Delinquenza minorile
Cani perduti senza collare
Esiste un allarme criminalità minorile?
di Simonetta Matone
29 aprile
A Modena l’autorità giudiziaria dispone la misura cautelare del collocamento in comunità per tre minorenni, arrestati dalla Polizia perché, armati di taglierini e coltelli, minacciavano i loro compagni di scuola per farsi consegnare piccole somme di denaro. È uno dei tanti episodi di bullismo che la cronaca registra quotidianamente e che rappresentano una delle forme emergenti della delinquenza minorile.
Delinquenza e devianza minorile
La definizione del concetto di devianza non è univoca, perché ha sempre risentito delle correnti di pensiero che si sono occupate, a livello sociologico, del fenomeno. Generalmente si definisce come deviante un insieme di comportamenti che infrangono il complesso dei valori, sentiti come condivisi, in un determinato momento storico e in un dato contesto sociale, dalla cultura e dalla storia della generalità dei consociati. La devianza si pone nei confronti della delinquenza in un rapporto di genere e specie, nel senso che se è vero che un delinquente è anche un deviante, non necessariamente un deviante è un delinquente. È quindi un delinquente colui che commette un fatto antisociale ritenuto reato dalla legge penale.
Nell’accezione comune, non tutti coloro che commettono reati sono delinquenti, ma lo sono coloro che commettono reati di una certa gravità o reati caratterizzati dalla disapprovazione sociale, o dalla loro reiterazione. Il concetto di delinquenza minorile ha contorni ancora più sfumati, perché le caratteristiche del reato commesso devono allontanarsi da quelle della occasionalità e della estemporaneità, per entrare in quelle della gravità e della ripetitività delle condotte. Peraltro l’approccio sociologico imperante porta a usare con estrema parsimonia, nei confronti di soggetti minorenni, il termine delinquente, ritenuto non ‘politicamente corretto’, preferendo allo stesso il termine più accettato di deviante.
La delinquenza minorile può essere quindi definita come la forma patologica della devianza minorile, comprendendo in essa tutte quelle condotte che, sanzionate dal codice penale, sono fortemente censurate dalla società, gravi o, se non gravi, ripetute nel tempo.
Studiare le cause sociali e il substrato culturale che generano la criminalità minorile non può che consistere nell’analizzare la realtà umana e sociale del mondo degli adulti, che quei figli ha generato.
Delinquenti, perché?
Un ragazzo può percorrere una carriera criminale spinto da una serie di azioni nate nel contesto familiare da cui proviene, per assimilazione di condotte pacificamente accettate dal gruppo di appartenenza, oppure per reazione allo stesso, se vittima di abusi o maltrattamenti.
Può intraprendere percorsi devianti perché trascinato dal gruppo dei ‘pari’ o semplicemente per sfuggire alla noia di giornate sempre uguali. Può scegliere la strada del crimine per affermare la sua superiorità, rispetto al contesto di riferimento, o per meri motivi di sopravvivenza economica.
L’affacciarsi di nuove forme di povertà (quelle della classe medio-bassa dal punto di vista economico) può portare alla commissione di reati necessitati, per il bisogno incoercibile di ottenere quello che altri minori hanno naturalmente dalla famiglia di appartenenza.
Il trovarsi, se stranieri, improvvisamente in un paese vagheggiato e sognato attraverso la televisione, e scoprire che i modelli proposti (vita facile, divertimenti, beni di consumo) hanno un costo insostenibile e che anche procurasi da mangiare è difficile, comporta inevitabilmente scelte devianti.
Provenire da paesi in cui la violenza è la chiave di volta di tutti i rapporti umani fa sì che la stessa diventi l’ancora a cui aggrapparsi se c’è da risolvere un problema che sembra insormontabile (procurarsi del cibo, affermare la propria superiorità nel gruppo, ottenere un capo di vestiario per coprirsi o per sfoggiare quello che tutti hanno). Alla stessa stregua si pone il vivere all’interno di gruppi un tempo definiti nomadi (parola ormai priva di senso, perché quasi tutti stanziali), dove lavorare equivale a rubare; il crescere con la convinzione che, se è pur vero che nel mondo di fuori quel tipo di attività è reato, è altrettanto vero che nell’universo di riferimento ci si procura da vivere così.
Accostarsi al mondo della devianza minorile vuol dire riflettere e su quali spazi siano stati lasciati a questi ragazzi per operare scelte diverse. Conoscerli vuol dire interrogarsi su che tipo di società, di valori e di opportunità il mondo degli adulti ha offerto loro.
Le dimensioni del fenomeno
I minori devianti costituiscono comunque un argomento appetibile per il mondo dei mass media, che vive di lettori e spettatori, share e gradimento. Questo però rischia di alterare la percezione collettiva del fenomeno, portando alla generalizzazione, e quindi al convincimento, di un piccolo universo estremo, come paradigmatico di una intera condizione giovanile.
I grandi fatti di cronaca nera, oltre al danno reale che ogni crimine porta con sé, hanno l’effetto indotto di ingenerare la convinzione che il mondo giovanile dei nostri giorni sia quello dell’‘efferato delitto’. Che se un minorenne, insieme a un’altra minorenne, può uccidere e squartare un bambino di 12 anni, anche gli altri ragazzi lo possono fare. Senza pensare che ogni delitto, nell’accezione più larga del termine, è paradigmatico solo di sé stesso e dell’individuo che lo ha commesso.
Esiste nel nostro paese un’emergenza criminalità minorile? I dati dicono di no. La criminalità minorile in Italia e notevolmente inferiore a quella degli altri paesi europei e l’allarme riguarda semmai le nazioni dell’Europa centrale e settentrionale. L’Italia infatti ha un’incidenza di criminalità minorile del 2,48% sul dato complessivo di denunce a livello nazionale, che la colloca al penultimo posto tra i paesi europei. Da un anno all’altro non si registrano variazioni significative e il fenomeno risulta sostanzialmente stabile.
