DELLA TORRE, Francesco Ulderico
Figlio di Gianfilippo di Raimondo e di Eleonora di Federico Gonzaga del ramo di Castiglione, nacque il 5 ott. 1629, a Sagrado (Gorizia), venendo battezzato, il 15, nella chiesa parrocchiale dei Ss. Pietro e Paolo di Gradisca. Suo prestigioso padrino, rappresentato dallo zio paterno Raimondo e dalla contessa Elisabetta Strassoldo, il principe Ulderico di Eggenberg omaggiato, appunto, col secondo nome di battesimo del Della Torre. (Per notizie sul padre, signore di Duino, vedi s.v. Filippo Giacomo, p. 533).
Incline agli studi, il D. sembrò adatto alla carriera ecclesiastica e, data la simpatia del padre per la Compagnia di Gesù, venne a questa destinato iniziando a Roma, nel 1645, il noviziato. Ma la salute cagionevole e una malattia non debellata impedirono all'adolescente la necessaria concentrazione richiesta dall'eccezionale impegno di questo periodo; né aveva sufficiente energia per superare la prova - fisicamente debilitante - dei faticosi esercizi prescritti. Donde un prolungato soggiorno napoletano al fine di ristabilirsi, la rinuncia alla vita religiosa, il volgersi alle prospettive di carriera politica, il ritorno alle dimore avite di Sagrado e Duino ove poté immediatamente saggiare la dimensione del comando. Per lui vantaggiosa, inoltre, la costituzione del minuscolo staterello di Gradisca, concessa - coll'aggiunta d'una quindicina di villaggi scorporati dal Goriziano -, il 26 febbr. 1647, dall'imperatore Ferdinando III, quale contea principesca ereditaria, a Giovanni Antonio di Eggenberg. Il 15 marzo 1655, infatti, il D. venne nominato maresciallo ereditario e capitano della cittadina, nella quale, dimorando gli Eggenberg altrove e limitando la loro presenza a fugaci apparizioni, finì coll'esercitare il governo effettivo con soddisfazione di Vienna che, tramite il D., cui Leopoldo conferì il "grado di cameriere della chiave d'oro", poteva contare su di un elemento fidato e sensibile alle direttive imperiali.
Dignitosamente insediatosi in un elegante e vasto palazzo (sarà, alla fine del Settecento, per breve tempo sede episcopale e quindi passerà alla famiglia Finetti), di cui dispose l'integrale ricostruzione, il D. dispiegò -, da questa sua residenza, ora municipio di Gradisca, in stile palladiano, dalla facciata semplice e, insieme, maestosa, con una scala a giorno sul verde cortile - avveduto e sollecito un'incisiva volontà d'intervento complessivo e di rianimante attivazione. Rafforzò, ampliò, arricchì d'un ulteriore bastione le muraglie della fortezza; aumentò gli effettivi della guarnigione da 400 a 1.000 fanti affiancati da una compagnia di 120 cavalleggeri e, ripristinando la regolarità dei pagamenti. Poté esigere a sua volta, il rispetto, antecedentemente alquanto scaduto, della disciplina; costante, altresi, la sua cura per un'adeguata provvista di scorte, per la dotazione e la manutenzione delle armi. Aprì un pubblico giardino riccamente decorato di statue; promosse, per fronteggiare le inondazioni dell'Isonzo e del torrente Torre, lavori d'arginatura; elargì munifico ai poveri, protesse vedove ed orfani, sovvenne chiese e conventi; istituì benefici per l'ospedale; incoraggiò l'erezione della loggia dei mercanti, ora sede del lapidario gradiscano. Perché il prestito non fosse monopolizzato dalla locale comunità ebraica in prevalenza aschenazita presente a Gradisca con una scuola privata e una sinagoga (M. Del Bianco Cotrozzi, Gli ebrei di Gradisca..., in Gli ebrei a Gorizia e a Trieste...,a cura di P. C. Ioly Zorattini, Udine 1984, pp. 155-163), contro "iudaicae usurae perniciem", dunque, oltre che mirando al "pauperum subsidium", per sua volontà, il 2 ag. 1670, venne deliberata la creazione del Monte di pietà: aperto nel 1674, avrà sede in un edificio più che decoroso di cui s'avviò la costruzione nel 1688 e che, restaurato, nel 1877 diverrà palazzo municipale ed è, attualmente, sede della pretura.
