Delirio
Il termine delirio, dal latino delirare, "uscire dal solco (lira)", indica uno stato di alterazione psichica, riscontrabile in diverse psicopatie, consistente nell'attribuzione acritica di significati abnormi e privi di ogni nesso con la realtà a percezioni sensoriali, ricordi e idee. Propria delle esperienze deliranti è la loro incorreggibilità, attribuibile a una profonda trasformazione della psiche e della personalità del malato, che imprime a questi fenomeni una tale evidenza di certezza da renderli impermeabili a qualsiasi critica e persuasione contraria.
di Eugenio Borgna
l. Cenni definitori
Non è possibile analizzare e descrivere cosa sia il delirio nella sua 'significazione' psicopatologica e clinica se non muovendo dalla soggettività, cioè dall'interiorità dei pazienti. Non ci sono criteri obiettivi che, dall'esterno e sulla base di modelli di comportamento, ci consentano di constatare la presenza di un delirio. Solo criteri soggettivi, che si servano dell'intuizione e dell'immedesimazione nell'interiorità dei pazienti e che muovano dunque dall'interno della loro vita psichica, permettono di cogliere la presenza, e la realtà, di un'esperienza delirante nel contesto di una forma di esistenza psicopatologica. Il delirio non è altro che una distorta forma di esperienza: una modalità abnorme di vivere le realtà umane che ci circondano.
Che cosa accade nella vita psichica (nella vita interiore) di una persona che deliri, che abbia esperienze deliranti, e come si svolge in essa il modo di mettersi in relazione con gli altri? Come si differenziano le forme deliranti di esperienza da quelle che non sono deliranti e che rientrano invece nelle forme abituali e normali di esperienza? Appare chiaro che non è possibile cogliere la dimensione profonda e radicale del delirio, distinguendolo dalle altre modalità di fare esperienza del mondo (del mondo delle persone e del mondo delle cose), se non scendiamo negli abissi delle soggettività, della nostra soggettività e della soggettività dei pazienti, e se non rinunciamo a ogni atteggiamento di distacco e di fredda neutralità nei loro confronti.
2.
Per quanto riguarda le forme cliniche in cui si possono manifestare esperienze deliranti, si può dire preliminarmente che non ci sono deliri in quelle forme cliniche chiamate nevrotiche e che sono costituite dalle nevrosi depressive, dalle nevrosi ossessive, dalle nevrosi isteriche, mentre deliri sono presenti paradigmaticamente tanto nelle schizofrenie quanto nelle depressioni (v.) psicotiche: le une e le altre costituiscono l'area delle psicosi endogene, che vengono così chiamate perché, almeno allo stato attuale delle conoscenze, esse non si correlano nella loro insorgenza con fattori esterni alla personalità.
I deliri che si osservano nel gruppo nucleare delle depressioni psicotiche sono contrassegnati (a differenza di quelli che si hanno nelle schizofrenie) da tre sole tematiche: quella della colpa, che può essere colpa morale, colpa di omissione o colpa esistenziale, quella della rovina economica (i pazienti delirano di essere sul lastrico, senza che ci siano ragioni obiettive per un tale giudizio) e, infine, quella della malattia (i pazienti delirano di essere portatori di una malattia somatica molto grave e inguaribile, di una malattia mortale, senza essere ovviamente nemmeno sfiorati dal dubbio sulla reale consistenza della loro malattia).
Quando le depressioni assumono queste dimensioni deliranti, i pazienti perdono ogni contatto con la realtà e si chiudono in una solitudine radicale e profonda, di tipo autistico, ancora più radicale e profonda che non nelle schizofrenie, nelle quali i deliri hanno tematiche mutevoli e cangianti, ancorate nelle loro espressioni alla storia della vita di ogni singolo paziente. Non è solamente la qualità dei contenuti e dei temi a contrassegnare e a differenziare i deliri che si hanno nelle depressioni e i deliri che si osservano nelle schizofrenie.
Un'altra differenza sta nel fatto che nei deliri depressivi si ha a che fare con esperienze che riguardano la soggettività dei pazienti: la colpa (delirante) è la 'mia' colpa, la malattia, che porto in me (nel mio corpo), non sono gli altri ad averla procurata, così come non sono gli altri ad aver causato la mia catastrofe economica, la mia improvvisa e definitiva povertà.
