DELLA PORTA, Gamerio, detto Scurta (Scurra, Scorta o Scurtapelliccia)
Nacque a Parma durante la prima metà del sec. XIII da nobile famiglia. Stretto parente del vescovo di Parma, Obizzo da San Vitale, a sua volta legato alla famiglia dei Fieschi, militò per tutta la vita entro le file della parte guelfa.
Il vero nome del D. era Gamerio: certamente inconsueto, esso è testimoniato in alcuni documenti lodigiani. Le altre fonti chiamano di solito il D. Scorta o Scurta, probabilmente un'abbreviazione del soprannome Scurtapelliccia, con cui il D. viene ricordato da Salimbene de Adani alla battaglia di Vaprio d'Adda del 1281: "Sed et potestas Laudensium. in illo prelio mortuus fuit, scilicet dominus Scurtapelliccia de Porta, qui erat civis Parmensis et consanguineus domini Opiconis Parmensis episcopi".
Fu eletto per la prima volta podestà di Modena nel 1261, ove ebbe come "iudex et assessor" il consanguineo Giacomo Della Porta. Durante il suo mandato fu conclusa la costruzione della torre di San Geminiano, o Ghirlandina; per l'occasione il D. donò al santo protettore della città, cui quella torre si intitolava, un palio purpureo nel corso di una solenne cerimonia religiosa. Della sua podesteria, però, le fonti archivistiche ricordano soprattutto l'azione da lui svolta nei confronti delle signorie fondiario-territoriali dei monasteri di Frassinoro e di Nonantola, con i cui abati egli raggiunse importanti accordi. Nel giugno del 1261 sottoscrisse infatti un compromesso tra il Comune di Modena e l'abate di Frassinoro, con il quale si pose termine ad una violenta contesa iniziata nel 1258. La vertenza riguardava il possesso dei diritti giurisdizionali sulle terre e sugli uomini del monastero, diritti che erano stati ceduti al Comune di Modena dal cenobio nel lontano 1227. Nel 1258 si era avuta infatti una contestazione a proposito del castello di Medolla e dei suoi abitanti, legati all'abate di Frassinoro, ed i Modenesi, decisi a far rispettare gli accordi del 1227, avevano invaso le proprietà monastiche e distrutto quella fortificazione. Il monastero aveva allora chiesto la protezione papale. Era stato lanciato l'interdetto su Modena e nel gennaio 1261 Alessandro IV aveva incaricato il vescovo di Bologna di indagare sui fatti, pur mantenendo sotto l'interdetto la città. I Modenesi, guidati dal D., risposero catturando ed imprigionando l'abate per cui fu lanciata la scomunica contro il Comune e contro tutti i cittadini. Allo scopo di risolvere la crisi o, almeno, di alleviare la tensione che il pesante provvedimento di natura spirituale aveva creato in città, il D. si impegno a trattare col vescovo di Bologna: si convenne così di affidare la soluzione della vertenza ad una commissione arbitrale, che fu costituita dal domenicano fra' Bartolomeo da Modena e dall'arciprete di Carpi, Gerardo. Il 27 giugno 1261 il D., come podestà di Modena, sottoscrisse il lodo emesso dagli arbitri.
Il Comune doveva promettere di non molestare le proprietà del monastero e concedere all'abate di poter ricostruire, entro vent'anni, la rocca e le case di Medolla, che i monaci avrebbero dovuto custodire e difendere a nome dei Modenesi. Il Comune doveva pagare al cenobio 1.000 lire di imperiali, pari a 3.000 lire di moneta corta di Modena, a titolo di risarcimento dei danni, mentre il monastero si sarebbe dovuto impegnare a non richiedere ulteriori riparazioni per le distruzioni subite. I monaci inoltre, in ottemperanza degli accordi del 1227, dovevano cedere effettivamente al Comune tutti i diritti giurisdizionali (honor et districtus)sui castelli, sui villaggi e sugli uomini dipendenti dall'abbazia; a quest'ultima, tuttavia, dovevano spettare i proventi derivanti dalle imposte sui traffici e sulle merci in transito attraverso le terre abbaziali, nonché quelli derivanti dalle tasse di mercato relative agli scambi commerciali che avvenivano nei castelli e nei centri abitati dipendenti dal cenobio. Gli uomini dipendenti dal monastero dovevano rimanere soggetti all'abate per le cause civili, ma dovevano essere giudicati dal tribunale del Comune per le cause penali. Essi, inoltre, avrebbero dovuto pagare i tributi al Comune di Modena e avrebbero dovuto prestare a quest'ultimo il servizio militare, inquadrati nell'esercito cittadino.