Il D. promosse altresì, con l'istituzione di scuole, l'istruzione e diede alla nobiltà impoverita possibilità d'educare gratuitamente i propri rampolli fondando un collegio chiamato seminario, a vantaggio del quale, a partire dal 1663, vennero devoluti 50 fiorini all'anno dei 150 del suo stipendio di capitano. Riordinò l'amministrazione civile e finanziaria, concorrendo di tasca propria all'estinzione dei debiti e al rinsanguamento delle vuote casse erariali. Fece costruire strade e ponti, fece erigere il pubblico granaio; si preoccupò del calmieramento dei prezzi; incentivò le attività manifatturiere, specie introducendo la lavorazione della seta e allettando, a tal fine, tessitori e tintori veneti. Donde, sotto la sua reggenza, il decollo della tintoria e del damasco gradiscani.
In fatto, poi, di rapporti con le autorità veneziane confinanti, il D. perseguì una politica di buon vicinato, come riconoscono i provveditori generali a Palma, pei quali il D. è "cavaliere intelligente e capace delle formalità", "un genio evidente e della quiete comune e della buona corrispondenza", "il signore ... che proffessa una costante divotione verso la Serenissima ... et un genio partiale di ben vicinare e di tener rimosse tutte le occasioni di novità e di sconcerti", quello che garantisce "continuata la buona corrispondenza", mentre per il luogotenente del Friuli Benedetto Giustinian anche il D., che "gode molti beni rivolti fra li confini medesimi", è interessato si addivenga, una buona volta, ad una definitiva composizione del contenzioso confinario.
Certo un'aura principesca emanava dalla persona del D., anche perché coltivò accuratamente la propria immagine in tal senso, ad esempio attingendo al fiorente equile di San Giovanni per munifici doni di cavalli a nobili indigeni e forestieri. Un po' principe, in effetti, apparve già il 24 sett. 1660, quando, attorniato da un nutrito corteggio di cavalieri - parecchi dei quali provenienti, non senza dispiacere di Venezia, dal Friuli veneto - accolse l'imperatore Leopoldo, allora in visita ufficiale (R. Miller, Die Hofreisen ... Leopolds I.,in Mitteilungen des Inst. für öst. Geschichtsförschungen, LXXV [1967], p. 86) a Gradisca, offrendogli poi un sontuoso "pranzo"; sicché, informavano da Trieste gli inviati veneti con un pizzico d'ironia, il giovane imperatore (che il D. ebbe pure l'onore d'ospitare più giorni, nel castello di Duino che, nel corso del tempo, provvide ad abbellire negli interni e ad irrobustire; ché pare si debba a lui l'avancorpo mistilineo cingente la base del mastio) venne "in quel picciolo luogo nobilmente trattato". Indubbio il tratto signorile del D. che suggestionò favorevolmente i provveditori a Palma e i luogotenenti in Friuli, ben lieti della sua compitezza così diversa e distante dalla rozza irruenza antiveneta di suo padre Gianfilippo. Ma c'era anche chi ne diffidava, chi metteva in guardia contro di lui, chi lo considerava avversario pericoloso della Repubblica.
Tale soprattutto il giudizio espresso dal rappresentante veneto a Vienna Alvise Molin nella sua relazione del 27 sett. 1661. Il D. era responsabile d'accogliere, a Sant'Antonio di Duino, in appositi magazzini, sale di contrabbando di provenienza istriana che poi provvedeva a vendere sottocosto in Friuli e in terra austriaca, ricavando - si sdegnava il Molin - da questo "putrido negotio" più di 6.000 ducati all'anno e infliggendo, nel contempo, a Venezia un "danno ... senza comparatione maggiore". Intollerabile per il Molin che impunemente le "brazzere" - approfittando del vento gagliardo, che ostacolava la barca armata veneziana preposta alla sorveglianza - portassero dall'Istria a Duino con facilità il sale. Il D., assicurava il Molin, "riuscirà sempre infesto" a Venezia "nel confine perché di sua natura è di spiriti torbidi", gonfio di presunzione, divorato dall'ambizione. "Ha deboli fortune", osservava il Molin quasi a circoscriverlo in angusti spazi e a ridimensionare la sua figura che solo nello staterello gradiscano poteva atteggiarsi imponente, ma, ciò malgrado, nutriva "grandi et alti pensieri". Andava ad ogni modo ostacolato perché "di pessima dispositione verso" la Serenissima. Purtroppo poteva avere "bel gioco", dal momento che "gira come vuole" la principessa Anna Maria vedova di Giovanni Antonio di Eggenberg, la quale, "bonissima signora", s'era però messa totalmente nelle sue mani, essendosi egli, con insinuanti ed abili "accortezze", totalmente impadronito del suo "animo" sì da farne il paravento delle sue azioni, tra le quali s'annoverava "un'estorsione putrida d'alcuni beni rapiti alle monache" d'Aquileia.
