DELLE LANZE (De Lances), Carlo Vittorio Amedeo Ignazio
Nacque a Torino il 1º sett. 1712 da Carlo Francesco Agostino, conte di Sale e di Vinovo, figlio naturale di Carlo Emanuele II, e da Barbara Luigia Piossasco di Piobesi. Suoi padrini di battesimo furono lo zio paterno, Vittorio Amedeo II, e la consorte di lui, Anna Maria d'Orléans. Morta la madre (2 febbr. 1721), fu condotto a Chambéry dal padre che era stato nominato governatore di Savoia (regie patenti del 7 apr. 1721).
Il paese era allora travagliato dai postumi della guerra e dall'incubo della peste scoppiata a Marsiglia; il padre del D., coinvolto in malversazioni della borghesia mercantile, nel 1724 fu condannato a morte in contumacia e alla confisca dei beni; fuggito all'estero, finì per stabilirsi a Bologna, dove morì il 18 maggio 1749.
Il D. intanto era stato avviato alla carriera militare. Era nei Paesi Bassi, quando nel 1730 seppe che Vittorio Amedeo II aveva abdicato. Dall'Aia scrisse il 17 settembre al cugino e nuovo sovrano congratulandosi; ma un mese dopo (17 ottobre) gli annunziava la decisione di troncare ogni carriera mondana per entrare fra i canonici regolari di S.te-Geneviève a Parigi (Stella, 1963, pp. 8 s.). In quegli anni S.te-Geneviève aveva acquistato notorietà come luogo di penitenza del diacono appellante François Páris e focolaio di opposizione giansenista. Richiamato dal padre, il D. si trasferì a Roma presso l'Accademia ecclesiastica fondata da Clemente XI, dove giovani nobili si preparavano alle più alte cariche della prelatura ecclesiastica. Ricevuto il suddiaconato a Tivoli nel 1731, rientrò l'anno dopo in Piemonte.
Ormai maggiorenne, riebbe i feudi paterni a eccezione di Vinovo, ma ne rinnovò la cessione al sovrano (15 ott. 1732), ottenendo in cambio una buona pensione (Guasco di Bisio, pp. 1438, 1819). Il 17 apr. 1734 conseguì il baccellierato in teologia presso l'università degli studi di Torino. Il 23 sett. 1736 celebrò la sua prima messa a S. Dalmazzo, la chiesa officiata in Torino dai barnabiti, tra i quali allora si distingueva il genovese Francesco Antonio Luciardi, professore di teologia morale all'università. A S. Dalmazzo il D. cominciò il suo primo tirocinio di cura d'anime. Ancorato tuttavia al mondo universitario, usava destinare parte dei suoi averi a sostegno di giovani studenti fino al conseguimento della laurea. La sua casa era luogo di riunione per quanti si appassionavano a questioni attinenti la riforma della Chiesa e il movimento giansenista. Per questo il giovane abate era tenuto d'occhio da quanti, come il vicario del S. Uffizio Giovanni Alberto Alfieri di Magliano e i fautori dei gesuiti, seguivano inquieti l'insegnamento regalista, gallicaneggiante e agostinizzante impartito nell'università dai professori più vicini al D., quali François Mellet e Thomas Crust.
Il riavvicinamento tra la corte di Roma e quella di Torino portò, come garanzia di lealismo e di ortodossia, al licenziamento del Mellet (1736) e del Crust (1739). Anche l'abate Amédée-Philibert Mellarède, amico del D., non ebbe rinnovata la carica di riformatore degli studi nel 1739 e si ritirò in Savoia nel castello avito di Bettonet (Stella, 1966-74, I, 1, p. 124-127). Il D. si appoggiò allora all'ala più chiaramente ortodossa del tomismo agostinizzante e dell'antibenignismo, che nel mondo universitario torinese aveva come figure di un certo spicco i due barnabiti, il Luciardi e G. S. Gerdil, e il teatino Michele Casati. Dopo il concordato del 1741 fu possibile in Piemonte riorganizzare l'apparato ecclesiastico mediante un più intenso intervento dello Stato. Una serie di regie nomine misero il D. in possesso di pingui abbazie. Nel 1743, ebbe l'abbazia nullius di S. Giusto di Susa, a cui ebbe aggiunta in commenda quella di S. Maria di Lucedio nel 1747. Rinunziato a S. Giusto, ebbe nel 1749 l'abbazia nullius di S. Benigno di Fruttuaria.