Quando la colpa (delirante), o la povertà, o la malattia del corpo vengono attribuite agli altri, non siamo più nel campo delle depressioni deliranti, ma slittiamo in quello delle schizofrenie. In queste, infatti, il delirio nasce e si sviluppa nel contesto delle relazioni che ci legano agli altri, dell'intersoggettività, e nel contesto delle relazioni che ci legano al mondo delle cose.
Tutto questo spiega come la sintomatologia delirante nelle schizofrenie sia contrassegnata dal cambiamento della fisionomia del mondo e del paesaggio, dalla trasformazione dei significati che si colgono nelle situazioni e nei comportamenti degli altri, dalla fatale tendenza ad attribuire agli altri gesti e parole, atteggiamenti e pensieri, che esprimano ostilità e aggressività nei propri confronti, dalla spinta inarrestabile e incontrollabile all'autoreferenzialità: a riferire a sé eventi e fatti, anche i più banali, in una spirale di interpretazioni (patologiche) senza fine.
3.
Il discorso sul delirio non può non confrontarsi fino in fondo con i suoi modi di delinearsi e di tematizzarsi nelle schizofrenie. I temi e i contenuti del delirio sono molteplici, ma non ha molto senso indicarli e descriverli analiticamente; quello che costituisce il delirio nella sua essenza è il modo in cui le cose sono vissute e sono interpretate, un modo che non consente cambiamenti e non ammette modificazioni e correzioni.
Quando si è nel mondo del delirio, cioè, non è possibile mutare il proprio punto di vista sulle persone e sulle situazioni: si è irrigiditi e immersi in un solo modo che è quello dell'autoriferimento e non è possibile nessuna svolta copernicana nella valutazione delle cose. Non è possibile, ancora, ammettere i propri errori o riconoscere la buona fede degli altri e la casualità degli avvenimenti umani, o ammettere la molteplicità dei significati che si nascondono nelle situazioni e nelle azioni umane: ogni cosa ha un solo senso e una sola direzione, che si indirizzano alla propria persona. Si ha, in questi casi emblematici di ogni radicale forma di delirio, un'esperienza psicopatologica particolare chiamata da K. Conrad (1966) esperienza 'anastrofeica', parola di origine greca che significa inversione (rivolgimento) e indica l'impossibilità di ogni cambiamento di punti di vista e la fatale tendenza all'autoriferimento, all'autoreferenzialità.
Nelle diverse articolazioni tematiche e contenutistiche del delirio, in quelle contrassegnate dalla persecuzione, dalla gelosia, dall'amore, dal nocumento, dall'espansione vitale e dall'onnipotenza, si coglie come loro struttura portante, come 'essenza', proprio questa impossibilità a entrare in relazione dialettica con gli altri e con le opinioni degli altri. Se da un piano teorico passiamo a un piano pratico e clinico, cogliamo meglio il senso delle cose finora illustrate.
Facciamo, a questo proposito, un esempio molto semplice e comune, ma decisivo in ordine alla comprensione del senso del delirio: due persone si vedono da lontano, si avvicinano e si sorridono. Come si trasforma un evento di questa natura nella coscienza delirante di un paziente? Un paziente che assista a quanto abbiamo descritto si sente immediatamente osservato e interpreta i gesti e il sorriso delle due persone come se si riferissero a lui. Quando le due persone si salutano e si stringono la mano, mettendosi in contatto corporeo anche se convenzionale, il paziente può contemporaneamente rivivere nel proprio corpo e sul proprio corpo questo contatto. Questa è l'esperienza delirante di autoriferimento più radicale e più paradigmatica nel contesto di quella forma psicotica par excellence che è l'esperienza schizofrenica, nella quale il delirio è presente con assoluta costanza, benché con tematiche e con accentuazioni diverse.
Le cose, tuttavia, non si fermano a questo punto: se l'esperienza schizofrenica si approfondisce e si aggrava, la sintomatologia delirante assume dimensioni e significati ancora più sconvolgenti. Continuando con l'esempio ora indicato può accadere infatti che un paziente, delirando, non colga più la presenza di due persone che si incontrano, si salutano, si sorridono e si stringono la mano, ma avverta la presenza di due figure anonime ed estranee, private di connotazioni umane e interpersonali e trasformate in figure mascherate e non più viventi. Cosa accade allora nella soggettività (nella vita interiore) di un paziente che giunge a trasformare il significato della realtà e delle situazioni, non riconosce di sbagliarsi e non ammette alcun dubbio sul fatto che le cose stiano così come egli le interpreta?