Vano protestare perché il D. a Vienna aveva "appoggi ben grandi" e si faceva sempre "scudo con la principessa", alla quale faceva credere che le sue "usurpationi" non fossero altro che zelo di ben servirla. Non basta: "non contento d'operar per se stesso", fomentava anche le rivendicazioni antiveneziane di Trieste. Da paventare che un uomo così "pregiudiciale a' confini" veneti, così di "danno alle pubbliche rendite", non fosse messo in condizione di procurare guai peggiori. Non lo "vogli Dio", s'augurava il Molin. Pel momento il D. stava brigando a Vienna per succedere, nella rappresentanza cesarea a Venezia, a Humbert Czernin. Stava alla "prudenza" senatoria valutare "il pregioditio che causar potrebbe in simil posto". Per parte sua il Molin s'era adoperato a "screditarlo" ovunque e comunque avesse potuto. E contribuiva, così, anch'egli a frustrare, per ora, le aspirazioni del D.; fu infatti, Domenico Federici il nuovo ambasciatore a Venezia.
Spiacevole la mancata nomina per il D., ma non scoraggiante, ché anzi ne traeva incentivo per impegnarsi sistematicamente nell'amministrazione gradiscana, per rendere più inciso il proprio profilo e per poggiarlo sul riconoscimento, sgombro da ipoteche, della signoria duinate spettante alla sua famiglia. Un successo, dopo tante insistenze sue e dei fratelli Raimondo Bonifacio e Filippo Giacomo, il definitivo diploma di vendita di Duino del 28 luglio 1669. Ed era segno d'autorevolezza il fatto che, il 17 marzo 1670, assieme al vescovo Francesco Massimiliano Vaccano, inducesse, a Trieste, alla riconciliazione il Comune e il capitano barone Gianvincenzo Coronini. Ulteriore consolidamento del suo prestigio l'elevazione, del 1672, alla dignità di consigliere intimo dell'imperatore. Apprezzata altresì la permanenza - quanto meno dalla fine di luglio del 1674 sino al novembre del 1675, dapprima col titolo d'inviato straordinario imperiale, quindi in veste di gran maggiordomo - del D. a Varsavia presso la regina di Polonia Eleonora (la sorella, per parte di padre, di Leopoldo I nonché vedova del re Michele Korybut-Wiśniowiecki) che sorresse col suo consiglio in difficili circostanze.
La aiutò, infatti, a fronteggiare la fortissima ostilità nobiliare, s'ingegnò per tamponare le falle più vistose delle sue personali finanze devastate dai debiti, s'adoperò perché, nel contempo, non scadesse del tutto il tono della vita di corte. Dopo di che, nel viaggio di ritorno, peraltro disapprovato da Leopoldo, di Eleonora, il D. fu sua scorta preziosa; ed ebbe, quindi, un ruolo di mentore nelle sue seconde nozze - per lei ben più appaganti delle prime - del 1678 con Carlo di Lorena. E, riconoscente, Eleonora, da Graz ove s'era insediata, chiese direttamente all'imperatore che venisse assegnata al D. la presidenza della Camera a Vienna. Senza fortuna però, ché nocque al D. la scarsa dimestichezza col tedesco, per cui gli fu preferito il conte Breiner. Egualmente soddisfacente, comunque, per le sue ambizioni, la nomina, del 10 genn. 1676, a rappresentante imperiale a Venezia, ove - distolto da altre incombenze tra le quali figurano rapide missioni a Mantova e Milano e trattenuto da una tormentosa podagra che l'inchiodò spesso a letto - giunse solo nel maggio del 1679.
