DELLA TORRE, Giovanni Maria
Nacque a Roma, secondo diverse fonti, il 16 giugno 1710 (ma l'iscrizione sottostante al suo ritratto pubblicato nelle Nuove osservazioni intorno la storia naturale indica il 1713, data accettata da alcuni biografi). Il padre, marchese Michele, apparteneva alla nota famiglia nobile di Lavagna trasferitasi poi a Genova, che fornì molti esponenti al patriziato della città.
Effettuati a Roma gli studi primari, nel 1720 il D. fu posto come convittore nel collegio Clementino, retto dai somaschi, dal quale passò poi al Nazareno, retto dagli scolopi; gli studi compiuti in quest'ultima sede ebbero probabilmente qualche influsso sui suoi orientamenti culturali, dato che in quegli anni vi insegnò matematica P. Chelucci, una delle figure centrali della divulgazione scientifica a Roma nel primo Settecento.
Il contatto con i religiosi e la precoce inclinazione ad una vita di studi lo orientarono ad entrare nella Congregazione somasca: novizio a Venezia dall'ottobre 1729 nella casa di S. Maria della Salute, vi professò i voti il 30 nov. 1730. Presso i somaschi veneti esisteva una tradizione scientifica, che certo arricchì la sua preparazione tanto che, pur non frequentando corsi universitari, il D. fu in grado subito dopo il 1730 di insegnare nel collegio dei nobili di Cividale del Friuli. Nel novembre del 1736 tornò poi nel Clementino come docente di matematica; buon conoscitore sia della tradizionale filosofia naturale, sia della fisica contemporanea, egli contribuì al periodo di massima fioritura del collegio, incidendo in senso riformatore anche sulla didattica della filosofia, surrogando e integrando l'insegnamento altrui. Una fonte attribuisce a questi anni romani un saggio sull'iride (che pero non risulta stampato), né è chiaro se fosse edito un suo commento alle canzonette Notomia degli occhi del confratello A. De Lugo, professore di retorica nel Clementino.
Dopo pochi anni (al più tardi nel 1741) il D. passò ad insegnare matematica nel collegio napoletano dell'Ordine, il Macedonio, e a Napoli restò poi sempre, compiendovi la sua attività di ricercatore e scrittore. All'insegnamento nel Macedonio associò l'altro, di fisica e matematica, svolto quasi quotidianamente nel monastero somasco di S. Demetrio; il prestigio conseguito nell'espletare questi incarichi orientò poi l'arcivescovo di Napoli, il card. G. Spinelli, ad affidargli l'insegnamento di matematica e fisica sperimentale nei due seminari napoletani (urbano e diocesano) che veniva riorganizzando. Poiché al seminario urbano erano anche ammessi studenti laici, il D. poté essere per circa un quarantennio il protagonista, accanto ai gesuiti del collegio dei nobili, della diffusione della nuova scienza nell'insegnamento secondario della città svolgendo un lavoro che per qualità ed estensione fu forse superiore a quello che si praticava nell'università, rinnovata, per quanto riguarda le discipline scientifiche, da Carlo di Borbone. Già questa dimensione del suo operare renderebbe importante la sua figura per il rinnovamento culturale del medio Settecento nel Regno di Napoli; molti dei cui protagonisti si formarono a contatto diretto con lui o con le sue opere (Mariangela Ardinghelli, F. Galiani e, più in generale, gli sperimentatori napoletani di fine secolo, tra cui D. Cirillo e D. Cotugno, e diversi degli ecclesiastici che furono notevoli cultori di scienza nel tardo Settecento meridionale). Per le proprie esigenze didattiche il D. compose un manualetto di Istituzioni arimmetiche, pubblicato anonimo a Napoli nel 1744 e poi, in seconda edizione ampliata e col nome dell'autore, nel 1752 (fu una revisione di questa una terza edizione padovana del 1768). L'intento dell'opera era delimitato sia dal proposito "di esporre le pure regole, che servono per numerare, senza dimostrarle", sia dall'esclusione di casi applicativi; essa incontrò una certa fortuna nella fase di transizione dalla manualistica secentesca a quella più matura del tardo Settecento meridionale, dal Caravelli alla scuola del Fergola.