I minori denunciati all’autorità giudiziaria per procedimenti aperti dinanzi alle Procure della Repubblica presso i Tribunali per i minorenni nell’anno 2008 sono stati 38.082, il numero di procedimenti contro ignoti/minorenni nello stesso anno è stato di 3688.
Per il primo semestre del 2009 il numero dei minori denunciati è stato di 11.874, di cui a piede libero 9438 (10.275 maschi e 1599 femmine). Sono stati 20.959 i ragazzi segnalati dall’Autorità giudiziaria minorile agli Uffici di servizio sociale per i minorenni.
I Centri di prima accoglienza (nei quali i minori vengono portati in stato di arresto su disposizione del pubblico ministero di turno presso il Tribunale per i minorenni) hanno accolto 3866 minori nel 2004, 3655 nel 2005, 3505 nel 2006, 3385 nel 2007, 2908 nel 2008.
Per quanto riguarda i flussi di utenza negli istituti penali per i minorenni, nell’anno 2009 gli ingressi sono stati in totale 1222, con una presenza media giornaliera di 503 detenuti, di cui 207 stranieri e 296 italiani. I dati confermano un leggero, ma significativo decremento degli ingressi nelle strutture detentive ed evidenziano, in controtendenza rispetto agli anni precedenti, un incremento della popolazione italiana (nel primo semestre del 2008 il 51% di ingressi nei CPA riguardava minori italiani).
Una lettura attenta di questi dati conferma l’inesistenza nel nostro paese di un ‘allarme criminalità minorile’, spesso enfatizzato irresponsabilmente dai mezzi di comunicazione.
Pene e recupero
Partendo dal principio costituzionale che all’art. 27 prevede non solo che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, ma che anzi devono tendere alla rieducazione del condannato, e collegando questo principio con gli art. 2 e 3 della Costituzione, è mutata radicalmente nei confronti dei minori la filosofia dell’intervento penale. In linea generale si è attenuata fortemente la visione della sanzione penale come retribuzione per il male fatto e per il danno creato all’ordine sociale. È scomparsa quasi del tutto l’idea che la pena giusta debba consistere principalmente nella sofferenza del condannato, con conseguente sopravvalutazione della colpa rispetto al colpevole.
Non più quindi l’annientamento della persona ai fini di difesa sociale, ma il tentativo di reintegrare nel tessuto collettivo chi se ne è autoescluso commettendo il crimine.
Sul piano carcerario ci si è discostati, dalla Costituzione repubblicana in poi, dall’idea che la segregazione fosse lo strumento adatto a realizzare sia la prevenzione generale, sia quella speciale.
La semplice minaccia di irrogare una pena, anche elevata, ha perso il suo valore dissuasivo per le pene lunghe, mentre per le pene brevi e per i reati di non particolare allarme sociale la detenzione carceraria ha addirittura assunto una valenza negativa, inutile e contaminante, per l’effetto imitativo che può comportare.
Si è giunti così nel corso degli anni, fino a sfociare nel nuovo ordinamento penitenziario, a elaborare il concetto che la segregazione di un deviante insieme ad altri devianti può spingere a commettere ulteriori delitti. La segregazione, intesa come separazione dal tessuto sociale sano, non rimuove le cause che sono alla base del comportamento deviante e, una volta espiata la pena, il nuovo ritorno in società riproduce in forma addirittura aggravata il conflitto interno alla persona precedente.
Di qui la progressiva svalorizzazione della pura e semplice risposta carceraria al reato, realizzata attraverso la depenalizzazione di alcuni reati, l’introduzione di sanzioni sostitutive e la previsione di misure alternative alla detenzione, con un’attenzione sempre più accentuata alla personalità del colpevole e alla realizzazione di programmi di recupero personalizzati, nel tentativo di superare la posizione di svantaggio sociale di partenza. Questo percorso fortemente ideologico ha trovato la sua esaltazione nei confronti dei minorenni.
Già nel sistema precostituzionale vi era una particolare attenzione al soggetto, con una attenuazione della responsabilità a vantaggio di un’evoluzione positiva della personalità. Il dato che spiegava la commissione del reato era il ‘traviamento’ ascrivibile moralmente alla persona e la risposta da dare era la carcerazione che, intesa come privazione della libertà, poteva divenire una controspinta alla devianza e al rischio di recidiva. La giustizia nei confronti dei minori delinquenti però poteva già allora essere clemente e vi era comunque l’obbligo per il giudice di ridurre la pena. La tipologia dell’intervento però era la stessa, per adulti e minori.
Tale sistema è stato radicalmente sovvertito dal nuovo processo penale minorile che, con il d.p.R. 22 settembre 1988, nr. 448, ha cambiato completamente la considerazione dell’imputato minorenne: da soggetto debole da tutelare a soggetto autonomo di diritti, in grado di dialogare con l’adulto magistrato. Il processo diventa per il minore una occasione di recupero e di possibile consapevolezza della sua condizione e per la società un modo attraverso il quale conoscere il disagio ed eliminarne le cause. Il cardine del nuovo processo è la responsabilizzazione intesa come processo educativo, per far acquisire a chi non lo ha il principio di realtà (intesa come accettazione delle regole).
I termini brevi per la chiusura delle indagini preliminari, il dovere di illustrare il significato delle varie fasi del processo e delle decisioni prese, l’acquisizione di elementi sulle condizioni e sulle risorse personali, familiari e ambientali del minore, anche per accertarne il grado di responsabilità, l’assistenza dei genitori e dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia e dei servizi degli enti locali, le misure cautelari da adattare minore per minore, la sospensione del processo e la messa alla prova, la possibilità di accompagnare coattivamente il minore in udienza preliminare, sono tutti strumenti posti a disposizione del magistrato minorile che deve sovrintendere a un procedimento che ha, tra i suoi fini, quello della responsabilizzazione.
