DELLA GHERARDESCA, Iacopo, detto il Paffetta
Figlio di Giovanni detto Bacarosso, conte di Montescudaio, apparteneva a quel ramo della potente famiglia toscana che discendeva dal conte Gherardo (III) e che a partire dal sec. XIII venne designato come quello dei conti di Montescudaio e di Guardistallo dal nome di due castelli che deteneva in Maremma.
Dopo gli importanti avvenimentiche nel terzo e nel quarto decennio del sec. XIII avevano avuto tra i protagonisti, a Pisa e in Sardegna, unodei loro antenati, il conte Ranieri maior di Bolgheri (v.voce Bulgari, Ranieri conte di, in questo Dizionario, XV, p. 38), i Della Gherardesca di Montescudaio, pur essendo cittadini pisani ed avendo le loro abitazioni a Pisa in Chinzica - il quartiere a sud dell'Arno -, erano stati praticamente assenti dalla vita politica e si erano occupati prevalentemente dei loro interessi maremmani. Soloalla fine del secolo il conte Lotto, nonno del D., aveva ricoperto cariche pubbliche: fuinfatti vicario del Comune in Maremma nel 1297 e consigliere di Credenza nel 1299.
Le prime notizie a noi note relative al D. risalgono all'estate del 1344, all'epoca della guerra tra Luchino Visconti, signore di Milano, ed il Comune di Pisa. Allora il D., che con i suoi fratelli ricopriva la carica di vicario del Comune di Pisa in Maremma, fatte allontanare mediante lettere degli Anziani di Pisa all'uopo falsificate le due "bandiere" di cavalieri che presidiavano la regione, si ribellò e fece ribellare Vada, Bibbona e gli altri castelli della bassa Val di Cecina di dominio pisano, consentendo in tal modo all'esercito visconteo di penetrare in Maremma. Per tale atto il D. fu, con i fratelli, condannato al bando per alto tradimento: sulla porta Degazia, la porta occidentale di Pisa, fu posta per ordine delle autorità municipali una pittura "infame", nella quale il vicario ribelle ed i suoi fratelli erano rappresentati "come traditori, con lettere false in mano", riferisce la Cronica di Pisa. Di più il Comune di Pisa non poté fare contro di loro, anche se nel settembre successivo truppe pisane furono inviate contro le terre dei conti di Montescudaio. Per la pace di Netrasanta, che concluse il conflitto, il D. ed i suoi fratelli furono liberati dal bando e reintegrati nei loro possessi (17 maggio 1345).
La mancanza di notizie sul D. anteriori al 1344 ci impedisce di conoscere i motivi della sua rivolta contro Pisa e le ragioni della sua scelta filoviscontea. Tali motivi e tali ragioni di opposizione sono forse da ricondursi ad un atteggiamento ostile da lui assunto nei confronti del regime di Ranieri Novello Della Gherardesca conte di Donoratico, allora signore di Pisa sotto la tutela di Tinuccio Della Rocca. Tale ipotesi appare plausibile, se si pone mente al fatto che il D., anche dopo la pace di Pietrasanta, mantenne un atteggiamento di antagonismo e di resistenza, finendo col confluire nella fazione dettaAei bergolini che, con gli Alliata e i Gambacorta, raggruppava gli avversari dei Della Rocca e del gruppo di potere di cui essi erano espressione, detto dei raspanti.
Nel 1347 il D. sposò Andreuccia del fu Feo di Andrea Gualandi, che risiedeva in Chinzica ed aveva interessi in Maremma e legami con i conti di Donoratico. Nel medesimo periodo, insieme con i suoi fratelli, il D. si trasferì dal quartiere di Chinzica a quello di Foriporta, a settentrione del fiume, e precisamente nella cappella di S. Viviana, nella parte orientale della città.
Scomparso Ranieri Novello (5 giugno 1347) e caduto il potere nelle mani dei bergolini dopo l'espulsione dei raspanti (notte di Natale di quello stesso anno), il D. con i suoi familiari intrattenne, almeno inizialmente, buoni rapporti con il nuovo regime, come sembra provato dal fatto che un suo fratello, Giovanni, fu consigliere di Credenza nel 1349. In seguito però mutò atteggiamento, forse per reazione alla sempre più evidente volontà di instaurare un regime signorile dimostrata dai Gambacorta, ma forse anche in seguito al peggioramento delle relazioni tra Pisa e Milano verificatosi sul finire del 1353. Con i Visconti e con gli ambienti della città ambrosiana, infatti, il D. doveva avere interessi e legami in comune, come sembra dimostrato dal fatto che nel 1354 ricopriva a Milano la carica di podestà, e che rientrò a Pisa solo il 18 gennaio dell'anno seguente, provenendo da Milano e al seguito di Carlo IV di Lussemburgo re di Boemia, il quale era sceso in Italia per cingervi la corona imperiale. Nei rivolgimenti politici provocati dall'arrivo e dal soggiorno in Pisa del sovrano (18 gennaio-21 marzo 1355) il D. ebbe una parte tale da far correre la voce che essi seguissero uno schema concertato in Lombardia tra l'imperatore e lo stesso antico esponente della fazione dei bergolini.
Il 20 gennaio, accanto a Cecco Alliata, a Napoleone Della Gherardesca conte di Donoratico e ad altri, il D. capeggiò quel gruppo di raspanti che chiese a Carlo di Lussemburgo di pacificare la città. In seguito a tale atto i Gambacorta temettero che i raspanti potessero, grazie all'aiuto dell'imperatore, tornare al potere, esautorandoli, ed attribuirono perciò allo stesso Carlo la signoria sulla loro città. Fu una signoria assai breve: di fronte al pericolo di uno strapotere degli Imperiali, le fazioni preferirono accordarsi - almeno per il momento - tra di loro, ed elessero una commissione per la riforma del Comune. L'imperatore fu costretto a restituire alle autorità municipali i poteri che gli erano stati conferiti, anche se conservò, insieme con le chiavi della città, il controllo delle mura e delle fortificazioni cittadine.
