DELLA CROCE (Dalla Croce, de Cruce Crucejus), Giovanni Andrea
Nacque nel 1515 (secondo alcuni invece nel 1509) a Venezia, nella parrocchia della S. Croce nel sestiere di Dorsoduro (questo particolare ha fatto supporre che da tale chiesa derivasse il cognome della famiglia, ma documenti recenti portano ad escluderlo).
Suo padre Matteo Giuseppe non era un chirurgo di fama come affermano molti repertori, ma solo "barbiere ciroico", giunto a Venezia da Parma; chirurgo era invece il nonno, Giovanni Antonio Grandi Della Croce, che fu anche al servizio del duca di Milano. La madre del D., Isabetta, era invece veneziana, della parrocchia di S. Moisè. Dopo una giovinezza trascorsa a Venezia, egli si diede allo studio dei medici classici, soprattutto greci e arabi, ma per quanto riguarda la pratica chirurgica fu istruito dal padre. In effetti non risulta se avesse o meno frequentato lo Studio padovano e preso una laurea; ma, giovanissimo, fin dal 1532 fu accolto come membro del Collegio chirurgico di Venezia, il che prevedeva vari esami da compiere presso il Collegio stesso.
Tale istituzione, che ebbe tra i suoi iscritti personalità come.G. Fabrici d'Acquapendente, G. Falloppia, E. Sassonia, S. Santorio e altri, era una delle più rinomate corporazioni mediche del tempo, aveva il monopolio della cura dei feriti, organizzava una pubblica lettura di anatomia e chirurgia, impediva l'esercizio di tale arte achi non vi fosse iscritto.
Il D. vi tenne pubbliche lezioni alle quali assistettero medici di fama come Pietro Fogliata, Tiberio Barbaro, Giacomo de' Chierici, Francesco Longo; alcuni lo assistettero durante le operazioni, compiute anche fuori Venezia, ad esempio, Roma. Nel Collegio raggiunse una posizione di rilievo, tanto che nel 1537 fu incaricato di riformarne gli statuti; vi esercitò il priorato per diversi anni, nel 1548, nel 1550, nel 1558, pur non risiedendo a Venezia; infatti, poiché il Maggior Consiglio cercava un esperto di chirurgia e di fisica per la città di Feltre, il D. vi si recò a prendere il posto di Federico Zen intorno al 1538, per rimanervi fino al 1546.
La sua permanenza a Feltre non fu esente da dissidi, non soltanto inerenti alla sua professione (la recondotta gli fu riconfermata nel 1542 non senza opposizioni), ma anche per una questione familiare. Delle tre sorelle del D. la prima, Claudia, sposò Ottaviano Bognolo; il loro figlio Aluigi Bognolo Della Croce divenne medico, fu anch'egli membro del Collegio chirurgico e fu molto caro al D., che gli dedicò la sua prima opera, De morbo gallico, Venetiis 1532. La seconda, Fontana, sposò un commerciante, Filippo de Pelegrin. La terza, cara al D. come una figlia, fu violentata a soli quattordici anni dal nobile Girolamo Mezzano, che poi non volle sposarla. Il D. gli fece causa, ma il Mezzano fu prosciolto dal tribunale e sposò una donna più ricca; tale sconfitta spinse il chirurgo ad andarsene da Feltre dove fu sostituito dal veneziano Gerolamo Lancio.
Tornato a Venezia, sposò Lucrezia Donati, vedova di Zamaria Pin. da cui non risulta se ebbe figli; ebbe l'incarico di medico della flotta veneziana, ma non è noto in quali località egli abbia seguito la flotta. Risulta invece che, essendo nota la sua attività nello studio dei contagi, fu incaricato dal magistrato di Sanità di unirsi ai medici Nicolò Sanmicheli, Francesco da Castello, Mariano Santo, per provvedere alle difese contro la peste. Nel 1559, per motivi di salute, chiese al Collegio la dispensa dal partecipare alle sedute di esso, ma continuò gli studi anatomici e chirurgici, in particolare sulla cura di ferite d'arma da fuoco al ventre; pubblicò su tale argomento Due trattati nuovi... (Venetia 1560), che poi furono inclusi nella sua opera maggiore, Chirurgiae universalis opus absolutum, Venetiis 1573, (poi 1587 e 1596), tradotta l'anno dopo in italiano col titolo Chirurgia universale e perfetta di tutte le parti pertinenti all'ottimo chirurgo, Venezia 1574 (ediz. successive 1583, 1603, 1605).