Questa è davvero la struttura costitutiva di ogni esperienza delirante, al di là dei diversi temi e contenuti: in ogni esperienza delirante si realizza, cioè, una radicale metamorfosi del campo dei significati. Le fondazioni psicopatologiche del delirio e le loro radici psicologiche ed esistenziali nascono proprio nel momento in cui K. Jaspers (1913) ancorava la natura, l'essenza, del delirio alla presenza di una profonda metamorfosi della coscienza dei significati, colti non più nell'area semantica comune e quotidiana, ma in un'area semantica del tutto nuova e inconfrontabile con ogni altra.
Sulla scia di tale definizione e nel contesto di studi originali, H.W. Gruhle (1953) ha nuovamente sottolineato un'analoga definizione di delirio, affermando che questo si realizza in un'"impostazione immotivata di relazioni" e cioè nel mettere in relazione senza alcun motivo eventi del tutto o almeno in parte estranei e indifferenti gli uni agli altri. Non c'è altra definizione di delirio che riesca a cogliere e a indicare la ragione ultima, psicopatologica ed esistenziale, delle esperienze deliranti. Certamente, la metamorfosi abnorme dei significati e l'impostazione immotivata di relazioni alludono sempre all'Io, alla persona, del paziente.
Si inserisce nel solco di questa formulazione teorica la riflessione di E. Minkowski, che al tema del delirio e delle sue metamorfosi ha dedicato testi fondamentali (1936, 1953, 1966, 1968): le esperienze deliranti sono caratterizzate dal fatto che in esse si dissolve in maniera più o meno completa il fattore del caso, della contingenza e dell'evenienza fortuita, nel contesto di una smisurata estensione del campo dei significati. Le cose, le persone e le situazioni perdono il loro significato abituale e la loro abituale concretezza e soccombono a un'anarchia, a un'estensione generalizzata dei significati e delle interpretazioni, e si realizza così quello che Minkowski definisce un delirio di interpretazione 'universale' come sorgente di ogni esperienza delirante. Ricorrendo a un esempio, semplice e immediato nel suo valore emblematico, Minkowski sottolinea come questo attribuire significati abnormi alle situazioni più diverse e inafferrabili costituisca davvero il sigillo di ogni delirio: nella vita di ogni giorno noi incontriamo una folla di passanti, che, come tali, non fanno altro che passare; ma se uno di noi si ponesse improvvisamente il problema di sapere perché, in questo preciso momento, un passante si abbia a trovare sul suo cammino, ecco che rischierebbe di cadere in un iniziale delirio di persecuzione e di interpretazione. Il passante perderebbe immediatamente la sua figura di passante e rientrerebbe nel circolo di una figura e di una realtà di aggressione e di persecuzione.
In ogni esperienza delirante, dunque, il reale assume improvvisamente un altro senso e un'altra profondità: nuovi sentieri si aprono nel mondo delle percezioni e si viene configurando una nuova identità personale. La coscienza di una realtà diversa da quella che abbiamo abitualmente di fronte a noi non è, in fondo, altro che la coscienza che nel reale i significati si trasformano vertiginosamente, e una nuova logica delle identità e delle analogie si viene sviluppando. Nella modificazione del campo dei significati si coglie la ragione psicopatologica decisiva in ordine tanto all'interpretazione quanto alla comprensione del delirio, il cui senso non si destituisce della sua oscura enigmaticità, ma lascia intravedere, nel contesto delle considerazioni che abbiamo finora articolato, una possibilità e una traccia di decifrazione ermeneutica. Allo stato attuale delle conoscenze psichiatriche non è possibile sapere perché in una determinata condizione vitale si giunga alla nascita e alla formazione di un'esperienza delirante nel contesto di una forma di esistenza schizofrenica o depressiva. La sola cosa a cui sia possibile avvicinarsi nel discorso sulle premesse del delirio è ricercare e studiare come si possa costituire un'esperienza delirante; a questo proposito, come dimostra in particolare il caso di Suzanne Urban descritto da L. Binswanger (1957), l'angoscia costituisce, almeno in alcune emblematiche situazioni cliniche, il battistrada e l'elemento essenziale nella genesi del delirio. Certamente, come ha scritto K. Schneider (1952), il delirio (quello nella schizofrenia, ma anche quello nella depressione psicotica) non è solo un problema psicopatologico e clinico, è anche un problema antropologico e, al limite, metafisico.
di Bruno Callieri
Il delirio è un problema prettamente psicopatologico, che concerne ampia parte della psichiatria. In passato veniva definito come un'alterazione dell'interpretazione della realtà, un disturbo del pensiero, un incorreggibile errore di giudizio.