Un’altra caratteristica del processo penale minorile è quella di recuperare (o tentare di recuperare) il minore attraverso l’applicazione di disposizioni in misura adeguata alla personalità e alle esigenze educative del soggetto, il dovere di informazione sul significato delle attività processuali, gli accertamenti sulla personalità del minore volti anche a disporre adeguate misure penali ed eventuali provvedimenti civili, il divieto di pubblicazione e divulgazione degli atti e delle notizie a essi relative per tutelare il minore, la dichiarazione di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto (quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minore).
Il processo penale minorile astrattamente deve quindi essere adeguato alla personalità e alle esigenze educative del ragazzo, deve essere minimamente offensivo, non deve essere stigmatizzante perché non deve etichettare come delinquente il reo, non può essere disposto dal soggetto che non può patteggiare la pena. Il giudice deve ricorrere alla detenzione solo come extrema ratio perché residuale rispetto alle altre misure.
I limiti del sistema penale minorile
Tale sistema trova il suo corollario nel ruolo assegnato ai Servizi minorili, a cui viene riconosciuto ampio spazio, insieme ai servizi istituiti dagli enti locali, che diventano soggetti necessari dell’intero procedimento. I Servizi minorili dipendono dal Ministero della Giustizia e sono i primi referenti del giudice, diventando, sulla carta, la cinghia di trasmissione tra il sistema penale e il sistema sociale.
Tale sofisticata e articolata costruzione dovrebbe costituire il baluardo che lo Stato frappone alla delinquenza minorile, la risposta che le istituzioni danno a un problema che di per sé, se pur numericamente residuale, è oggettivamente grave, data l’età dei protagonisti.
Nella realtà il processo così concepito soffre di un approccio fortemente paternalistico (il giudice buono si sostituisce al genitore inadeguato) e di una notevole impostazione ideologica (il processo è il male assoluto da cui fuggire) che ne condizionano l’efficacia; inoltre considera l’intero circuito penale (l’arresto e, soprattutto, le misure cautelari, la detenzione, gli interrogatori) come fortemente diseducativo. Questo assetto, calato dall’alto e innegabilmente politicizzato, è inevitabilmente destinato a infrangersi con la realtà di chi incappa in vicende penali da minorenne.
È inutile per chi non ha problemi veri di devianza, per chi non può essere rieducato perché non è diseducato, per chi non può essere socialmente reinserito, perché dal circuito sociale non è mai uscito. È invece astratto e farraginoso per chi ha problemi seri di devianza.
L’arresto, per esempio, considerato traumatico e diseducativo, viene svuotato della sua valenza monitoria, mentre nel caso di minorenni recidivi, costantemente denunciati a piede libero, può costituire uno stop a una carriera criminale appena agli inizi. È innegabile che la detenzione sia traumatizzante, ma se arriva dopo un crescendo di reati che hanno consolidato e rafforzato il senso di onnipotenza e di assoluta impunità, che si accompagna alla commissione di fatti gravi per i quali non si paga pegno, è salutare ed educativa. Essere arrestati, se le volte precedenti si è stati denunciati a piede libero, può diventare un momento di profonda riflessione sulle scelte fatte. La promiscuità con ragazzi molto diversi, la coabitazione forzata, la paura di ciò che non si conosce, possono portare inevitabilmente a ripensare al proprio stile di vita, se gli operatori (magistrati, educatori, personale penitenziario) sono in grado di fare il loro mestiere, senza indulgenze o complicità.
L’involontaria complicità degli operatori è uno dei grandi mali che affliggono il sistema penale minorile e che rendono totalmente inutili gli interventi cosiddetti di sostegno.
Potestà genitoriale e devianza
Un altro tema ignorato da chi si occupa di politiche criminali è quello dei rapporti tra i procedimenti civili, aperti per la verifica delle modalità di esercizio della potestà genitoriale, e la devianza dei minori, astrattamente tutelata da quei procedimenti. È storia di tutti i giorni nella vita dei tribunali per i minorenni che un ragazzo processato per reati medio-gravi sia già conosciuto dallo stesso tribunale perché oggetto di un procedimento civile per l’inadeguatezza dei genitori o per abusi e maltrattamenti subiti.
Contrariamente a quanto l’opinione pubblica pensa, i tribunali per i minorenni italiani sono profondamente culturalmente rispettosi della sacralità della famiglia e talvolta ossessivamente tesi alla salvaguardia del vincolo di sangue, sempre comunque ossequiosi del principio che il minore ha il diritto di crescere nella sua famiglia. Tali affermazioni di principio erette a sistema creano autentiche aberrazioni, per esempio, nel trattamento riservato ai minori rom.
L’interrogativo da porsi è: se un italiano obbligasse sistematicamente i propri figli a commettere reati contro il patrimonio, insegnando loro come fare fin da piccolissimi, ne impedisse la scolarizzazione, li sottoponesse a sistematiche violenze se incapaci di rubare, ne sfruttasse i proventi, quanto tempo impiegherebbe un tribunale per i minorenni per dichiarare decaduto dalla potestà quel genitore? Tollerare tale sistema di vita, in nome di una presunta e inesistente differenza etnica, non nasconde un assetto ideale fortemente razzista, inequivocabilmente discriminante e profondamente ingiusto?
È patrimonio comune che esiste un minimo comune denominatore etico, sotto il quale non si può scendere. Se lo si travalica, si condanna inevitabilmente quel minore a commettere, poi, scelte devianti.
I racconti dei ragazzi che delinquono in modo serio e sistematico sono storie di vite scellerate, di famiglie in cui la violenza è il modo di comunicare abituale, esistenze nelle quali la sopraffazione è la chiave di volta dei rapporti tra i genitori e tra genitori e figli. L’anamnesi delle vite dei detenuti adulti ha una ritualità impressionante: da minorenni declaratoria di immaturità (usata con molta generosità in passato), perdono giudiziale (almeno un paio di volte), sospensione condizionale della pena. Da adulti il carcere.