Affittato dai Foscarini un palazzo sul Canal Grande (dev'essere quello di S. Stae di cui in G. Tassini, Palazzi... di Venezia..., Venezia 1879, pp. 230 ss.) e ivi predisposta la sua lussuosa residenza, rinviò l'ingresso pubblico al 19 febbr. 1680, curando avvenisse nella forma coreograficamente più suggestiva. In effetti questo segnò uno degli episodi più memorabili tra i fasti della scenografia lagunare. "Riuscì in tal guisa - si scriveva a Roma, il 24 febbraio, dalla nunziatura veneziana - che memoria d'huomo non si ricorda havesse veduta simile in bellezza e vaghezza". Inaudita la sontuosità del corteo di gondole, "due delle quali tutt'oro sembravano geme natanti sull'onde". L'indomani, il 20, il D. presentò le credenziali al Collegio. Per "due giorni - quello dell'ingresso e quello della prima udienza - e notti", riferisce sbalordito l'osservatore pontificio, restarono, nel palazzo del D., "aperte due bottigliarie guarnite di molta argentaria, nel qual tempo si dispensarono squisitissimi liquori d'ogni sorte" ai visitatori di riguardo, mentre "la cantina", pure "aperta", provvedeva a distribuire "vini al popolo, quali, per esser vini di Friuli, facevano andar le voci al cielo d'allegria".
S'avvia così l'ultima e più significativa fase dell'esistenza del D., tutto proteso a conferire il massimo del prestigio alla sua presenza lagunare. Non per questo, tuttavia, dimenticava i "suoi interessi" nel Friuli orientale, né si scordava dell'amata Gradisca. In questa si recava sovente - e a Gradisca fece pervenire, eludendo l'occhiuta sorveglianza veneta, quell'ingegnoso telaio per fabbricare le calze il cui segreto di costruzione era stato trafugato, ancora nel 1614, dall'Inghilterra - pare da due mercanti inglesi antecedentemente messisi in contatto con Marcantonio Correr, ambasciatore a Londra - e quindi sempre gelosamente custodito; ma forse trattasi di quel procedimento di lavorazione pel quale, ancora il 22 maggio 1612, l'inglese Santheot Vaymont aveva ottenuto dal Pregadi un privilegio di trent'anni relativo, appunto, all'innovazione da lui proposta di "lavorare calze e gucchia in modo tutto differente et più facile" di quello in uso (Archivio di Stato di Venezia, Senato. Terra, reg. 82, c. 54v). Fatto sta che la lavorazione di calze di seta all'inglese su telaio sembra imporsi a Venezia stando ai Privilegi senatori del 18 giugno 1661, 15 luglio 1671, 19 sett. 1681 (ibid., regg. 162, 183, 203, rispettivamente alle cc. 285, 25, 37). Viva, altresì, la preoccupazione del D. per la peste, manifestatasi nel 1682 a Gorizia, ché non si limitò a biasimare la fuga precipitosa dei nobili della città, ma, sensibile alle angosciate richieste del luogotenente Lodovico Vincenzo Coronini e dei provvisori alla Sanità baroni d'Orzone, Garzarolli e Rassauer, inviò "droglie e medicamenti", medici e "pizzicamorti" da Venezia esigendo - di contro all'ostilità della popolazione che preferiva illudersi e non sentir parlare d'epidemia - fosse dato loro modo d'operare.
Non esitò, infatti, a propugnare un drastico intervento senza "compassione alla robba" e "case" essendo, a suo avviso, urgente "abrugiare tutto "ed evacuare la città spedendone "la gente sulli monti con buona guardia". E volle che il "modo di operare" del personale qualificato da lui inviato, sia pure con "romore" degli abitanti intestarditi a non riconoscere la gravità della situazione, fosse ben assimilato per valersene anche in futuro "dubitando io, purtroppo, che, anidatosi questo male nella Croatia, ... ci farà tregua, ma non pace ... e convenirà star lungamente guardati". Il D. sembra quasi voler sovrintendere alla lotta antiepidemica da Venezia, ove consultava costantemente il "parere" autorevolissimo del "protomedico" del "magistrato alla sanità", da cui apprese le "molte pratiche" attuabili in "tali casi", anzitutto "l'espurgo così necessario delle robbe". Esemplare per il D. la prassi veneziana, da imitare il ferreo controllo su uomini e cose da questa contemplato. I pericoli epidemici, pensava, allignavano soprattutto in Croazia, in "quelle parti", cioè, "incapaci di ordine e di regole". Lo sconcertava e l'indignava "impertinente ostinatione" della "cittadinanza" goriziana nel "ricusar li maestri di sanità e pizzigamorti" giunti da Venezia. "Io - commentava - n'haverei mai creduto che gente capace di ragionare potesse arrivare" al rifiuto del "bene" propostole dalla sua "paterna carità". Occorreva, allora, costringerla; ciò nella convinzione gli "avvertimenti da me sugeriti" potessero, con concorso della "misericordia" divina, "estinguere il male". Fatto sta che i due maestri di sanità e i quattro becchini dal D. inviati da Venezia vennero respinti.