Oggi si ritiene piuttosto che le esperienze deliranti vadano intese più come un peculiare modo del 'credere', che non come un'immediata evidenza verificatasi con il carattere di una sensazione o derivata da particolari turbamenti emotivi o affettivi o da deficit intellettivi o di informazione (pur esistendo in alcuni casi queste possibilità).
Le esperienze deliranti elementari, quelle che corrispondono al primo delinearsi del delirio nell'orizzonte mentale del soggetto, sono rappresentate dall'attribuzione di un significato abnorme a una percezione 'normale' (la cosiddetta percezione delirante di K. Schneider; v. sopra), oppure dalla scoperta di un significato o di un'intenzione diversa da quelli abituali.
La 'certezza' del delirio e l'inaccessibilità alle obiezioni critiche sono sempre state ritenute importanti, anche se, negli stadi iniziali del delirio e nelle successive crisi psicotiche produttive, il delirio può oscillare non raramente e anche con una certa rapidità tra critica, certezza relativa e sicurezza assoluta. Importante circa il problema del 'significato della realtà' è la distinzione fra la certezza immediata della realtà e il giudizio di realtà, originantesi dall'elaborazione concettuale dell'esperienza delirante immediata. L'azione esercitata sul comportamento pratico del paziente può essere molto varia e spesso può mancare, cioè il delirio può non filtrare nell'agire e nel comportamento.
Nelle sindromi acute e subacute esso tende a essere mutevole e poco organizzato, mentre in quelle a decorso subcronico e cronico tende a strutturarsi in un sistema che può essere anche abbastanza coerente (deliri parafrenici e paranoici) e sostenuto da spinte affettive profonde. La disposizione dell'animo al delirio (Wahnstimmung) spesso precede la percezione delirante ed è un particolare stato d'animo pregno di sinistra enigmaticità, dove i significati sono del tutto vaghi e indeterminati o vagamente estatici. A volte la 'tensione delirante' (Matussek 1952, 1953) si accompagna a un 'campo di preparazione', di netto timbro affettivo. Nel tempo si è andata attribuendo importanza sempre maggiore (Huber-Gross 1977) ai rapporti del delirio con la personalità e con il suo mondo di esperienze e di vita (la Lebenswelt di E. Husserl), e alle relazioni di continuità di significato della tematica delirante con il mondo prepsicotico e della pregnanza e simbolicità dell'oggetto percettivo, aprendo così un orizzonte di ricerca di tipo psicoanalitico.
Non infrequenti nelle depressioni ciclotimiche (depressione) sono le impostazioni e gli sbocchi deliranti di stati d'animo intensamente angosciosi, disperati, di colpa, di malattia, di autosvalutazione, di nichilismo.
Sulla base del tema, i deliri primari vengono tradizionalmente distinti in:
a) delirio di persecuzione, con i casi particolari dei deliri di danneggiamento somatico, di veneficio, di querela (ove, si dice classicamente, il 'perseguitato diviene persecutore');
b) delirio di grandezza, con idee di esaltazione delle proprie qualità fisiche e psichiche o del proprio potere, di appartenenza a casate illustri (delirio genealogico), di grandiose riforme attinenti a un qualsiasi campo dell'attività umana;
c) delirio di trasformazione, di metamorfosi, riferito per lo più a singole persone;
d) delirio di tipo pseudomistico, con tematiche difficilmente distinguibili dalle analoghe esperienze mistiche autentiche;
e) delirio di gelosia;
f) deliri malinconici, con idee di colpa, di rovina, di dannazione, di autoaccusa, di ipocondria fino al nichilismo somatico (delirio di negazione di J. Cotard); questi deliri malinconici sono detti olotimici perché determinati in toto dallo stato d'animo.
