DELLA TORRE, Giacinto Vincenzo
Nacque a Saluzzo il 15 marzo 1747 da Filippo dei conti di Lucerna e Valle e da Vittoria Melano di Portula. Morto il padre e risposatasi la madre a Vercelli con Ignazio Costa, fu avviato alla carriera ecclesiastica, entrando nel convento di Torino della Congregazione degli agostiniani di Lombardia, dove emise la professione religiosa il 16 nov. 1763. Compì gli studi di teologia a Roma e poi a Bologna, dove fu ordinato sacerdote il 10 marzo 1770.
Mentre era lettore di filosofia e teologia a Cremona, iniziò un'opera rimasta inedita, Elogia virorum pietate illustrium, qui saeculo XVIII floruerunt in Italia et insulis adiacentibus, per scrivere la quale entrò in contatto con Girolamo Lagomarsini, chiedendogli notizie sui gesuiti più illustri e prospettando il vantaggio che la Compagnia, in quegli anni per essa tanto burrascosi, avrebbe potuto trarre da questa pubblicazione. Nel 1773 il D. iniziò la corrispondenza con G. Tiraboschi, con il quale collaborò alla Storia della letteratura italiana fornendo notizie su autori dell'Ordine agostiniano.
Ritornato a Torino, nel 1778 fu ammesso alle conversazioni della Sampaolina e diede il suo contributo al primo volume dei Piemontesi illustri con un Elogio storico critico di Giovanbattista Costa agostiniano vicario generale della Congregazione di Genova (Torino 1781) e al terzo con l'Elogio di Girolamo Negri agostiniano vicario generale della Congregazione di Lombardia (ibid. 1783). L'elogio a uno dei più forti oppositori del protestantesimo in Piemonte coinvolgeva, secondo il D., tutto il clero subalpino che aveva saputo porre un valido argine, con la propria fede e il proprio magistero, alla diffusione del calvinismo. Nel 1779 aveva pubblicato a Torino, sotto lo pseudonimo di Giovan Battista Moriondo, una nuova edizione dell'Ordine della vita cristiana del beato Simone Fidati da Cascia, premettendovi un Discorso sulla vita e le opere di questo beato; l'attribuzione al Fidati di alcune opere di paternità incerta (forse di Domenico Cavalca) provocò una confutazione di G. B. Audiffredi (Saggio di osservazioni…,Cosmopoli [ma Roma] 1790), cui il D. non replicò. Nel 1785 egli compose l'elogio Ne' solenni funerali di Maria Antonia Ferdinanda infanta di Spagna e regina di Sardegna (Torino 1785), che ebbe numerose riedizioni.
Il 2 nov. 1789 il D., che era divenuto commissario generale della sua Congregazione ed esaminatore sinodale della diocesi di Torino, fu designato da Vittorio Amedeo III arcivescovo di Sassari; la nomina della S. Sede giunse il 29 marzo 1790. Dopo essere stato consacrato a Torino dal cardinale V.M. Costa d'Arignano, il D. raggiunse la sua sede. Si segnalò subito per grande attività e zelo: favorì la costruzione di nuove vie di comunicazione per facilitare il commercio, appoggiò le riforme agricole che il governo sabaudo aveva avviato con il ministro Bogino e dotò di preziosi codici la Biblioteca civica di Sassari.
In Sardegna, però, si erano accumulati ed erano maturati in quegli anni alcuni dei problemi individuati ma non risolti dal governo sabaudo, soprattutto la questione feudale. Nel 1794 vi furono dei moti a Cagliari, dove il partito democratico antifeudale prese il sopravvento. A Sassari, antagonista della capitale, si polarizzò la resistenza feudale, di cui il D. fu uno dei sostenitori più autorevoli. La politica piuttosto ambigua di Torino non gli fu certo d'aiuto per comprendere la situazione e così egli fu travolto da questa crisi. Il contrasto tra le due città si acuì e Sassari, assediata, dovette capitolare. Fuggiti tutti i feudatari che vi si erano rifugiati, il D. e il governatore Antioco Santuccio si offrirono in ostaggio per risparmiare inutili violenze ai cittadini.
Portato a Cagliari e trascorsi alcuni mesi nel convento di S. Agostino, il D. si avvicinò alle posizioni del partito dei moderati che, nel frattempo, aveva preso il sopravvento.
In una lettera, pubblicata dal Giornale di Sardegna e indirizzata allo zio Vittorio Melano arcivescovo di Cagliari, allora in missione a Torino, egli sconfessava le posizioni assunte a Sassari l'anno precedente e invitava le fazioni avverse delle due città alla composizione dei conflitti. Eguale linguaggio di concordia tenne poi nell'ultima Lettera pastorale inviata ai suoi diocesani (21 luglio 1797). Ripercorrendo i momenti più salienti del suo episcopato, egli si augurava che il nuovo vescovo rimediasse ai suoi errori e chiedeva che la lettera fosse letta in "dialetto volgare" per essere compresa da tutti.
Frattanto, rientrato a Torino, era stato incaricato di pronunciare l'orazione per la morte di Vittorio Amedeo III, di cui egli ricordò la difficile guerra combattuta contro i Francesi, lodò la pietà, le riforme e il buon governo (Ne' solenni funerali di Vittorio Amedeo III re di Sardegna, celebrati nella metropolitana di Torino addì XXIII nov. 1796, Torino 1796).