Il giovane abate volle subito dare prova che non si trattava di mera questione di rendite. Compiuta in Val di Susa la visita pastorale delle dodici parrocchie della sua giurisdizione, tenne il sinodo (28-29 apr. 1745) chiamandovi quali giudici ed esaminatori sinodali un folto gruppo di professori e dottori collegiati dell'università di Torino. Le deliberazioni adottate s'inserivano nella politica sabauda che mirava a tradurre in statuti disciplinari omogenei gli indirizzi dell'insegnamento universitario ufficiale. Tra l'altro fu condannata l'usura nei termini sostenuti da Benedetto XIV; fu abbandonato il Catechismo del Bellarmino e fu adottato quello di Bossuet, tradotto anche in italiano e più rispondente, oltre che all'insegnamento universitario, al bilinguismo amministrativo degli Stati sabaudi di terraferma; fu inoltre richiamato l'obbligo di usare le rendite ecclesiastiche per il decoro del culto e a sostegno dei poveri.
Agli stessi orientamenti s'ispirò il sinodo che il D. tenne a San Benigno Canavese, il 20, 21 e 22 giugno 1752. A San Benigno egli usò tenere ciascun anno assemblee sinodali. Istituito il seminario con atto notarile del 16 ott. 1749, ne fece l'erezione canonica con decreto sinodale del 16 sett. 1762. Nel volgere degli anni i seminaristi, dalle classi inferiori fino a quelle di teologia, raggiunsero la quarantina (Dondaria, p. 206). Nel 1750 impegnò l'architetto Bernardo Vittone a costruire una nuova chiesa abbaziale e un palazzo prelatizio adibito anche a seminario. Andava intanto componendo liti pendenti tra la mensa abbaziale, gli affittuari e le Comunità del territorio da lui dipendenti (Dondana, pp. 187-190; Sincero, p. 272).
Si andava profilando nel D. la figura del prelato ideale, rispondente alle esigenze sia di riforma interna della Chiesa sia di lealismo nell'ambito dello Stato assoluto (cfr., ad es., Brigida, pp. III ss.; Porro, pp. [III]-[XVII]. Dal sovrano pertanto fu nominato elemosiniere del re e procappellano maggiore di corte il 17 ott. 1746, in luogo di Ignazio Della Chiesa, già membro del magistrato della Riforma e nominato in quell'anno vescovo di Casale Monferrato. Il 10 apr. 1747 su regia nomina fu creato cardinale e, a seguito di ulteriori trattative, fu promosso quello stesso anno arcivescovo titolare di Nicosia (11 agosto), grande elemosiniere del re e cappellano maggiore di corte (30 agosto). In tal modo la corte da una parte otteneva una certa equiparazione ad altri Stati cattolici nel gioco dell'equilibrio europeo, dall'altra si sottraeva anche a competenze giurisdizionali che su di essa rivendicavano il parroco del duomo e l'arcivescovo Giambattista Rovero (creato poi cardinale nel 1756), noto come favorevole alla Compagnia di Gesù. Papa Lambertini per suo conto sperava di acquistare nel D., da lui conosciuto a Bologna, un tramite più fedele e meno manovriero di Alessandro Albani, cardinale protettore della Corona di Savoia e per qualche tempo anche di quella d'Austria.
Recatosi a Roma per la consacrazione episcopale e la presa di possesso del titolo cardinalizio, il D. ebbe modo di esordire nel ruolo d'intermediario appoggiando il ministro della corte di Torino, conte G. Balbis Simeoni di Rivera, nelle trattative che portarono all'erezione di Pinerolo a sede vescovile e alla nomina del primo vescovo pinerolese nella persona di Giambattista d'Orlié de Saint-Innocent, un prelato che, come lui, simpatizzava per molte istanze etiche di Port-Royal. Ma a Torino ben presto nella corte non a tutti riuscì gradito che alla meticolosità amministrativa di Carlo Emanuele III si aggiungesse lo zelo del D., pronto a sorvegliare sul preciso adempimento delle osservanze religiose. Ancora di più allarmava il fatto che il sovrano potesse giungere a intese con il papa, mediante il cardinale, al di fuori del calcolo meticolosamente calibrato dei suoi ministri; del D., oltre tutto, erano noti l'affetto per papa Lambertini e lo scrupolo per il giuramento prestato come cardinale.