Tutti con famiglie quasi sempre terribili alle spalle. Interrompere questa tragica catena ha costi sociali elevati, ma investire nel sociale forse può voler dire risparmiare sui costi inevitabili che ogni reato, specie se grave, porta con sé.
Problemi emergenti: bullismo e alcol
Esistono forme emergenti di criminalità minorile?
Il bullismo è tra le forme più preoccupanti. L’allarme sociale che sta provocando e le sue peculiarità rendono necessario considerarlo un fenomeno grave. Da più parti si è invocata una legislazione speciale, ma il dibattito è aperto e come sempre le soluzioni non sono univoche. Il termine italiano bullismo deriva dalla parola inglese bully «spaccone, gradasso». La pratica consiste nel compiere atti vessatori, odiosi e persecutori da parte di minorenni nei confronti di coetanei. La condotta è rivolta verso persone della stessa fascia di età, è fortemente intenzionale e provoca timore, smarrimento e senso di prostrazione nella vittima. È quasi sempre ripetuto nel tempo e come tale fortemente intimidatorio. La parte lesa di solito tace per lungo tempo, nasconde l’accaduto ai genitori, perché scatta in lui un profondo senso di colpa e soprattutto di inadeguatezza in quanto incapace di difendersi. Il fenomeno è in ascesa ed è diventato trasversale a tutte le classi sociali. Le vittime possono essere molto piccole, affette da handicap o semplicemente, per le loro particolari caratteristiche psicologiche, familiari o sociali, incapaci di difendersi. I soprusi possono avere le forme più diverse: piccole estorsioni di somme di denaro, ripetute nel tempo e che costringono a sottrarre il denaro in famiglia, angherie di tipo fisico, violenze sessuali; la casistica dei tribunali per i minorenni è variegata. Un dato resta costante: in gruppo si commettono reati che da soli non si avrebbe mai il coraggio di porre in essere. Il senso del limite, che ogni ragazzo ha dentro di sé, si sposta sempre più avanti.
Lo sforzo di chi tratta questi processi è duplice: rassicurare la vittima che chi ha commesso reati così odiosi verrà punito, far compiere agli autori del reato un tentativo di immedesimazione con quello che la vittima ha sofferto. Ma il limite del sistema processuale penale minorile è proprio qui. Non è possibile costituirsi parte civile nei procedimenti a carico dei minorenni e la parte lesa è a mala pena tollerata nel processo come mera presenza, non ha voce in capitolo.
Se è vero che il processo deve essere astrattamente rieducativo, e in concreto solo raramente lo è, l’immedesimazione con la vittima, il provare anche solo a immaginare di essere dall’altra parte, dovrebbe costituire uno dei cardini della rieducazione. Questo non sempre accade. Non si tratta di riconciliare vittima e colpevole, ma di responsabilizzare l’autore facendogli capire e sentire il male inferto a un altro.
Un altro problema emergente è quello dell’uso sconsiderato di sostanze alcoliche, che affligge l’universo giovanile.
Oltre agli ovvi danni alla salute, vi sono fattispecie penali, quali i reati commessi in stato di alterazione da stupefacenti e alcol, che sono diventati addirittura di routine nella vita dei tribunali per i minorenni. La cultura dello sballo del sabato sera è talmente diffusa da essere tollerata e accettata dagli stessi genitori, con conseguenze gravi sul piano sociale. Si pensi solo alle morti negli incidenti stradali, per guida in stato di ebbrezza. A tale problema le risposte devono essere pene severissime, campagne di informazione efficaci ( rivolte a ragazzi e genitori (, controlli seri fuori dalle discoteche da parte delle forze dell’ordine.
Modelli in crisi
Vi è poi un nuovo problema legato al mondo delle ragazze, un tempo lontanissime da condotte devianti. Premesso che l’uso e l’abuso di alcol e sostanze riguarda anche loro, si assiste da anni a una progressiva assimilazione di comportamenti trasgressivi e violenti, una volta propri solo dei maschi. Non è infatti infrequente imbattersi in ragazze che partecipano a pieno titolo a episodi di bullismo, anche molto gravi.
Ragazze che ricorrono all’uso della forza fisica per vendicare uno sgarbo o il ‘furto’ di un ragazzo da parte di un’altra o in risposta a uno sguardo mal interpretato. Ragazze che considerano il ricorso alla violenza come un’emancipazione dal tradizionale ruolo femminile e uno strumento di parificazione con i maschi. Ragazze però che, come i maschi, responsabili degli stessi reati, hanno quasi sempre vite dure e genitori inesistenti alle spalle. Se è vero che esiste il libero arbitrio, è altrettanto vero che ci sono giovanissime esistenze in cui solo uno straordinario sforzo di intelligenza e consapevolezza farà evitare un destino segnato. C’è alla base un grosso problema educativo, legato al rapporto genitore-figli. Il principio di autorità è stato, giustamente o ingiustamente, minato alla base dall’evolversi della nostra società; in questo modo è però venuto meno per questi ragazzi il principio di autorevolezza delle figure di riferimento, che è il cardine su cui si fonda la crescita.
Se è vero che si cresce ribellandosi ai genitori (tutti lo abbiamo fatto), è il ‘tasso’ di ribellione verso le regole che va valutato e dosato.
È soprattutto la figura del padre che è entrata in crisi. Mentre le donne, dopo i lunghi anni delle conquiste femminili, hanno trovato un ruolo diverso nella società e in famiglia, gli uomini non lo hanno trovato (almeno i padri dei ragazzi difficili).