Questo accordo, che permise al Comune di estendere la sua giurisdizione su alcuni territori ecclesiastici del contado con il consenso delle autorità religiose e della stessa Sede apostolica, servì da base per risolvere qualche tempo dopo un'analoga vertenza col potente cenobio di S. Silvestro di Nonantola. Dopo sei mesi di trattative, il D. ed il rappresentante dell'antico monastero, l'abate di Santa Lucia di Roffeno, Enrico, giunsero infatti ad un compromesso, che fu reso noto il 28 dicembre 1261 e che venne approvato solennemente dai Modenesi due giorni dopo.
L'abbazia si impegnava a cedere al Comune di Modena i poteri signorili e giurisdizionali (honor et districtus)che essa aveva sui villaggi, sui castelli e sulle proprietà appartenenti al proprio patrimonio e situati nel Modenese e nel Bolognese: sulla stessa Nonantola dunque, su Castel Crescente, su Corte del Secco, su Roncaglia, su Camorana, su Bagazzano, su Redutto, su Gaggio, e su molti altri. Cedeva inoltre al Comune i boschi attorno al Panaro, i diritti sulle acque del fiume, sui porti, sulle rive, sulla pesca e sulla caccia. Tuttavia si riconosceva al monastero il diritto di mantenere a Nonantola il proprio gastaldo, un notaio e due custodi dei boschi, nonché ventiquattro massari, per i quali il Comune di Modena si impegnava a garantire l'immunità da imposte e collette, ma che dovevano prestargli, in caso di guerra, il servizio militare, senza alcun onere di lavoro coatto con i carri e i buoi. In altre parole, con il compromesso del 28 dic. 1261 l'abate e i monaci di Nonantola ed i loro dipendenti di condizione rustica divenivano cittadini del Comune e potevano godere di tutti gli aspetti vantaggiosi di una simile situazione giuridica, senza subirne - per quanto possibile - gli svantaggi. Il D. come podestà si impegnò da parte sua, a nome del Comune di Modena, a versare immediatamente 300 lire di imperiali, fornì garanzie di acquistare, appena possibile, terre nel distretto modenese, a vantaggio del monastero, per una somma di 3.000 lire di imperiali. L'abbazia di Nonantola manteneva il diritto di trarre acque dai fiumi Zena e Panaro per utilizzarle nell'irrigazione e come forza motrice dei suoi numerosi mulini. Il D., nella sua qualità di podestà, prometteva inoltre che le autorità comunali non avrebbero esteso alle proprietà monastiche le leggi di affrancamento delle terre, dei fitti, dei feudi e dei rustici; concedeva, infine, all'abbazia di raddoppiare i censi nei confronti dei cittadini modenesi affittuari e livellari del cenobio e che da anni risultavano morosi.
In un anno di governo il D. aveva risolto alcuni dei più gravi problemi creati dalla politica ecclesiastica del Comune, liberato Modena dall'interdetto, e regolato i rapporti con alcuni importanti enti religiosi; aveva nel contempo saputo ampliare il distretto sottoposto alla giurisdizione della città, estendendolo sui castelli e sui villaggi dipendenti dalle antiche signorie ecclesiastiche. Probabilmente, tenendo conto anche delle capacità di amministratore e di mediatore, di cui aveva dato esplicita prova in questa occasione, i cittadini di Modena chiamarono il D. come podestà una seconda volta dieci anni più tardi, in un momento di crisi dei rapporti fra il loro Comune e la vicina Bologna.
Il Comune di Modena aveva infatti proceduto a far riedificare sulla riva destra del Panaro i centri fortificati di Monte Ombraro, di Savignano e di San Cesario, che erano stati distrutti dai Bolognesi quando il loro Comune aveva imposto la sua preminenza su quello di Modena. Appunto per salvaguardare tale loro egemonia, che sentivano minacciata dalla ricostruzione di quelle piazzeforti, i Bolognesi erano scesi nuovamente in campo contro la città vicina.