Attorno al 1750 "per cabala di corte", come scrisse Benedetto XIV al card. de Tencin, il D., sentendosi mal visto, trascorreva "da maggior parte della sua vita" nell'abbazia di S. Benigno (Morelli, II, p. 303). Alla vita di corte e altrove il D. intervenne quando occorreva dar lustro alle cerimonie religiose sabaude. Il 12 ott. -1749 consacrò la chiesa di Superga; il 31 maggio 1750 benedisse a Oulx le nozze tra il duca di Savoia, il futuro Vittorio Amedeo III, e l'infanta di Spagna, Maria Antonietta Ferdinanda; poco dopo a Torino presiedette all'ostensione della Sindone. L'anno seguente a Milano prese parte alla traslazione solenne del corpo di s. Carlo Borromeo.
Contrariamente a quanto si suole ripetere (cfr., per es., Carutti, I, pp.200 s.), egli non svolse un ruolo determinante nelle iniziative dell'arcivescovo Rovero e di altri che portarono nel 1754 alla destituzione di Francesco Antonio Chionio da professore di sacri canoni all'università di Torino. Fu inoltre abbastanza estraneo alle vicende che nel 1756 si conclusero con la soppressione della nunziatura a Torino. Intervenne piuttosto, per ottenere il cappello cardinalizio all'ex nunzio a Torino Ludovico Merlini, e, su richiesta del papa, in appoggio alle credenziali dell'abate Domenico Morelli, incaricato d'affari della S. Sede a Torino dopo la partenza del Merlini.
Scrivendo in quegli anni al card. Domenico Passionei, a Giovanni Bottari, ad Augustin Clément e ad altri, più che su fatti piemontesi usava soffermarsi su ciò che definiva mali della Chiesa: l'indifferentismo religioso, prodotto, a suo giudizio, dal molinismo e dalla filosofia moderna, le manovre mondane della Compagnia di Gesù, il lassismo indotto dal probabilismo; ma s'inquietava anche per le iniziative dei Parlamenti di Francia in contrasto con il sovrano e non rispettosi della gerarchia ecclesiastica in punti toccanti il dogma o l'interna disciplina della Chiesa.
Sulla trama dei suoi carteggi intanto s'inserivano Gaspare Nizzia, suo vicario generale, Giacomo Michele Bentivoglio, chiamato come elemosiniere in corte dietro sua raccomandazione già nel 1747, Francesco Ludovico Berta, bibliotecario dell'università, e altri personaggi che in Piemonte andavano costituendo il nucleo più solido e più attivo del movimento giansenista locale.
Morto Benedetto XIV, il D. prese parte al conclave collocandosi tra gli zelanti non favorevoli ai gesuiti. Al nuovo papa, Clemente XIII, più che di cose piemontesi (controllate allora gelosamente a Roma dal conte di Rivera e dal card. Albani), parlò di problemi generali; chiese che fosse posta all'Indice laterza e ultima parte dell'Histoire du peuple de Dieu del gesuita I.-J. Berruyer e insistette perché fossero riprese trattative di riconciliazione con la Chiesa di Utrecht seguendo la linea tracciata dal defunto pontefice (Stella, 1966-74, I, 1, p. 235). All'oratorio della Chiesa Nuova poté intrattenersi con Ottavio Borghese e probabilmente anche con Paolo Maurizio Caissotti di Chiusano, due piemontesi che sarebbero ritornati in patria per coprire alte cariche ecclesiastiche. Conversando con Giuseppe Bianchini si mostrò entusiasta per gli studi di antichità cristiane che già durante il pontificato di Benedetto XIV venivano organizzati dall'Accademia di storia ecclesiastica e da quella di antichità romane con finalità erudite e mire apologetiche. Ritornato in Piemonte, del Bianchini appoggiò il progetto di una nuova Bibbia poliglotta da affidare alla stamperia reale di Torino (che però dovette rinunziarvi per inadeguatezza di attrezzature) o alla stamperia del seminario di Padova (cfr. lettera del D. a Bianchini: Torino, 13ag. 1760).