Per gli utenti dei tribunali per i minorenni (soprattutto per il settore penale) ben difficilmente i padri sono figure esemplari da amare e soprattutto da ammirare per il loro percorso di vita, piuttosto nel migliore dei casi sono uomini da compatire. Mai e poi mai un esempio da seguire.
Cani perduti senza collare è il titolo di un bellissimo libro di Gilbert Cesbron, pubblicato nel 1954, sui ragazzi difficili, dimenticati, abbandonati, trascurati.
Sta a noi adulti, a noi istituzioni, a noi società civile, ritrovarli e rimetterglielo, quel collare.
Il trattamento penale dei minori
di Paolo Ravaglioli
Elementi di specialità del diritto minorile all’interno di un ordinamento generale possono essere rinvenuti fino dal diritto romano arcaico: già la legge delle XII tavole, infatti, prevedeva per gli impuberi che si fossero resi colpevoli di furto pene più lievi di quelle riservate agli adulti. Il criterio in base al quale veniva accertata l’imputabilità era infatti quello della pubertà, ritenendosi che allo sviluppo fisico corrispondesse quello psichico e quindi la capacità di discernimento dell’illecito.
Fino a tutto il 19° secolo la caratteristica di una repressione meno incisiva continuò a costituire l’unico tratto distintivo della risposta penale ai delitti commessi da soggetti in età ancora non adulta. Il Codice penale Zanardelli (1889), per esempio, che fissava la maggiore età al compimento del ventunesimo anno, distingueva la minore età in quattro periodi, a ciascuno dei quali era collegata una diversa attenuazione delle sanzioni: fino ai 9 anni vigeva un regime assoluto di non imputabilità, che tuttavia non precludeva la possibile collocazione in un istituto di rieducazione e correzione; tra i 9 e i 14 anni era attribuito al giudice il compito di accertare se il ragazzo avesse agito con coscienza dell’illecito e, nel caso, infliggergli una sanzione notevolmente ridotta rispetto all’entità della pena prevista per gli adulti; dai 14 ai 18 il minore era ritenuto imputabile, ma le sanzioni erano ancora considerevolmente mitigate, mentre per i soggetti di età compresa tra i 18 e i 21 anni le diminuzioni erano ancora previste, ma in minor misura.
Nel 1899, in seguito a numerosi studi sociologici incentrati sulla necessità che al minore delinquente fosse garantita una maggiore possibilità di reinserimento nel tessuto sociale, attraverso un’opera sia di prevenzione sia di recupero, si giunse all’istituzione negli Stati Uniti del primo tribunale per minorenni, la juvenile court di Chicago, un’innovazione che venne recepita nei primi decenni del secolo seguente dai principali ordinamenti giuridici europei.
In Italia il primo intervento in tal senso è costituito da una circolare inviata l’11 maggio 1908 dal ministro della Giustizia Vittorio Emanuele Orlando, contenente una serie di raccomandazioni alla magistratura affinché le cause dei minorenni fossero trattate da giudici con competenze specifiche, che permettessero loro di tener conto, nell’emissione del giudizio, anche di elementi quali le condizioni di vita del ragazzo e i mezzi eventualmente adoperabili per redimerlo.
Successivamente, dopo il fallimento dei progetti di legge Quarta (1912), Ferri (1921) e Ollandini (1922), con la riforma organica operata nel campo penale dal Guardasigilli Alfredo Rocco anche il settore della giustizia minorile trovò una disciplina unitaria. Ciò avvenne, innanzi tutto, grazie alle innovazioni approntate dal codice penale del 1931, nel quale si previde: l’innalzamento dell’età imputabile da 9 a 14 anni e l’attribuzione al giudice del potere di stabilire caso per caso, attraverso specifiche indagini, la capacità di intendere e di volere dell’imputato; l’introduzione dell’istituto del perdono giudiziale, che consentiva al giudice in taluni casi di non applicare la pena, e di quello del riformatorio giudiziario, una speciale misura di sicurezza con finalità educative; la previsione di stabilimenti carcerari destinati esclusivamente ai minori; la concessione di una particolare attenuante, giustificata esclusivamente dalla minore età.
Nel campo processuale, fondamentale importanza riveste il r.d.l. 20 luglio 1934, nr. 1404,con il quale si istituiva un Tribunale per i minorenni presso ogni sede della Corte d’Appello o sezione della Corte d’Appello. Se, da un punto di vista procedimentale, il processo dei minori non si discostava sensibilmente dal rito previsto per gli adulti, elementi peculiari erano costituiti dalla composizione della corte, all’interno della quale doveva sedere accanto a due magistrati ordinari un «cittadino benemerito dell’assistenza sociale», e dall’obbligo per il pubblico ministero e per i giudici di determinare, in qualsiasi tipo di procedimento riguardante un minore, la personalità dello stesso e le cause della sua irregolare condotta, attraverso specifiche ricerche tendenti ad accertare i precedenti personali e familiari dell’imputato, sotto l’aspetto fisico, psichico, morale e ambientale. Veniva inoltre assicurata una speciale assistenza al minore sottoposto a procedimento penale, sia da parte dei congiunti prossimi o dei loro rappresentanti legali, sia da parte degli enti assistenziali appositamente predisposti, ed era altresì evitata qualsiasi pubblicità del processo. Norme particolari erano poi previste in relazione alla concessione del perdono giudiziale, della sospensione condizionale della pena, della liberazione condizionale, della libertà vigilata e della riabilitazione. Un gravissimo limite alla giurisdizione specializzata minorile era però costituito dall’eccezione posta dall’art. 9 r.d.l. 1404/1934, che sottraeva al Tribunale per i minorenni, per ragioni di economia processuale, la competenza a giudicare il minore quando nel procedimento vi fossero coimputati maggiori degli anni 18, a meno che il procuratore generale presso la Corte d’Appello «con suo provvedimento insindacabile», non avesse deliberato che a carico dei coimputati maggiori degli anni 18 si procedesse separatamente.