Ebbe pure iniziali motivazioni didattiche, poi ampiamente trascese, l'opera maggiore del D., apparsa in origine in due volumi a Napoli, nel 1748-49, come Scienza della natura; nel primo volume il titolo era specificato in Scienza della natura generale, nel secondo in Scienza della natura particolare. Il mondo terrestre. Edizioni rivedute della Scienza della natura molto più che opere distinte (come si trovano spesso presentate) sono le Institutiones physicae (2 voll., Napoli 1753), in pratica una traduzione latina, con limitate integrazioni e modifiche, della sola prima parte dell'opera e gli Elementa physicae (8voll., Napoli 1767-69), versione latina di tutta l'opera con ampie aggiunte. Due altre edizioni della Scienza, nel testo del 1748-49, si ebbero a Venezia (1750) e a Napoli (1774-78).
Nel piano originario, mantenutosi quasi integralmente nei rifacimenti, il primo volume ha cinque sezioni ("Della materia"; "Della estensione"; "Della resistenza"; "Della mobilità, e del moto"; "Le affezioni secondarie della materia, o le qualità"). Il secondo volume, che focalizza l'analisi su una regione specifica, la Terra con la sua atmosfera, ne ha quattro ("Della Terra"; "Delle viscere della Terra"; "La superficie della Terra"; "L'atmosfera"). Questi titoli danno però un'idea inadeguata dell'ampiezza dei temi: le sezioni prima e seconda della parte seconda equivalgono a un trattato di geologia; la terza è una summa non solo di geografia generale, ma di tassonomia e fisiologia animale e vegetale, di idraulica, di geodinamica e vulcanologia; la quarta espone ampiamente ottica e acustica. Nella forma di trattazione l'opera ha carattere non matematico, e l'ampiezza tematica che ne faceva una enciclopedia delle scienze fisiche e chimiche, pure e applicate, la rese in certi punti sommaria per gli specialisti (come già osservò G. Lami recensendola nelle Novelle letterarie, XIII [1752], coll. 222 ss.); ma la vastità dell'informazione, che ha scarsi riscontri in opere europee del periodo, l'aggiornamento e l'unità della trattazione conseguita per via induttiva (quindi in modo ben diverso dalle sistematiche cartesiane o fisico-teologiche) ne giustificarono il grande successo (come osservò lo stesso Lami nelle Novelle letterarie, XV[1754], coll.5 8 s., e più nettamente A. Genovesi in un noto giudizio per la stampa dell'opera, che fu riportato nella prima edizione). Il ruolo storico dell'opera, forse la più influente sulla cultura scientifica meridionale del medio Settecento, va valutato separatamente quanto al piano strettamente tecnico e a quello più ampio della formazione dei quadri scientifico-tecnici del Regno di Napoli e della penetrazione della scienza europea nei circoli colti durante il regno di Carlo di Borbone. Esso è certo maggiore nel secondo caso, sia perché in quanto manuale enciclopedico la Scienza non era primariamente opera di ricerca (a parte spunti in elettrologia, e le concezioni geodinamiche e vulcanologiche di cui si dirà), sia perché, in una considerazione generalmente storico-culturale, essa presenta una complessa stratificazione di significati. In primo luogo la sua stessa strutturazione è sintomatica della transizione tra la manualistica di filosofia naturale, col suo impianto metafisico e le modalità analitiche discorsive, e un nuovo modello risultante dai Principia newtoniani e dal recente sperimentalismo; l'esame di ogni argomento inizia con amplissime discussioni storico-critiche sulle concezioni antiche e i loro nessi coi risultati recenti, che nell'insieme sono forse la più vasta storia della filosofia naturale classica scritta nel Settecento italiano, attenta a questioni sia biografico-dossografiche sia interpretative. L'analisi storica non condiziona però l'approccio empirico, né impone metodiche deduttive o sistematiche estrinseche; il D. pregia invece gli orientamenti empiristici, e se è vicino all'atomismo lo intende come semplice ipotesi esplicativa. Se in senso cosmologico l'orientamento dell'opera è atomistico, in uno metodico esso è nettamente favorevole a Newton, le cui Regulae philosophandi sono premesse al testo.