Più di Gorizia grata al D. Trieste, da lui raccomandata, nel 1693, all'imperatore quale sede da privilegiare nella promozione dei traffici mercantili; ed una lapide collocata nello stesso anno nel nuovo palazzo pubblico - per l'erezione del quale il D. versò 1.000 fiorini - gli attestò pubblicamente la gratitudine dell'intera città. Naturale, per il D., adoperare, a mo' di paterno protettore, la sua influenza - che ebbe un tangibile riscontro nella pensione vitalizia di 4.000 fiorini annui e nel Toson d'oro "ma questo è pocho alli suoi meriti" gli scrisse, lusingandolo, il 13 maggio 1690, Marco d'Aviano) a vantaggio delle terre austriache.
Fastidioso, invece, talvolta, "il peso della sua ambasciata, la quale conveniva haver riflesso in più parti d'Italia", come confessò, nel febbraio del 1686, al patrizio veneto Domenico Contarini reduce dalla rappresentanza viennese. E certo non gli fu gradito il doversi sobbarcare "continue prattiche presso il duca" di Mantova per far uscire dal carcere un Canossa (un Claudio e un Luigi Canossa risultano rappresentanti mantovani a Vienna, rispettivamente nel 1669-70 e 1670-72), un funzionario accusato di contatti personali con altre corti, essendone "continuamente cruciato - così si sfogava col Contarini - dall'insistenze dell'imperatrice Eleonora". Forse anche per siffatte noie il ruolo d'ambasciatore, pur rilevantissimo, poté, a volte, non appagarlo. E indubbiamente, in un primo tempo, il D. dà l'impressione di preferire l'"ufficio del maggiordorno" alla corte viennese, pel quale il d'Aviano lo raccomandava all'imperatore, avendone, però, un cortese diniego: "il conte... - così Leopoldo al frate in una lett. del 3 apr. 1683 - è già buon cavaliere, ma in queste nostre cose di qua temo né so s'egli sia tanto informato. Io raccomanderò il tutto a Dio e quello" che "troverò per maggior sua gloria, risolverò". A Venezia, dunque, non a Vienna veniva ritenuto proficuo l'operato del D. che il d'Aviano valorizzava di sovente esaltandone "l'altissimo merito" presso l'imperatore. E il D. stesso sempre più s'affezionò alla sua carica lagunare, tanto che, in un colloquio del luglio del 1692 col patrizio Girolamo Venier, già ambasciatore a Vienna, lasciava trasparire "il suo dolore che il conte" Francesco Antonio Berka aspirasse a "questa ambascieria" che riteneva sua inalienabile prerogativa, disposto a rinunciarvi solo o per "sua volontà" o perché costrettovi dalla "falce di morte".
Frequenti, durante la rappresentanza del D., i fermi e i sequestri di "navilii", "vasselli", "petacchi", "marciliane", "fregate", "barche", "fregadoncini", "galioricini", "bastimenti", "legni", per lo più fiumani e per lo più "carichi di sale". E il D., volta per volta, sollecitava la "espeditione", insisteva pel "rilascio", reclamava la "liberatione". È "inevitabile", osservava, si verifichi "il negotio de' trasporti de' sali dal Regno di Napoli per Fiume et altri luoghi d'imperio", poiché, considerava, "il sale non è come il zucchero, questo superfluo nelle vivande e quello per condirle più che necessario". Ma per quanto contestasse la liceità della giurisdizione adriatica, il D. evitava d'inasprire i contrasti in proposito. Malgrado questi, a suo avviso, s'imponeva la convergenza tra l'Impero e la Serenissima, entrambi baluardi della civiltà cristiana, "validissimi argini contro l'onde impetuose dell'ottomana potenza". Si trattava di "potentati di nazione e governo differenti", ma, anche, "uniformi", poiché tutti e due miravano al "pubblico bene".
