzionalità delle norme di delega volte alla riorganizzazione della dirigenza pubblica (art. 11) e delle deleghe contenute negli artt. 17, 18 e 19 relative, rispettivamente, al lavoro alle dipendenze delle p.a., alle partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche e ai servizi pubblici locali di interesse economico generale (ambiti nei quali la Consulta ha ravvisato un concorso di competenze, statali e regionali, nessuna delle quali è prevalente), nella parte in cui, pur incidendo su materie di competenza concorrente, prevedono che i decreti attuativi siano adottati sulla base di una forma di raccordo con le Regioni, che non è l’intesa (come invece richiesto dalla legge Madia), ma il semplice parere, non idoneo a realizzare un confronto autentico con le autonomie regionali. Il nuovo cammino così intrapreso, volto ad un più rigoroso scrutinio delle leggi di delega, ha trovato poi ulteriore conferma, tra le altre, nelle più recenti decisioni di cui alla sentenza 11.5.2017, n. 104 e alla sentenza 26.5.2017, n. 127. Con la prima (sentenza n. 104/2017), alla luce del parametro rappresentato dall’art. 76, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 del d.lgs. 29.3.2012, n. 49, mentre con la sentenza n. 127/2017 ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8, co. 1, del d.lgs. 15.1.2016, n. 8 sollevate, in riferimento, tra gli altri, agli artt. 76 e 77 Cost. e non fondate quelle relative all’art. 1, co. 3, del medesimo d.lgs. n. 8/2016, sollevate sempre in riferimento agli artt. 76 e 77 Cost. Si tratta di decisioni diverse negli esiti ma significativamente accomunate dal rilievo in esse accordato ai pareri espressi dalle Commissioni parlamentari, quale elemento da tenere in considerazione ai fini del sindacato di legittimità da svolgersi con riguardo alle leggi di delegazione.
È la Corte, infatti, a chiarire – testualmente – che «Ben vero che, in base alla giurisprudenza costituzionale, il parere delle Commissioni parlamentari non è vincolante e non esprime interpretazioni autentiche della legge di delega (sentenze n. 250 del 2016 e n. 173 del 1981), ma è altrettanto vero che esso costituisce pur sempre elemento che, come in generale i lavori preparatori, può contribuire alla corretta esegesi della stessa (sentenze n. 308 e n. 193 del 2002)» (sentenza n. 104/2017).
Non v’è dubbio che il segnalato incremento nel ricorso allo strumento della delega legislativa costituisce uno dei tanti aspetti problematici nell’evoluzione del sistema delle fonti che assume oggi un rilievo peculiare data l’ormai affermata tendenza all’utilizzo della delegazione legislativa come strumento privilegiato per l’attuazione del programma di Governo. Allo stesso modo, a fronte di simile fenomeno, problematico, per altri motivi, risulta pure l’atteggiamento a dir poco cauto che la Corte costituzionale ha mantenuto rispetto alle leggi di delegazione6. Un modus operandi difficilmente giustificabile se solo si pensa al massiccio intervento di cui la Consulta si è, invece, resa storicamente protagonista con riguardo all’atro tipico atto normativo con forza di legge che il Governo, a date condizioni, è legittimato ad adottare: il decreto-legge. Se, infatti, rispetto ai provvedimenti di cui all’art. 77, co. 2, la Corte ha svolto una fondamentale funzione di salvaguardia delle garanzie costituzionali, con decisioni storiche che hanno inderogabilmente fissato i limiti oltre i quali non può spingersi l’esercizio della potestà normativa del Governo, altrettanto non può dirsi rispetto allo strumento della delega legislativa. Occorre, ad ogni modo, mettere in evidenza come soprattutto nell’ultimo biennio la Consulta sembra aver operato (ma il dato è da verificare alla luce delle pronunce dei prossimi mesi) un revirement dell’atteggiamento – quasi disinteressato – sin qui serbato. Pronunce come quelle di cui alle sentenze n. 251/2016, 104/2017 o 127/2017, infatti, dimostrano una maggior attenzione, da parte della Corte, alle violazioni parlamentari, in sede di redazione della legge di delega, rispetto al parametro dell’art. 76 Cost. Con esse il giudice delle leggi sembra lasciarsi alle spalle quel tradizionale atteggiamento di accortezza sin qui osservato, al contempo superando la classica impostazione, tesa a giustificarlo, per cui l’ampiezza dei termini della delega costituisce una questione di stampo puramente politico nonché il timore di dar luogo, mediante sentenze di accoglimento, a situazioni di maggiore incostituzionalità7.
Anzi, proprio con riguardo a tale ultimo profilo, apprezzabile pare l’impegno del giudice costituzionale nel rinvenire soluzioni che, senza dichiarare l’incostituzionalità dei decreti delegati, permettano comunque di intervenire su leggi di delega non conformi a Costituzione. Basti pensare in tal senso alla peculiare modulazione degli effetti delle decisioni assunta con la sentenza n. 251/2016.
La Corte, infatti, anziché dichiarare l’illegittimità dei decreti legislativi medio tempore adottati dal Governo sulla base delle disposizioni dichiarate costituzionalmente illegittime, li ha salvati dalla declaratoria di annullamento nell’attesa dell’intervento dell’esecutivo con decreti integrativi o correttivi, pronunciandosi però, comunque, sulla legge di delega, stante la non intervenuta scadenza dei termini previsti per gli interventi correttivi e/o integrativi. Si tratta, forse, dell’alba di una nuova stagione in materia di interventi della Corte costituzionale sullo strumento della delega legislativa.
1 Secondo Ceccanti, S., Decreti legge e decreti legislativi in Italia, in Forum di Quaderni Costituzionali, le leggi di delega possono essere raggruppate in quattro distinte categorie: a) leggi omogenee con deleghe di completamento, le più frequenti; b) leggi omnibus con deleghe, in genere adottate in connessione alle manovre finanziarie, di carattere per lo più microsettoriale; c) leggi omogenee di delega (di indirizzo), che affermano in maniera più solenne l’indirizzo politico; d) leggi di delega periodiche, come quelle per il recepimento della normativa comunitaria.
2 L’istituto della delega per la emanazione di decreti correttivi ed integrativi, replicato soprattutto nel corso degli anni novanta, in occasione di deleghe complesse o finalizzate alla realizzazione di grandi obiettivi, è divenuto ormai uno strumento “tipico”, nel senso che costituisce lo schema originario e più frequente di trasferimento all’esecutivo dell’esercizio della funzione legislativa.
3 Si veda, ad esempio, Pisaneschi, A., Diritto Costituzionale, Torino, 2016.
4 Si veda Di Cosimo, G., Tutto ha un limite (la Corte e il Governo legislatore), in Siclari, M., a cura di, I mutamenti della forma di governo tra modificazioni tacite e progetti di riforma, Roma, 2008, 89102.
5 Per un approfondimento sulla “prudente” giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di delega legislativa si rinvia a La delega legislativa. Atti del seminario svoltosi in Roma Palazzo della Consulta, 24 ottobre 2008, Milano, 2009.
6 Branca, G., Quis adnotabit adnotatores?, in Foro it., 1970.
7 Si veda Frontoni, E., Leale collaborazione, delegazione legislativa e modulazione degli effetti delle decisioni di illegittimità costituzionale: la Corte di fronte alla perdurante assenza di una seconda Camera delle Regioni, in Nomos. Le attualità del diritto, 2/2017.