Con il D., dunque, l'identificazione della metodica del fisico inglese con la natura stessa dell'operare scientifico, avviata nei decenni precedenti nella cultura del Regno da autori come M. A. Ariani, N. Cirillo, i De Martino e C. Galiani, cessò di essere un fatto d'avanguardia per fungere da base di una nuova sintesi, da cui la metafisica tradizionale era tendenzialmente espunta: il lavoro del padre somasco si può quindi considerare, in buona misura, come la manifestazione scientifica d'una tendenza complessiva che si osserva, ad esempio, nell'evoluzione personale di un Genovesi. Esso svolse dunque un ruolo incisivamente illuministico, se ci si attiene alle categorie mentali di fondo e non ad atteggiamenti ideologici immediati, quasi assenti nel "tecnico" D., che in sede teologica ed etica si mantenne in piena ortodossia cattolica (ove si faccia astrazione da qualche critica originata dalla sua presentazione della relazione Dio-spazio nella prima sezione delle Institutiones). Questa delimitazione di interessi, insieme con la sua indole appartata e metodica, spiegano anche come nella storiografia sul Settecento napoletano la sua figura risulti meno valutata di altre più pubbliche e più ideologicamente attive; e va avvertito come il lavoro del D. sia emblematico della dissociazione del pensiero cattolico ufficiale da certi aspettì cosmologici della sintesi tomistica avviata nel pontificato del Lambertini, e come esso agì in tal senso su diversi ecclesiastici meridionali cultori di scienza (G. Orlando, O. De Bernardi, G. Del Muscio e altri). A permettergli di agire in tal senso fu anche il rapporto fiduciario con Carlo di Borbone. Subito dopo il 1750 il sovrano, acquisita la stamperia del principe di Sansevero, ne dette la direzione al D.; nel 1756 lo nominò suo bibliotecario, con l'incarico di ordinare anche il museo Farnesiano (poi Reale) allora a Capodimonte, incarico che il D. dichiarava di aver assolto in un biglietto al re del settembre 1759; a lui venne affidata anche la livellazione delle acque nel giardini della villa di Portici. Così il D. si trovò talora in una posizione di raccordo tra istituzioni e spinte culturali evolutive: nel 1750 fu tra gli esaminatori della Metafisica del Genovesi, che nella Vita ricordò anche che fu il D. a trasmettergli la richiesta dell'arcivescovo Spinelli di non pubblicare l'Istituzione teologica. Che la posizione personale del D. non fosse di chiusura appare comunque dalla gnoseologia lockiana della Scienza della natura e da fatti come il parere favorevole da lui dato (insieme con G. Orlandi) per la stampa della discussa Lettera apologetica di Raimondo di Sangro.
Dal 1755, costituita dal sovrano l'Accademia ercolanense per lo studio dei resti di Ercolano e delle altre località circumvesuviane, il D. ne fu uno dei soci originari, con la duplice funzione di sovrintendere, come responsabile della stamperia regia, alla pubblicazione degli atti, e di consulente per gli aspetti geologici e vulcanologici. All'attività del Vesuvio si era già interessato anteriormente, ma l'incarico, accademico ne fece l'argomento prevalente delle sue ricerche per più d'un ventennio, spingendolo a visitare numerose volte il cratere e facendone quasi il conoscitore vesuviano per antonomasia: fu consuetudine dei visitatori stranieri a Napoli con curiosità scientifica (tra essi Nollet, Lalande, Ferber) di compiere l'ascensione del vulcano con la guida del D., la cui figura è così presente nella letteratura di viaggio del periodo (ad esempio, dipende quasi interamente da lui l'analisi del vulcanismo campano nel Voyage en Italie del Lalande). Gli scritti del D. sull'argomento iniziano con la Narrazione del torrente difuoco uscito dal monte Vesuvio nell'anno 1751 (edita in quell'anno a Napoli), ma le sue osservazioni furono anteriori: nel 1748 sono attestate sue esperienze con vari animali nella grotta del cane di Pozzuoli, e nel 1749 egli accompagnò Nollet per osservazioni che questi pubblicò poi nei Mémoires dell'Accademia parigina delle scienze per l'anno 1750. In seguito il D. fu cronista analitico delle eruzioni vesuviane in: Supplemento alla storia del Vesuvio (Napoli 1761); Incendio del Vesuvio accaduto al 19 ottobre 1767 (Napoli 1767); Incendio trentesimo del Vesuvio accaduto gli 8 agosto 1779 (ibid., s. a., ma 1779); tutti questi non sono però che lavori preparatori o integrazioni al lavoro di sintesi, Storia e fenomeni del Vesuvio (Napoli 1755 e 1768; una traduzione francese dell'abate Péton fu stampata a Parigi nel 1760 e a Napoli nel 1771; una tedesca del Lentin apparve ad Altenburg nel 1783).