Quando il 21 marzo 1355 Carlo re di Boemia lasciò Pisa diretto a Roma, il D. lo seguì come ambasciatore del suo Comune; e a Roma, poco dopo la solenne cerimonia nella quale il re Carlo era stato incoronato imperatore quarto di quel nome (5 aprile), venne armato cavaliere dallo stesso sovrano. Rientrato in Pisa sempre al seguito dell'imperatore (6 maggio), il D. fu colui che, insieme con Ludovico Della Rocca, soffocò nel sangue, appoggiandosi alla fazione dei raspanti, la rivolta antimperiale scoppiata il 21 maggio, dopo l'incendio del palazzo degli Anziani avvenuto nel corso della notte. In quella tragica congiuntura la resistenza delle opposizioni venne stroncata infatti con spietatezza: il 26 maggio tre esponenti della famiglia dei Gambacorta furono decapitati.
La repressione portò alla fine della prevalenza dei bergolini, ed il potere tornò ai raspanti. Tra i personaggi più in vista del nuovo regime, il D. raggiunse una posizione di particolare rilievo, forse connessa con i legami che lo univano a Carlo IV ed al partito filoimperiale, ipotesi, quest'ultima, che sembra trovare conferma nel repentino tracollo delle sue fortune politiche avvenuto subito dopo che il sovrano ebbe lasciato l'Italia.
La sua posizione era senza dubbio ancora solida. dopo la partenza di Carlo IV da Pisa (27 maggio), agli inizi dell'estate, quando fece parte dell'ambasceria che il 13 giugno raggiunse l'imperatore nella sua residenza di Pietrasanta. Una prima avvisaglia delle difficoltà per il D. si ebbe il 27 febbr. 1356, quando nel Consiglio generale, discutendosi sul problema della riconferma del vicario imperiale, fu bocciata la mozione proposta dallo stesso D. e da Dino da Martì, e venne invece approvata quella presentata da Cecco Alliata. L'episodio, in sé di poco momento, ebbe tuttavia una certa risonanza e produsse effetti dirompenti, perché dimostrava l'esistenza, all'interno dello stesso gruppo al potere, di un forte movimento di opposizione. La tensione dovette aumentare nella settimana successiva di pari passo con la messa a punto di un colpo di Stato per togliere di mezzo il D., se il 4 marzo le guardie furono armate e molti pisani "istéctono armati in casa loro", come annota il cronista Ranieri Sardo. La sera di quel medesimo giorno, venerdì, vennero inviate a confino sedici persone in vista, che le fonti ci riferiscono appartenere alla nobiltà e al "popolo", ma senza fornire elementi utili per identificarne la precisa collocazione politica. Si doveva ad ogni modo trattare di appartenenti all'entourage del D.: la mattina seguente, infatti, il capitano del Popolo, dopo aver fatto arrestare ed inviare a confino Giovanni Grassi, convocò Dino da - Marti, Filippo Buonconti, Fazio Gualandi e Iacopo Del Grugno, tutte persone politicamente vicine al Della Gherardesca. I quattro, anziché obbedire all'ordine, si recarono, per lamentarsi del provvedimento, nell'abitazione del D., che venne perciò convocato a sua volta dal capitano del Popolo. Presentatosi, il D. venne arrestato e trattenuto in custodia preventiva sotto l'accusa di alto tradimento. Nel corso dell'istruttoria, che venne subito aperta, fu interrogato Giovanni Grassi il quale, sottoposto a tortura, confessò che il D. era a capo di una vasta congiura mirante a far sollevare la città contro il rappresentante dell'imperatore e a farla passare sotto il dominio dei Visconti. Sulla base di tali rivelazioni fu celebrato il processo: il D. venne riconosciuto colpevole e condannato al carcere a vita. I suoi complici furono banditi.
Rinchiuso nelle segrete del castello dell'Augusta in Lucca il 14 marzo di quello stesso anno, il D. vi morì - o vi fu fatto morire - poco tempo dopo.
Dato il silenzio delle fonti, non possiamo dire quale corrispondenza avessero con dati reali di fatto le rivelazioni di Giovanni Grassi, tanto più che gli furono estorte con una tortura che venne applicata così brutalmente da mettere a repentaglio la vita dello stesso testimone. Se si pensa però che il D. fu l'unico dei "congiurati" a venir colpito da una pena così dura come il carcere a vita, e che gli altri accusati - compreso il Grassi - poterono, dopo un certo periodo di confino, rientrare tranquillamente a Pisa, sembra probabile ritenere che tutta la triste vicenda fosse stata orchestrata per eliminare dalla scena politica il D., divenuto tanto influente da far temere che aspirasse alla signoria.
Del D. conosciamo un figlio soltanto, Carlo, ancora minorenne l'8 giugno 1362, quando il suo zio materno, Iacopo di messer Luchino, ottenne dal giudice della curia nuova dei pupilli della città di Pisa due curatori speciali, i quali dovevano ottenere tutto ciò che era dovuto per eredità al giovanetto. La madre di Carlo non era dunque la Gualandi sposata dal D. nel 1347, ma una seconda moglie che, essendo figlia di un Luchino, può essere ritenuta milanese o lombarda.
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