Durante il pontificato di Clemente XIII, quanto più diventava stringente l'offensiva delle corti borboniche contro la Compagnia di Gesù, tanto più maturava nel D. l'idea che se ne volesse la soppressione non essenzialmente per mire di riforma della Chiesa. Perplessità e interrogativi affollarono le sue lettere negli anni che videro i gesuiti espulsi dal Portogallo, dalla Francia e dai domini spagnoli. Nel 1767 Nizzia e Bentivoglio informavano i loro corrispondenti giansenisti di Francia e di Olanda che il cardinale, a S. Benigno, aveva dato alle fiamme i libri portorealistici, raccolti con tanta cura in passato. Non mutarono tuttavia i suoi convincimenti teologici e le sue tendenze pastorali. Si consolidarono piuttosto i suoi legami con personaggi moderati, come il Gerdil, precettore in corte del principe di Piemonte, il futuro Carlo Emanuele IV, e Antonio Martini, preside degli ecclesiastici convittori a Superga destinati all'alta prelatura negli Stati sardi. Il Gerdil, che al D. già nel 1748 aveva dedicato la Défense du sentiment dup. Malebranche, nel 1767 compose il fortunato trattatello Breve esposizione de' caratteri della vera religione, pubblicato con una premessa del cardinale. Il Martini, su sollecitazione di questo, intraprese nel 1759 una versione italiana della Bibbia che avrebbe voluto essere una replica all'Histoire del Berruyer e una risposta alle istanze di una fede cristiana illuminata.
Il conclave del 1769 pose in evidenza il D. tra i papabili, sicuramente nel quadro di manovre del card. Alessandro Albani (Stella, 1963, p. 37). Ma il partito delle Corone lo collocava tra i cardinali da escludere, perché capo, con i due Albani e altri, del gruppo favorevole ai gesuiti (Theiner, I, p. 225). Posto nondimeno in vista all'attenzione di Clemente XIV, poté intervenire da Torino positivamente nelle trattative che portarono nel 1772 a un nuovo assestamento delle circoscrizioni ecclesiastiche degli Stati di terraferma con l'erezione di Biella e di Susa a sedi vescovili.
Morto Carlo Emanuele III (20 febbr. 1773), all'atto di fare le condoglianze al nuovo sovrano, il D. presentò le dimissioni dalle cariche di grande elemosiniere e cappellano maggiore adducendo i propri scrupoli di fronte a interessi contrastanti, che avrebbe dovuto ugualmente tutelare, della Chiesa e dello Stato (Malines, Entretiens, riferito in Sainte-Croix, p. 408). Vittorio Amedeo III nominò al suo posto l'arcivescovo di Torino, Francesco Lucerna Rorengo di Rorà (10 apr. 1773). Il papa a sua volta ne accettò le dimissioni da arcivescovo titolare di Nicosia (12 apr. 1773). Il D. si appartava ufficialmente, mentre in Piemonte si facevano più forti le tensioni tra i vescovi favorevoli e quelli contrari all'impiego dei gesuiti in compiti pastorali nelle diocesi. Toccò a mons. Rorà intervenire a nome del re nei confronti di sei vescovi (tra cui d'Orlié e Paolo Caissotti) che avevano inviato una lettera collettiva di protesta (Torino, 1º apr. 1773) al vecchio vescovo di Saluzzo, Giuseppe Filippo Porporato di Sampeyre, benignista e favorevole ai gesuiti. Il D. preferiva trattenersi a S. Benigno, ma in corte era tutt'altro che assente.