L’introduzione della Carta costituzionale nel 1948, che nella materia in questione si limita a imporre alla Repubblica l’obbligo di proteggere la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo, non comportò uno sviluppo rispetto al sistema delineato dal legislatore degli anni 1930. La situazione restò sostanzialmente immutata anche nei decenni successivi, se si eccettuano le modifiche introdotte dalla l. 25 luglio 1956, nr. 888, che aumentò il numero dei membri privati del Tribunale per minorenni, ponendo come condizione necessaria per la corretta formazione dell’organo collegiale la presenza di almeno un componente di sesso femminile. Importante fu anche il contributo dato da alcune pronunce della Consulta, come la sentenza nr. 222 del 18 luglio 1983 con la quale si dichiarò l’illegittimità costituzionale del citato art. 9 r.d.l. 1404/1934.
Punto di approdo della crescente esigenza di riforma del processo minorile, avvertita in parallelo all’emergere della necessità di un nuovo codice di rito per gli adulti sin dall’inizio degli anni 1970, è costituito dalla legge delega 16 febbraio 1987 nr. 81, che all’art. 3 prevedeva la disciplina del processo a carico di imputati minorenni al momento della commissione del reato. La delega fu attuata con il d.p.R. 22 settembre 1988 nr. 488, recante «Disposizioni sul processo penale a carico di minorenni», integrato dal d.p.R. 22 settembre 1988 nr. 449, relativo all’adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo processo penale e a quello minorile, e dal d.lgs. 28 luglio 1989 nr. 272 per le norme di attuazione, di coordinamento e transitorie.
La soluzione adottata, sostanzialmente in linea con le esperienze degli altri ordinamenti europei, trae elementi da entrambi gli orientamenti filosofici ‘classici’ in materia: il modello assistenziale (welfare model) e quello giudiziario (justice model). Il primo è caratterizzato da un ampio potere di decisione discrezionale del giudice minorile o di altri organi (assistenti sociali, psicologi ecc.), da sanzioni temporali tendenzialmente indeterminate, il cui termine dipende da una valutazione del successo del processo educativo, e da procedure informali senza garanzie procedurali particolarmente estese. L’altro, invece, tende a prendere in considerazione unicamente i comportamenti criminali, attraverso un procedimento che contempla le stesse garanzie del processo per adulti, con il conferimento dell’intero potere decisorio a un giudice, comunque adeguatamente qualificato.
Più nello specifico, fra le innovazioni introdotte dal d.p.R. 488/88 rivestono in primo luogo particolare interesse le disposizioni previste a tutela della personalità dell’imputato, aventi lo scopo di evitare che il minore tragga turbamento dalle asprezze insite nel processo penale, ma che al contrario, attraverso la partecipazione a esso, possa sviluppare positivamente la sua personalità. Tra tali disposti spicca l’art. 1, che al comma 1 prevede che tutte le disposizioni regolanti il procedimento minorile debbano essere applicate «in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del minorenne», mentre al comma 2 impone al giudice di illustrare all’imputato il significato degli atti processuali che si compiono in sua presenza e le ragioni anche etico-sociali delle decisioni adottate. Come già nel sistema precedente, continua a essere assicurata l’assistenza in ogni stato e grado del procedimento, oltre che del difensore, anche dei genitori e dei servizi minorili.
Importanza basilare va poi attribuita alle norme che disciplinano l’accertamento dell’età dell’imputato al momento della commissione del reato, in quanto il non aver compiuto a quella data il quattordicesimo anno impone il proscioglimento per non imputabilità, mentre per la fascia compresa tra i 14 e i 18 anni è necessario accertare la sussistenza della capacità di intendere e volere. L’art. 8, perciò, impone al giudice come primo compito di appurare l’età dell’imputato minorenne, all’occorrenza avvalendosi di una perizia, e ciò anche se vi sia ragione di ritenere che abbia meno di 14 anni. Se dovesse permanere l’incertezza malgrado gli esami peritali, la minore età deve presumersi a ogni effetto. In ogni caso pubblico ministero e giudice devono acquisire elementi sulle condizioni e sulle risorse personali, sociali e ambientali dell’imputato, al fine di evidenziarne l’imputabilità e il grado di responsabilità, con una esplicita deroga agli art. 194 e 220 c.p.p., che vietano le testimonianze sulla moralità dell’imputato «salvo che si tratti di fatti specifici» ed escludono le perizie psicologiche e criminologiche nel corso del procedimento di cognizione.
L’importanza rivestita nel processo minorile dalla personalità e dalle esigenze di educazione dell’imputato traspare anche dagli istituti che prevedono l’intervento penale senza la condanna. Il primo di essi è rappresentato dalla sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, che si applica quando il giudice ravvisi da un punto di vista oggettivo un’offesa di modesta entità, mentre sul crinale soggettivo effettui un giudizio prognostico favorevole quanto alla non reiterazione del reato, avendo riguardo anche al pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento potrebbe comportare alle esigenze educative.
Il secondo istituto è costituito dal perdono giudiziale, una causa di estinzione del reato configurata, come si è detto, già dal r.d. 1404/34, che può essere discrezionalmente applicata nei confronti del minore che non sia già stato condannato a una pena detentiva per delitto e che abbia commesso un reato per il quale non sia prevista una pena restrittiva della libertà personale superiore ai due anni.
Al giudice è data altresì la facoltà di sospendere il processo «quando ritiene di dover valutare la personalità del minorenne» in base all’esito di una prova. A tal proposito affida l’imputato ai servizi minorili per le opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno, ed eventualmente gli impartisce prescrizioni idonee a riparare le conseguenze del reato e promuovere la sua conciliazione con la persona offesa (art. 28 e 29). Mentre è in atto la sospensione, che può avere una durata massima di tre anni, la minaccia della pena dovrebbe costituire un incentivo ulteriore alla risocializzazione di un soggetto nei confronti del quale non è stato possibile pronunciare il perdono giudiziale, a causa del permanere dei dubbi sulle prospettive di reiterazione del reato. All’esaurirsi del periodo previsto, se la prova ha avuto esito positivo il reato viene dichiarato estinto, mentre nel caso contrario il processo riprende regolarmente, essendo stato sospeso anche il decorso dei termini prescrizionali.