Questo ampio trattato, cui si deve la fama europea del D. (fu tradotto in diverse lingue: l'edizione tedesca, a cura di P. Uffenbach, reca il titolo Officina aurea, das ist guldene Werkstatt der Chirurgy oder Wundt Artzney, Frankfurt am Mein 1607), è diviso in sette libri: nel primo si trattano gli ascessi e i tumori; nel secondo sono riportati tali e quali i trattati già pubblicati sulle ferite d'arma da fuoco e sui metodi per evitare emorragie; nel terzo si parla delle ulcere, in cinque parti; nel quarto il D. utilizza la sua pratica chirurgica per lo studio delle fratture ossee; il quinto, suddiviso in dodici parti, analizza una serie di interventi, dalla cauterizzazione alla flebotomia alla litotrizia; il sesto è un antidotario che spiega i rimedi chirurgici proposti negli altri libri; il settimo reca una serie di incisioni in legno relative allo strumentario per le operazioni trattate. A parte la sua prolissità, l'opera fu molto apprezzata, soprattutto per la parte relativa agli strumenti chirurgici, ove sono descritti ferri di ogni genere, alcuni di nuova invenzione (come una siringa per estrarre il sangue dal petto dopo averlo reso liquido con un topico adatto), altri giudicati superflui, ma che comunque fanno di questa opera la più vasta e la più analitica del genere. Si veda, ad esempio, la descrizione dei trapani, dei tipi più vari (ad albero, ad archetto, a corda, a frizione ecc.) e con tutti gli accessori (punte cannulate, torcolate ecc.).
Altre caratteristiche che spiegano la diffusione dell'opera sono costituite dall'introduzione di sinonimi nelle varie lingue per designare le affezioni morbose, nonché dalla ricchezza di esempi pratici, con riferimento preciso ai casi che possono capitare, alle regole per compiere operazioni e con quali strumenti. Si può dire inoltre che, nonostante il suo ippocratismo, talvolta il D. è in grado di staccarsi dagli antichi, come per la trapanazione del cranio (ch'egli sconsiglia di compiere nelle suture, come vuole Ippocrate). Un atteggiamento nuovo assunse nella descrizione dell'ernia al polmone, superando l'anatomo patologo Rolando da Parma; ma è soprattutto per le parti relative alle ferite al capo e al petto, alle relative emorragie, alle lesioni alla trachea che l'opera ebbe larga diffusione, oltre allo strumentario chirurgico, giudicato non sempre positivamente. Il suo interesse per gli arabi è testimoniato anche dalla traduzione che fece del Trattato sulla teriaca di Averroè (nelle Opere di Aristotele, Venezia 1562, X, p. 306).
A sessantun anni, nel 1575, il D. morì a Venezia, forse di peste, con tutta la sua famiglia, che non aveva voluto allontanarsi dalla città, e fu sepolto nella chiesa di S. Maria dell'Umiltà. La sua lapide venne successivamente asportata dalla chiesa e venduta ad una nobile famiglia trevigiana, il che servì a qualche studente burlone come pretesto per giocare un tiro al prof. F. Bernardi, uno dei più accaniti studiosi del medico veneziano, a cavallo tra Settecento e Ottocento, che credette di ritrovarla e la fece porre nel seminario patriarcale di Venezia.
Talvolta il D. è stato confuso col milanese Giovanni Andrea Crucejus (1619-1655).
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