Deludente, in un primo tempo, l'atteggiamento della Repubblica di fronte all'aggressione ottomana: invano il D. prospettava la drammaticità dell'inarrestata avanzata turca, invano sollecitava reiteratamente aiuti per la vacillante "armata di sua Maestà". Stremata dalla guerra di Candia, Venezia si rattrappisce elusiva, può solo - si risponde più volte al D. - mobilitare le proprie residue risorse umane e finanziarie nel presidio vigile del suo "dilatato confine". Ma anche per lei l'assedio di Vienna costituisce un incubo; ed esulta all'annuncio della liberazione. "L'allegrezza - scriveva il D. il 21 sett. 1683 - le feste e le dimostrationi che si fanno dal popolo" veneziano "tutto per simile successo sono inesplicabili e per nessuna vittoria di questa repubblica in tempo di propria guerra è stato mai fatto tanto". Il D. aveva buon gioco nell'associarla all'entusiasmante prospettiva d'una rimonta contro la mezzaluna umiliata quando, il 15 genn. 1684, si recò in Collegio, latore dell'invito ufficiale ad aderire alla lega. Il "servitio" dell'imperatore finalmente poteva essere lumeggiato come "bene" dalla Repubblica. Il vantaggio poteva finalmente indossare panni eroici. Era un momento storico che esigeva accenti elevati: "vengo" - scandiva solenne il D. - con "propositione la più vantaggiosa che ... sia stata recata da secoli. Porto esibitione di perpetua sicurezza di gloria immortale, di inestimabili acquisti ... Vengo ad offerire ciò che la convenienza l'utile e la necessità persuade". Leopoldo, "vittorioso..., munito di potenti alleanze, poderosamente armato, ... offerisse" alla Serenissima "la liga contro un inimico battuto". Nel martellante perorare della sua calibrata concitazione sembrano fugate interminabili sequele di litigiose beghe, sono rimossi i sospetti e le diffidenze, vien quasi sgombrata la memoria dell'accanimento fastidioso e talvolta aspro d'un plurisecolare contrasto. Entrambi - l'Impero e la Repubblica - paiono convocati dal destino ad imboccare il luminoso cammino d'una trionfale epopea. Calunniosa, si premurava di precisare il D., la voce "artifficiosamente inventata" Leopoldo stia "per far ... la pace" colla Porta, tant'è che "cerca collegati" e "a me ... impone di non perder tempo per venire alle strette" e concludere al più presto. "Sua Maestà - s'infervorava il D. - non vuole, non deve e, ardisco dire, non può far pace". Del 19 gennaio la delibra senatoria di comunicare l'adesione veneziana a "così santa lega" al D., cui poi si precisarono i termini operativi d'un impegno bellico che voleva essere solo marittimo e non direttamente coinvolto nelle vicende del fronte terrestre, per il quale, perciò, egli doveva limitarsi a chiedere, volta per volta, "permissione di passo" a "reclute", "genti", "bagagli".
Erano comunque l'avanzata delle armi imperiali in terra è le imprese, non sempre fortunate, della flotta veneta il costante riferimento del D. che - non a caso dedicatario del Briareo titubante ... (Venetia 1686), un opuscolo che dava per imminente lo sfaldamento del colosso ottomano - valorizzava puntualmente soprattutto l'"acquisto" di Gran Neuhäusel Buda Seghedino Mohacz Belgrado. Si alternavano così, da parte del D., i rallegramenti complimentosi pei "buoni successi dell'armi venete" coll'enfatico rilievo ad ogni "battaglia guadagnata" dall'Impero, colla celebrazione delle "conquiste fatte da Cesare". Proficua, dunque, la "piantata intelligenza" veneto-imperiale, che il D. salvaguardava con apprensione di contro alle insidie francesi, specie dell'ambasciatore presso la Serenissima Denis de la Haye-Vantelet e dell'inviato straordinario François de Rebenach giunto a Venezia il 16 febbr. 1692 coll'impudente compito d'assicurarele intenzioni pacifiche del suo sovrano.