Dedicata al sovrano, di cui il D. loda gli interessi scientifici e ricorda le osservazioni microscopiche compiute insieme, l'opera raggruppa la materia in sei capitoli: stato presente del Vesuvio; confronto di questo con l'antico mediante una raccolta ordinata cronologicamente di tutte le testimonianze letterarie; serie cronologica delle eruzioni storiche e serie degli autori che ne hanno scritto posteriormente al 1631 (il D. riconosce ventiquattro eruzioni tra il 79 d. C. e il dicembre 1754); analisi dei materiali eruttivi; delineazione di una meccanica delle eruzioni. L'opera fu basilare non solo per la preziosa raccolta e critica delle fonti, ma perché pose chiaramente, forse per la prima volta in modo così esplicito, l'obbiettivo della storia di un vulcano non come successione di fenomeni esteriori, ma come il processo del suo farsi attraverso quei fenomeni. Dall'analisi strutturale del Vesuvio il D. giunse poi a generalizzazioni sulla genesi ed evoluzione dei rilievi, vulcanici e non; egli escluse una vera oritto-genesi, ammettendo rilievi originari (nati cioè con la creazione) la cui storia sarebbe così una evoluzione, ma non una costituzione: tale esitazione di fronte a una storicizzazione integrale ebbe anche origine religiosa (per i riferimenti biblici a montagne prediluviali e per il quadro cronologico ristretto desumibile dalle Scritture), ma il D. la motivò anche col rapporto molto grande che esiste tra la massa complessiva d'un vulcano e il materiale emesso in ogni eruzione (che obbliga a postulare un ingente numero di eruzioni, e dunque un arco temporale eccezionalmente lungo) e con la tesi di differenze chimico-mineralogiche tra i materiali eruttivi e quelli, sottostanti, di una ipotetica base vulcanica originaria. Anche sulla genesi dei materiali eruttivi e la meccanica della fuoruscita le idee del D., seppure spesso insoddisfacenti, segnano significativamente la transizione da concezioni vaghe e aprioristiche ad un approccio empirico: se si preclude la piena intelligenza del fenomeno negando l'esistenza di materia fluida incandescente entro il globo terrestre, e sostenendo l'isolamento assoluto della sacca lavica di ciascun vulcano, egli imposta concretamente il problema postulando, sotto ogni cratere, materiali e condizioni tali da determinare periodicamente, con un meccanismo "fermentativo", la formazione e l'espansione del magma. Nell'insieme la geologia del D. (la cui parte più generale è esposta ancor più ampiamente nelle sezioni rilevanti degli Elementa), nei limiti accennati e con occasionali errori interpretativi (Winckelmann criticherà la sua analisi della distruzione di Pompei e Ercolano) fu un momento rilevante, insieme al lavoro di autori come A. L. Moro e G. Arduino, del costituirsi della geologia come disciplina empirica autonoma nell'Italia del medio Settecento, e come tale essa formò i naturalisti meridionali fino al secolo successivo. Spallanzani si valse degli seritti del D. nel suo viaggio nelle Due Sicilie, e la cronologia delle eruzioni vesuviane sarà recepita quasi integralmente, nel 1857, nel classico Der Vesuv di J. Roth.Accanto al R.cosmologo della Scienza della natura e al geologo di Storia e fenomeni va ricordato anche, in quanto espressione d'un interesse vivissimo, il D. microscopista, inventore di alcune soluzioni tecniche e autore di osservazioni pregevoli. Egli realizzò un microscopio semplice montante, in luogo dell'usuale lente, una sfera perfetta; l'idea non era nuova, ma il somasco superò (a suo dire nel 1751) la difficoltà di ottenere sfere esenti da impurità e distorsioni, ed in ciò sembra che, nonostante alcuni contraddittori contemporanei, gli vada riconosciuta una priorità. Usando questo tipo di strumento (del quale amò servirsi anche Carlo di Borbone) il D. effettuò numerose osservazioni, di cui pubblicò una scelta col titolo Nuove osservazioni intorno la storia naturale (Napoli 1763).