Le ostilità erano già incominciate quando il D. giunse a Modena per assumere l'incarico di podestà (luglio 1270). Postosi alla guida delle milizie municipali, riuscì a contenere e a respingere l'offensiva dei Bolognesi. Non poté tuttavia portare a termine la campagna. Le operazioni militari erano infatti nel loro pieno svolgimento allorché nel giugno del 1271 il D. decadde dal mandato e dovette abbandonare Modena. Nel 1275 fu chiamato a Lodi come podestà: di questo suo incarico nessun particolare ci riferiscono le fonti a noi note. Allo stesso modo, nulla sappiamo, per il silenzio delle fonti, circa gli avvenimenti che caratterizzarono la sua podesteria lucchese del 1278. Il cronista Tolomeo da Lucca nei suoi Annales ricorda il D. solo perché condannò a morire affogato, chiuso in un sacco, Ciapparone dei Ciapparoni, colpevole di aver dileggiato e schernito la devozione popolare per una pia donna, Zita, morta in fama di santità proprio nel corso di quell'anno 1278.
Il D. era comunque allora una delle figure di maggior spicco entro lo schieramento guelfo dell'Italia padana, come è dimostrato dal fatto che proprio a lui Carlo I d'Angiò affidò l'incarico di svolgere, come suo vicario, le funzioni di podestà di Firenze per il semestre luglio-dicembre 1279, in un periodo particolarmente delicato della storia della città toscana e dello stesso movimento guelfo in Italia. Furono infatti quelli, in cui il D. svolse il suo mandato a Firenze, i mesi che precedettero e accompagnarono l'opera svolta da Latino Malabranca, vescovo cardinale di Ostia e Velletri, legato del papa Niccolò III per riportare la pace tra le opposte fazioni fiorentine. Era anche il momento nel quale in pieno sviluppo era la politica avviata dal nuovo pontefice per abbattere le posizioni che il sovrano angioino aveva conquistato a Roma e in Toscana. Il vicario di Carlo d'Angiò - quest'ultimo come è noto, si era fatto nominare dai Fiorentini nel 1268 podestà avrebbe dovuto in qualche modo controllare l'attività del legato papale e difendere gli interessi del re di Napoli nella difficile fase del trapasso dei poteri. Giunto nella città l'inviato del papa (8 ott. 1279), dopo quaranta giorni di contatti politici, il D., d'accordo col capitano di Parte guelfa, Adenulfo Conti, autorizzò la convocazione nella piazza di S. Maria Novella, per il 19 novembre, del Parlamento del popolo, nel corso del quale al card. Malabranca furono concessi i pieni poteri per imporre agli abitanti della città e del distretto quanto egli avrebbe deciso per la pacificazione interna di Firenze. Il mandato popolare esautorava di fatto il sovrano angioino, in quanto podestà di Firenze, ed il suo vicario: alla fine del mese di dicembre, scaduto il suo mandato, il D. lasciò la città toscana.
Agli inizi del 1281 si recò a Lodi, per assumervi nuovamente la carica di podestà, quando la città lombarda era coinvolta nelle lotte fra i guelfi Della Torre ed i ghibellini Visconti, lotte che superavano largamente la ristretta questione della supremazia su Milano ed oltrepassavano lo stesso ambito della Valle padana, ponendosi come problemi di equilibrio italiano. Uno dei principali avversari dei Visconti, Cassone Della Torre, si era fatto signore di Lodi e, forte di un trattato di alleanza con i Pavesi, approfittando dell'assenza dall'Italia del marchese del Monferrato scese infatti in campo contro Milano, allora dominata da Ottone Visconti, per costringerla alla leale osservanza delle clausole della pace del 1279. Alla guida dell'esercito lodigiano si trovava, in quanto podestà, il D.; ma accanto a lui si andarono schierando i Cremonesi, i partigiani dei Della Torre fuorusciti da Milano e, infine, lo stesso patriarca di Aquileia, Raimondo Della Torre, che giunse a Lodi il 17 maggio con i suoi friulani, 500 cavalieri e gli ausiliari tedeschi. Passato l'Adda, gli eserciti di Lodi e dei Della Torre occuparono Vaprio, ove posero la loro base operativa. Proprio davanti a Vaprio, il 25 maggio 1281 si scontrarono con le truppe ghibelline milanesi, rinforzate da contingenti di Como e di Novara, e furono disfatti. Nella battaglia il D. cadde combattendo valorosamente. Con lui scomparvero parecchi altri cavalieri che costituivano la sua familia di podestà.
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