Sciagurato, per il D., Luigi XIV che aggredisce Leopoldo mentre è proteso al sacrosanto dovere di "cacciar dall'Europa tutti li turchi". Un'azione, questa del re cristianissimo, "la più scandalosa" che si possa immaginare, che - così il D. in Collegio il 6 nov. 1688 - le "historie" bolleranno con "detestatione et abhominatione". Specie a partire dall'occupazione di Casale del 30 sett. 1681, il D. non si stanca di denunciare i "vasti disegni" della Francia sull'Italia, d'accusare la tracotanza politicomilitare del re cristianissimo così lesiva d'ogni possibilità d'autentica "quiete". Vibra nel suo ammonente argomentare un accento di furente gallofobia. La Francia non è soltanto la potenza nemica, è una sorta di incarnazione del potere più perverso. La valutazione politica si esaspera nel D. sino a trasformarsi in durissima condanna morale, in sdegnato giudizio etico: sempre "male" le "intraprese" dei Francesi, adusi in tutte "le arti" del "male fare"; "infame scrittura" ogni loro testo propagandistico. Così il D. s'esprimeva nelle pubbliche udienze. Ed era, nei loro confronti, ancora più veemente nelle conversazioni private: "li chiamò - riferisce, il 16 febbr. 1689, Girolamo Venier destinato ambasciatore a Vienna - cani arrabiati che mordono amici et nemici et accusò di menzogna tutti i manifesti della Francia". Un dovere, allora, per il D. opporsi alla Francia, una grave colpa favorirla. E, poiché supponeva francofilo il cardinale Gregorio Barbarigo, avvertiva, il 17 febbr. 1691, Vienna che questi era talmente fanatico nella sua parzialità da essere, in cuor suo, più francese dell'odiato re Sole. E, il 10 marzo, a conferma di ciò, si premurava d'informare d'aver appreso d'una visita al vescovo di Padova dell'ambasciatore francese a Roma, il duca de Chaulnes Charles-Albert d'Ailly, durante la quale questi l'avrebbe ringraziato "delli sentimenti" manifestati "a favore della Francia", certo, altresì, che avrebbe serbato "li medesimi sentimenti, quando sarà fatto papa, come bramiva" Luigi XIV. Una decisa messa in guardia non priva di riflessi sul conclave allora in corso e, forse, addirittura influente sull'esplicito non gradimento imperiale che fece rientrare la candidatura del veneziano.
Sintomatica è la lettera del 1º aprile di Leopoldo a Marco d'Aviano che pur ostile alla Francia - tant'è che, il 21 apr. 1689, aveva scritto al D. d'augurarsi la penetrazione dell'armata cesarea "nel cuore della Francia" per infliggerle quanto Luigi XIV "ha fatto ... nella Germania" - caldeggiava, invece, l'elevazione al soglio del Barbarigo, di cui era amicissimo (P. Melchior a Pobladura, De amicitia s. G. Barbadici cum.. Marco ab Aviano..., in Collectanea franciscana, XXXI [1961], pp. 61-79). "Tutti lo tengono - scriveva, dunque, l'imperatore al frate - per un altro s. Carlo. Lo lodo anch'io, ma credo che per il governo della chiesa non basti la pura santità, ma bisogna... profonda prudenza et ... sicuro modo di governare. V'è chi lo tiene per assai partiale della Francia, ma non lo credo perché credo che un vero santo non possa mai esser partiale di Francia". Evidentemente Leopoldo era rimasto turbato dalle esagerazioni del D.: anche se non ne condivideva il giudizio, concordava colla sostanza dei suoi avvertimenti, vale a dire anch'egli - sia pure con diversa motivazione (Barbarigo è santo, ma perciò, è sottinteso, ingenuo ed imprudente) - riteneva inopportuna l'elezione.
Partecipe, il D., durante l'ambasciata dell'esigenza di reperire denaro per le esauste casse imperiali: per suo tramite si contrasse a Genova un grosso prestito e, in conformità a quattro contratti di mutuo stipulati fra il 1686 e il 1689, le relative somme vennero accreditate al D. nel Banco Giro di Venezia; grazie a lui Vittorio Amedeo sborsò una ragguardevole somma per l'investitura d'alcuni feudi. Ciò non toglie vedesse con preoccupazione la svendita di troppi feudi - e rattenendo lo sdegno ascoltò le profferte d'acquistare, con un'enorme cifra, le signorie di Trieste e Buccari e la contea di Gorizia avanzate da quel Francesco Maria Spinola, duca di San Pietro, che parrà placare col ventilato ducato di Sabbioneta quelle smanie principesche che, invece, Vienna deluse - e s'adoperasse per individuare altre fonti di finanziamento. Donde il suggerimento, nel 1690, d'un'ingegnosa imposta e, nel 1693, di una lotteria. S'indebolì, nel frattempo, la non robusta costituzione del D., s'aggravarono, accompagnate da crisi epilettiche, le sue abituali "indispositioni", specie quelle apportate dalla podagra che invano cercò di curare coi "fanghi" di Battaglia. Nel 1692 le "crudeli flussioni" fecero di lui - costretto a "farsi portar in cadrega" - "un vivo simulacro di miseria" e sofferenza. All'inizio del dicembre 1695 s'accanirono su di lui - stremato da "un anno di battaglia con varii accidenti stimati epileptici" - sempre più violenti gli attacchi del male sinché colto il 13 da "apnoplessia" che lo privò "di senso e di moto", morì a Venezia il 14 dic. 1695.