Carlo Emanuele IV, succeduto al padre, designò il D. il 14 giugno 1797 a reggere la diocesi di Acqui; confermato da Roma il 24 luglio 1797, il D. dovette affrontare un altro episcopato denso di difficoltà.
Nel 1798, infatti, dopo aver costretto il re di Sardegna ad abdicare, i Francesi avevano stabilito un governo repubblicano e sollecitato il clero a riconoscere il nuovo stato di cose e ad agevolare, con la sua autorità, la formazione del consenso popolare intorno al nuovo regime. Il D., dando prova di grande realismo, si segnalò come uno dei vescovi più duttili nei confronti del governo.
Nella lettera pastorale del 22 dic. 1798 egli, raccomandando l'obbedienza alle autorità come primo dovere del cristiano, affermò che non solo la democrazia non era in contrasto con il Vangelo, ma che anzi la vera democrazia richiede l'esercizio di quelle virtù che "si imparano solo alla scuola di Gesù Cristo". Più che all'esempio di vescovi pienamente in linea con le direttive romane, come quello di Imola G. B. Chiaiamonti, il D. guardava con interesse all'esperienza della democratica Repubblica ligure, come provano gli stretti rapporti epistolari che egli manteneva in questo periodo con il giansenista genovese E. Degola, che di quell'esperienza era uno dei maggiori protagonisti. Non appare tuttavia nel D. alcuna adesione alle idee giansenistiche.
Nel dicembre 1798 il D. emanò anche un decreto per la riduzione dei giorni festivi, che il 4 ott. 1799, dopo la provvisoria cacciata delle armate francesi, egli stesso revocherà. Nei mesi precedenti il D. aveva assiduamente collaborato con le autorità di occupazione tentando invano un'opera di mediazione durante gli episodi di insorgenza antifrancese, che insanguinarono prima Acqui poi Strevi e altre località vicine, fino ad offrire la sua persona in ostaggio per evitare atti di rappresaglia.
Il più stabile ritorno della dominazione francese in Piemonte, dopo la breve restaurazione durante la quale egli si era comportato con grande cautela, indusse il D. a una duplicità di atteggiamenti: da un lato, sul piano dei grandi principi religiosi, operò una sostanziale difesa del magistero della S. Sede - come dimostrò a proposito della legge napoleonica sul matrimonio civile, nei cui riguardi ricordava al clero e ai fedeli l'osservanza delle disposizioni contenute nel De synodo diocesana del card. Prospero Lambertini -, dall'altra, sul piano politico, si piegò alla volontà di Napoleone e al suo progetto di fare del clero uno strumento del suo potere.
Particolare disagio suscitò nella diocesi, nel luglio 1804, l'omelia del D. Festeggiandosi con sacra pompa il faustissimo avvenimento di Napoleone Bonaparte al trono imperiale (Genova s.a.), in cui Napoleone, "giudice incorruttibile, vincitore generoso, padre indulgente", era salutato come "ristoratore delle religioni e pacificatore dei continenti".
Il suo spirito di adulazione gli fruttò la nomina all'arcivescovado di Torino (designazione imperiale del maggio 1805, conferma della S. Sede del 26 giugno successivo), ma gli consentì anche una proficua azione di tutela dei principi e delle istituzioni cattoliche della diocesi torinese. Questa, notevolmente ampliata in seguito al concordato che aveva ridotto da diciassette a otto le diocesi del Piemonte, si trovava allora in condizioni precarie, dopo il tormentato episcopato di C. Buronzo Del Signore.
Egli ottenne da Napoleone la riapertura del seminario diocesano (che fu restaurato, ampliato e riorganizzato) e l'esenzione dal servizio militare per i chierici; riuscì ad evitare la chiusura o la demolizione di molte chiese ed edifici religiosi o l'uso profano di essi (tra l'altro quello della basilica di Superga); ma soprattutto lavorò per ricomporre gli aspri dissidi che laceravano il clero torinese. In pochi anni seppe circondarsi di uomini di grande valore, appartenenti a diversi orientamenti: suoi vicari furono Emanuele Gonetti, un canonico già esperto nel governo della diocesi, Carlo Tardì, un agostiniano filogiansenista che convertirà la madre del Cavour, e Giuseppe Cacherano di Bricherasio. Poi chiamò a collaborare anche Giangiulio Sineo, uomo di sicura osservanza ultramontana aderente all'Amicizia cristiana, e Pietro Marentini, filogiansenista e massone, che godeva la fiducia di Napoleone del quale fu poi nominato cappellano. In tal modo, appoggiandosi ora all'una ora all'altra corrente, con un disinvolto tatticismo che aveva motivazioni strettamente religiose, poté favorire le iniziative da lui ritenute più utili alla religione cattolica: riuscì perfino ad ottenere che Brunone Lanteri e Luigi Guala potessero riorganizzare la gesuitica pratica degli esercizi spirituali a S. Ignazio sopra Lanzo.
Tra i maggiori episodi di cedimento del D. alla politica imperiale vanno segnalati la circolare del 7 apr. 1808 con cui prescriveva l'adozione del cosiddetto "catechismo imperiale" (accogliendo con ben due anni di ritardo l'editto napoleonico del 4 apr. 1806), l'intervento alle nozze di Napoleone con Maria Luisa d'Austria (1º-2 apr. 1810) e la partecipazione al concilio nazionale di Parigi (giugno 1811). In questa occasione il D., che ebbe le funzioni di segretario, chiese insieme con pochi altri padri conciliari la liberazione di Pio VII che era prigioniero dell'imperatore.
Il D. morì a Torino l'8 apr. 1814.
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