L'operetta fu presentata come primo volume d'una serie, ma i successivi non furono pubblicati né, forse, scritti (le Nuove osservazioni microscopiche edite a Napoli nel 1776 sono sostanzialmente una riedizione). Nella prefazione e nel primo capitolo, dedicati alla struttura e all'uso dei microscopi, il D. descrive il suo strumento, annunciando che nel secondo volume divulgherà, il suo metodo per realizzare le sfere; come detto, il volume poi non apparve, ma l'autore rivelò oralmente il metodo, cosicché esso poté poi venir esposto in un suo necrologio apparso sull'Antologia romana. I quattro residui capitoli riguardano: "I corpi inerti"; "I vegetabili"; "Gli animali"; "Riflessioni sopra le osservazioni" (quest'ultimo aggiunto nel 1776); e presentano quarantasei osservazioni (la prima sulla microstruttura del platino; la seconda e terza su olio e aceto; le quarta-sesta su piante varie; le settima-quattordicesima sull'anatomia fine di vari animali; le quindicesima-quarantaseiesima sull'uomo). Tra esse hanno un rilievo storico e destarono dibattiti quelle sul sistema nervoso centrale, dove il D. credette di cogliere visivamente degli interscambi tra cellule che, in modo audace per un ecclesiastico, interpretò quale base fisica di processi psichici come la memoria (in precedenza questo suo materialismo, coesistente con l'ammissione dell'anima spirituale, l'aveva condotto nella Scienza della natura ad ammettere l'esistenza d'una anima nei bruti). Anche alcune osservazioni sul sangue, in cui descrisse corpi anuliformi, originarono un dibattito con interlocutori come J. T. Needham, Prohaska, F. Fontana, e lo spinsero a difendere la sua tesi in una lettera Praeclarissimo viro abati Noleto (Napoli s.n.t.).
Non mancarono al D. i riconoscimenti nell'ambiente scientifico; fu socio corrispondente delle accademie delle scienze di Parigi e di Berlino, della Royal Society londinese, dei Fisiocritici di Siena, nonché pensionario dell'Accademia delle scienze di Napoli. La sua grande operosità si espresse anche, nonostante la molteplicità degli incarichi, in contributi minori: amante della poesia, curò un'edizione parziale delle Rime di C. Caporali (Napoli 1762), a cui premise una vita dell'autore; nel quinto volume di Symbolae litterariae (Florentiae 1749, p. 71) A. F. Gori annunciò la prossima pubblicazione d'una sua Disquisitio de attractione, che poi non vi fu. Le testimonianze contemporanee sono concordi sulla grande semplicità, rettitudine e apertura umana del D., che per l'impegno scientifico e didattico non trascurò neppure il suo ruolo di religioso (fu a lungo predicatore nel collegio militare della Nunziatella).
Il D. morì a Napoli il 7 marzo 1782; l'orazione funebre fu tenuta dal confratello A. Bianchi, suo collega d'insegnamento nel collegio Macedonio.
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