Scomparve, così, "doppo lunga penosissima infirmità", come precisò il giorno stesso in Collegio il segretario, "un soggieto" - così il d'Aviano, il 21, al nipote Luigi Antonio - di cui "il mondo christiano" serberà sempre "memoria", sulle cui qualità "le lingue" avranno sempre di che esercitarsi "loquaci". Clamorose quanto lo scenografico ingresso le solenni esequie del 14 genn. 1696: il lutto coinvolse tutta la città e si trasformò in accurato spettacolo. Sfilarono al completo le arti, le scuole, gli ospedali, le autorità, i diplomatici, gli arsenalotti con torce, gli ordini monacali, i preti secolari, mentre la bara veniva sorretta, sotto un baldacchino d'oro, dai capitani delle navi e deposta nella basilica marciana. Di qui la funebre processione si portò nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo, ove attendeva un altro imponente catafalco, di fronte al quale il somasco Felice Donà pronunciò una tornita orazione. Il nipote depose le "benemeritas cineres" nel mausoleo eretto per il D. a Gradisca, nella chiesa dei servi di Maria; collocate, invece, nella chiesa veneziana dei serviti le "interiora". E in quest'ultima un'epigrafe tombale - i cui resti - comunque, dopo l'incendio della chiesa finiranno nel lapidario gradiscano ricordava come, essendo "alibi corpus" e "in coelis anima", "hic" vi fosse, assieme agli intestini del D., la sua "Venetiis affectio".
Il D. è stato a lungo considerato, autore (e tale l'ha ritenuto corrivamente Pier Silverio Leicht) d'uno scritto fortemente critico nei confronti dello Stato marciano, con spunti ed accenti analoghi all'Histoire du gouvernement de Venise (Paris 1676) d'Amelot de la Houssaye e di questo, per taluno, passivo "centone", che - dopo un'intensa circolazione manoscritta, una versione tedesca a stampa del 1777, un compendio riassuntivo, uscito a Venezia nel 1797, col titolo di Prospetto storico-critico del passato governo veneto- è stato pubblicato, a Vicenza, nel 1856, come Relazione sulla organizzazione politica della Repubblica di Venezia al cadere del secolo decimosettimo...,a cura di G. Bacco, il quale, saviamente, evitando di pronunciarsi sull'autore, s'èlimitato a dirlo "manoscritto inedito di un contemporaneo". Anche se nei titoli dei manoscritti e nei cataloghi il D. figura come estensore, anche se il frontespizio d'un esemplare marciano indica il 1682 (e non mancano quelli che datano 1695) come data di stesura, il contenuto - specie dove si diffonde sulla travagliata successione dogale del 1675, e dove, definendo il Consiglio dei dieci "il più autorevole della Repubblica", sembra ignorare il ridimensionamento inflittogli nel giugno del 1677 - induce ad anticiparne la composizione entro il marzo di quest'anno e autorizza, pertanto, a rimuoverne l'attribuzione al D., giunto a Venezia nel 1679.
È probabile, invece che l'autore sia veneziano, forse nobile, interessato - anche con qualche voluto errore di dettaglio, con qualche inesattezza inserita ad arte - a stornare la propria identificazione. Si tratterebbe, allora, d'un esame di coscienza interno, d'una denuncia, dal di dentro, dello scadimento della dedizione alla cosa pubblica d'una classe dirigente inquinata dalla recente affluenza di nobili candioti sfuggiti al dominio turco, dannosamente divaricata tra l'indecoroso piatire dei suoi membri più poveri e il protervo prevaricare dei pochi più influenti, quei "grandi", cioè, solo intenti ad "arricchire e decorare i loro parenti di dignità insigni della patria". Un giudizio impietosamente severo, dunque, e, anche quando accenna all'ingordo accaparramento di "biade" a danno dei sudditi, quando condanna i nobili proprietari "sanguisughe dei contadini" - coraggiosamente aspro, il quale, per poter circolare senza scandalo, deve - questa la battuta finale dell'ipotesi svolta sino all'estreme conseguenze - apparire non già voce autocritica del patriziato ma malevola valutazione esterna. Un cammuffamento nel quale la paternità fittizia addossata al D. ha una sua credibilità: e rappresentante dell'Impero che, praticamente e ideologicamente, è sempre stato estraneo a Venezia, proviene da una famiglia dalle radicate tradizioni antiveneziane; suo padre, Gianfilippo, è stato, a suo tempo, ostilissimo a Venezia.
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