Con chi impaziente chiedeva riforme e perorava l'intervento sul clero e sui beni ecclesiastici, così come avveniva in Toscana e in Lombardia, Vittorio Amedeo III usava schermirsi adducendo il fastidio che gli avrebbero provocato i rimproveri dello zio cardinale (Botta, p. 105). Se da una parte alla corte non conveniva precludersi la carta di un rampollo dei Savoia sul trono pontificio, dall'altra ne risultavano mortificati gli impulsi riformistici che cercavano di attivare personaggi tutto sommato moderati, come i Vasco e Carlo Denina. Si consolidava peraltro il convincimento che le paure e l'immobilismo fossero dovuti al troppo riguardo nei confronti di Roma, e che questo derivasse dall'eccessivo peso del clero nelle cose politiche. Privato, ad esempio, del diritto di nomina a benefici vacanti, l'alto clero era sollecito nell'indicare soggetti da nominare (Denina, 1809, V, p. 99). A riprova della moderazione politica e della concordia con Roma, soppressa la Compagnia di Gesù, al D. fu data la presidenza della Giunta ecclesiastica, istituita il 15 ott. 1773 con il compito di provvedere all'assorbimento del personale e alla redistribuzione dei beni già appartenuti alla Compagnia (Monti, II, p. 528).
Al conclave del 1774-75 il D. si presentò con la fama di protettore dei gesuiti; per questo non era gradito ai cardinali favorevoli alle Corone. Per superare i blocchi contrapposti, un gruppo di zelanti propose la candidatura del D. raggiungendo un massimo di voti il 25 ott. 1774; ma non fu possibile superare l'opposizione dell'influentissimo card. de Bernis (Stella, 1963, pp. 37 s.).
Rimaneva del D. l'immagine di un moderato, fedele tutore degli interessi papali. Il 22 marzo 1775 Pio VI lo nominò segretario della sacra congregazione del Concilio dispensandolo dall'obbligo della residenza a Roma. Poco dopo (30 dicembre), essendo deceduto l'incaricato d'affari a Torino, abate Morelli, il D. fu chiamato a supplire la mancanza di ministro pontificio finché non venne nominato a tale carica l'abate Emidio Ziucci (nov. 1778).
Ormai, intento a difendere quanto riteneva interessi della Chiesa e del Papato, e senza avere acquisito una sostanziale sensibilità alle istanze illuministiche di riforma, il D. interveniva presso la corte di Torino per segnalare soggetti degni, a suo giudizio, di ricoprire cariche ecclesiastiche, e con scelte tutto sommato apprezzabili, anche se non sempre felici.
Nel 1778, piuttosto che Vittorio Gaetano Costa d'Arignano, preferì appoggiare come cardinale di Corona Carlo Giuseppe Filippo di Martiniana, e di ciò gliene fece un appunto Carlo Denina (1790, p. 511). Grazie alle sue insistenze il Gerdil fu creato cardinale in pectore da Clemente XIV nel 1773; poi nuovamente creato cardinale e proclamato da Pio VI nel 1777 (Piantoni, pp. 51 s.). Morto l'arcivescovo Rorà (1778), il D. propose come vicario capitolare di Torino il proprio vicario a S. Benigno, Emanuele Gonetti: un personaggio che più volte sarebbe stato eletto a reggere la diocesi di Torino tra Rivoluzione e Restaurazione. Nel 1782 caldeggiò, ma con esito negativo, la nomina a vescovo di Losanna di Nicolao Alberto von Diessbach, l'ex gesuita organizzatore delle Amicizie, cioè dei gruppi che furono come gli incunaboli del movimento cattolico in Italia (Bona, pp. 127, 526 s.). Nel seminario di San Benigno fu educato tra gli altri Giandomenico Giulio, poi gesuita e autore di fortunate operette spirituali modulate di preromanticismo e di un agostinismo non dissimile da quello del Delle Lanze. Nel 1782 il D. andò incontro a Pio VI, reduce da Vienna, e lo accompagnò da Ferrara fino a Imola.
Dal titolo cardinalizio dei Ss. Cosma e Damiano fu traslato nello stesso 1747 a quello di S. Sisto; poi a quello di S. Ariastasia nel 1758, di S. Prassede nel 1763 e infine a quello di S. Lorenzo in Lucina nel 1783. Di quest'ultimo titolo destinò le rendite alla causa di beatificazione di Giuseppe Benedetto Labre, il mendicante che a Roma stava spesso adagiato davanti al palazzo del card. de Bernis, senza che questi avesse trovato in lui niente di spiritualmente notevole.
Il D. trascorse i suoi ultimi anni a S. Benigno, visitando e beneficando le famiglie povere dei terrazzani. Vi chiuse i suoi giorni il 25 genn. 1784.
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