Il delirio può presentarsi in qualsiasi tipologia delle psicosi: nella paranoia esso costituisce l'essenza stessa della malattia e riveste carattere fondamentale di sistematicità e di lucido sviluppo; nei quadri paranoidi, sia schizofrenici sia anche legati a disturbi specifici di personalità, il delirio è meno organizzato, a volte fortemente inquinato dal processo dissociativo, a volte variabile e correlato a fattori affettivi (quadri detti oggi schizo-affettivi).
In passato si riteneva che il delirio di grandezza fosse tipico della paralisi progressiva, quello mistico-religioso delle psicosi epilettiche, quello di gelosia dell'alcolismo. Attualmente la specificità di tali relazioni è messa radicalmente in discussione, anche per l'emergere di diversificazioni socioculturali.
Il cosiddetto delirio sensitivo di rapporto di E. Kretschmer si può ritenere il tipico esempio di uno sviluppo di personalità abnorme: si instaura in soggetti che abbiano una tendenza del tutto particolare all'elaborazione intima degli stimoli esterni, come conseguenza di un avvenimento ricco di contenuto affettivo, realmente vissuto o semplicemente rappresentato, temuto o desiderato.
In un campo psichiatrico che fino a pochi anni fa sembrava inaccessibile a ogni tentativo terapeutico sono stati compiuti, con i nuovi farmaci neurolettici e anche con alcuni antidepressivi, risultati di un certo rilievo e meno transitori: i sintomi più attivi si attenuano fino a una possibilità molto soddisfacente di dominarli in toto. Sui persistenti sintomi negativi (specialmente apatia e appiattimento affettivo) l'azione terapeutica appare invece molto scarsa, anche se si stanno affacciando sulla scena farmaci che sembrano essere efficaci anche in questo campo (psicofarmaci).
La farmacoterapia deve essere prolungata, con opportune dosi di mantenimento e, appena possibile, con l'appoggio psicoterapeutico, scegliendo le metodiche più adatte al singolo caso e mettendo in atto programmi di riabilitazione a ogni livello (singolo, di gruppo, sociale).
Il delirio acuto febbrile compare come vera e propria psicosi esogena nelle più diverse malattie organiche, infettive o tossiche, ed è caratterizzato da disturbi della coscienza, con confusione mentale, obnubilamento, stato oniroide, disorientamento spazio-temporale, allucinazioni, soprattutto visive, ipertermia, iperazotemia, a volte convulsioni epilettiche. Sono necessarie sia una terapia adeguata rivolta all'agente causale, sia una terapia sintomatica di accompagno, volta a combattere i minacciosi sintomi somatici generali, a volte ricorrendo anche all'elettroshockterapia, per es. nei casi di 'catatonia maligna' febbrile, spesso mortale, o nei casi, più frequenti, di stati di arresto malinconici o di estrema agitazione psicomotoria.
L. Binswanger, Schizophrenie, Pfullingen, Neske, 1957.
E. Borgna, Come se finisse il mondo. Il senso dell'esperienza schizofrenica, Milano, Feltrinelli, 1995.
B. Callieri, Quando vince l'ombra. Problemi di psicopatologia clinica, Roma, Città Nuova, 1983.
K. Conrad, Die beginnende Schizophrenie, Stuttgart, Thieme, 1966.
H.W. Gruhle, Verstehen und Einfühlen, Berlin-Göttingen-Heidelberg, Springer, 1953.
G. Huber, G. Gross, Wahn, Stuttgart, Enke, 1977.
K. Jaspers, Allgemeine Psychopathologie, Berlin-Göttingen-Heidelberg, Springer, 1913, 19485 (trad. it. Roma, Il Pensiero Scientifico, 1964).
P. Matussek, Untersuchungen über die Wahnwahrnehmung, 1°, "Archiv für Psychiatrie und zur Neurologie", 1952, 189, pp. 279-319, 2°, "Schweizer Archiv für Neurologie und Psychiatrie", 1953, 71, p. 189 e segg.
E. Minkowski, Vers une cosmologie, Paris, Aubier, 1936.
id., La schizophrénie, Paris, Desclée de Brouwer, 1953.
id., Traité de psychopathologie, Paris, PUF, 1966.
id., Le temps vécu, Neuchâtel, Delachaux & Niestlé, 1968.
K. Schneider, Über den Wahn, Stuttgart, Thieme, 1952.