La tutela della personalità del minore emerge anche dall’analisi della limitazione dei casi in cui la sua libertà personale può essere soggetta a restrizioni. L’arresto in flagranza, infatti, non è mai obbligatorio, ma rimesso alla discrezionalità degli organi di polizia, che devono tenere conto della gravità del fatto, dell’età e delle condizioni del reo, il quale oltretutto deve essere colto nella commissione di un illecito punito con la reclusione non inferiore nel massimo a nove anni. Per i delitti di minore gravità, invece, agli agenti è concesso soltanto l’accompagnamento nei propri uffici, con la possibilità di trattenere il giovane per un massimo di 12 ore al fine di riconsegnarlo a chi esercita la potestà di genitore, che lo riceve in consegna con l’obbligo di tenerlo a disposizione del pubblico ministero.
Peculiarità emergono altresì dal regime delle misure cautelari personali applicabili nel procedimento minorile, che sono previste dagli art. 20, 21 e 22. Il giudice ha la facoltà di impartire al soggetto «specifiche prescrizioni inerenti alle attività di studio o di lavoro ovvero ad altre attività utili per sua educazione», di disporne la permanenza in casa o in una comunità, con l’eventuale concessione di allontanarsi sempre per esigenze di studio o di lavoro, e, soltanto in caso di ripetute violazioni delle misure prescritte, può imporne la custodia cautelare per un tempo eccedente il mese.
Per quanto riguarda gli organi deputati alla decisione, il d.p.R. 488/88 conferma la soluzione adottata dal legislatore del 1956, configurando una corte formata da due magistrati ordinari e due giudici onorari, un uomo e una donna, esperti di pedagogia, psichiatria o antropologia criminale. Viene in tal modo recepito il disposto dell’art. 102 comma 2 Cost., in cui si prevede la partecipazione al giudizio di cittadini idonei estranei alla magistratura.
Nel suo complesso il sistema di diritto penale minorile italiano trova nel diritto sovrannazionale una fonte di estrema importanza.
Tra gli atti internazionali che costituiscono fonti di indirizzo primario si devono in primo luogo citare le Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile (cosiddette Regole di Pechino del 1985) e la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo (1989), adottate in sede ONU. Tali documenti, incentrati sul principio cardine del diritto del minore a rimanere minore e a essere trattato come tale anche quando è autore di reato, impongono ai legislatori nazionali l’adozione di alcune misure, tali da permettere la configurazione di un sistema penale minorile non soltanto punitivo e retributivo, ma che preveda l’utilizzo di strumenti ispirati a una logica responsabilizzante ed educativa, in una prospettiva che tuttavia, allo stesso tempo, non si abbandoni al criterio del mero perdono e della clemenza gratuita. Per permettere la realizzazione di tale previsione è, tra l’altro, necessaria la predisposizione di un sistema ove venga reso effettivo il diritto del minore a essere giudicato e assistito da un giudice e da personale (avvocato, servizi sociali) specializzati, specializzazione che deve riguardare anche gli organi investigativi: ciò accade, in Italia, con la costituzione di sezioni di polizia giudiziaria presso le Procure per i minorenni e dell’Ufficio minori presso ogni Questura, i quali operano per rispondere alla domanda di prevenzione, sicurezza e repressione nei settori connessi alle problematiche della delinquenza minorile, dell’evasione scolastica, della devianza, dei reati degli abusi in danno dei minori.
Anche il diritto europeo ha fortemente contribuito a influenzare la disciplina interna in materia, attraverso la predisposizione da parte del Consiglio d’Europa di alcuni atti di indirizzo. Il primo di essi è rappresentato dalla Raccomandazione R(1987)20 sulle risposte sociali alla delinquenza minorile (Strasburgo, 17 settembre 1987), in cui si fa riferimento all’impegno da parte degli Stati membri di prevenire il disadattamento e la delinquenza minorile, grazie sia a una politica globale che favorisca l’inserimento sociale dei giovani, sia attraverso programmi specializzati a livello scolastico o di organizzazioni giovanili, sia con misure di prevenzione destinate a ridurre le occasioni offerte ai giovani di commettere delle infrazioni. Il sistema penale minorile deve privilegiare forme di diversion (degiurisdizionalizzazione), evitando il ricorso alla custodia cautelare dei minorenni, tranne per reati molto gravi commessi dai minori più grandi di età, e incrementando le misure alternative alla detenzione che meglio tutelino l’inserimento sociale, soprattutto a livello di formazione scolastica e professionale.
Successivamente, il Consiglio d’Europa è tornato sulle medesime tematiche con la Raccomandazione R(2003)20 sulle nuove modalità di trattamento della delinquenza giovanile e sul ruolo della giustizia minorile. In tale atto, che tiene conto dei positivi risultati ottenuti grazie alle strategie di diversion indicate dalla precedente Raccomandazione, vengono fissati i tre fini primari che gli ordinamenti di giustizia minorile degli Stati membri devono perseguire: la prevenzione della criminalità, in special modo quella recidiva; la risocializzazione e il reinserimento dei rei; la considerazione delle esigenze e degli interessi delle vittime, soprattutto attraverso l’utilizzo dello strumento della mediazione.
Tali atti di indirizzo hanno sicuramente inciso sulle strategie adottate dai legislatori nazionali, al punto che è possibile parlare di una «filosofia europea del diritto minorile» (F. Dünkel, in Giustizia minore?, 2004), risultante dal recepimento dei principi contenuti nelle Raccomandazioni. Ciò non significa che si sia giunti a una completa armonizzazione del diritto in materia, come emerge per esempio dalla comparazione delle età di responsabilizzazione penale, fissata a 10 anni in Inghilterra, 13 in Francia, 14 in Germania, Spagna, Italia, Austria e in molti Stati dell’Europa orientale e 15 nei Paesi scandinavi. È possibile, tuttavia, mettere in luce come tutti i sistemi di diritto penale minorile vedano la compresenza di elementi del modello assistenziale e di quello giudiziale, tali da evidenziare una convergenza dei sistemi stessi, riconoscibile nonostante la presenza di caratteristiche proprie di ciascun ordinamento.
Nel diritto francese la riforma introdotta nel 2002 ha insistito sui tre principi fondanti che lo avevano già in precedenza informato: il primato dell’educazione sulla repressione; la specializzazione dell’organo chiamato a conoscere degli illeciti commessi da minori; la considerazione dell’età minore come circostanza attenuante. Si applicano misure educative ai minori tra i 10 e i 18 anni, che costituiscono uno strumento più lieve rispetto alle sanzioni educative, inflitte ai soggetti tra i 10 e i 13 anni già sottoposti a infruttuose misure educative, e alle sanzioni penali, ossia le stesse pene detentive comminate ai maggiorenni, diminuite però della metà, che possono essere adottate nei confronti di ragazzi tra i 13 e i 18 anni.
Nel Regno Unito, invece, il susseguirsi di numerosi fatti di cronaca con protagonisti criminali minorenni ha indotto il legislatore all’introduzione di una serie di successive riforme, con le quali si è configurato un ventaglio di soluzioni adattabili e graduabili, per tentare di rispondere all’estrema varietà di situazioni concrete. Sono previste misure preventive, applicate dagli organi di polizia, e condanne privative della libertà personale, inflitte dall’autorità giudiziaria. Queste ultime possono consistere, in ordine decrescente di intensità, nella detenzione a tempo indeterminato, per minori dai 10 ai 18 anni; nella detenzione in istituto per giovani criminali, per la durata massima della pena comminata per i maggiorenni per lo stesso reato; nell’ordine di detenzione ed educazione, in cui la custodia è alternata alla libertà vigilata; in molte altre misure non detentive, il cui catalogo è in costante aggiornamento. L’opera rieducativa può anche essere affidata a privati, gestori di Secure training centers.
Per quanto riguarda il diritto spagnolo, l’elemento che lo contraddistingue maggiormente è costituito dell’assoggettamento dell’azione penale nei confronti di minori al principio di opportunità, che consente al giudice una valutazione discrezionale in ordine all’esercizio dell’azione stessa, ma soltanto in relazione ai reati meno gravi. Altra peculiarità sta nel fatto che, nonostante l’età minima di imputabilità sia fissata in 14 anni, ai minori di 14 anni sono comunque applicabili diverse misure, tra le quali il ricovero in istituzione chiusa, per un massimo di cinque anni.
Il sistema tedesco, riformato nel 1990 con l’introduzione del nuovo Jugendgerichtsgesetz (JGG), è quello che maggiormente si accosta al modello italiano. Esso, infatti, oltre a garantire la competenza inderogabile del giudice minorile, prevede che l’imputabilità, stabilita al quattordicesimo anno di età, sia condizionata dalla maturità nel periodo tra i 14 e i 18. Tale sistema prevede inoltre la prevalenza dell’idea educativa sugli aspetti meramente punitivi, con la funzione residuale attribuita alla pena detentiva e la configurazione di sanzioni alternative, consistenti in prescrizioni a carattere educativo che possono essere impartite dal giudice al minorenne autore di reato. Tra di esse, accanto a misure più tradizionali come l’obbligo di dimora, di prestare un’attività lavorativa o di sottoporsi a programmi terapeutici o riabilitativi, assume una particolare valenza la mediazione con la vittima dell’illecito. In tale ottica è disciplinata la possibilità che il soggetto venga condannato alla riparazione del danno secondo le proprie capacità, alla prestazione personale di scuse, o alla corresponsione di una somma di denaro a favore di un istituto di pubblica utilità. A detta misura si ricorre quando la vittima non sia disposta a ricevere l’offerta di riparazione o quando l’offesa sia stata indirizzata a una pluralità indistinta di destinatari. Nel 2010 sono entrati nello strumentario della giustizia minorile tedesca romanzi selezionati con criteri inerenti il reato, che il minore condannato ha obbligo di leggere entro un certo numero di giorni, discutendone quotidianamente il contenuto con un assistente sociale e presentando per iscritto al termine della lettura le sue riflessioni al giudice.
Il sistema delineato dal diritto tedesco costituisce il principale modello di riferimento adottato dai legislatori dei paesi dell’Europa orientale, tra i quali è ormai diffusa la tendenza a uniformare il diritto minorile agli standard indicati dagli atti di indirizzo adottati dall’Unione Europea e dalle Nazioni Unite, sostituendo le obsolete previsioni di influenza sovietica. Sebbene dal JGG siano tramutate le diverse sanzioni alternative, è tuttavia da sottolineare come stenti spesso a scomparire la previsione di rigorose misure di carattere detentivo, al fine di intimidire gli autori di reati particolarmente violenti o i recidivi.
Volgendo infine lo sguardo ai più recenti sviluppi legislativi, è da registrare la novità consistente nel rendere penalmente responsabili dei delitti commessi da minori eventualmente anche i genitori. In quest’ottica si inquadra sia la parenting order inglese, con la quale i genitori, nel caso di mancata sorveglianza, vengono puniti con sanzioni di carattere pecuniario o consistenti nell’obbligo di partecipare a corsi formativi, sia la previsione adottata in Francia di non concedere l’assegno familiare in caso ricovero del minore in un istituto giudiziario.
Riferimenti bibliografici
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