Demagogia
di Luciano Canfora
Nel mondo antico e moderno Invano si cercherebbe una chiara e univoca indicazione del significato negativo del termine 'demagogia' e dei suoi derivati (δημαγωγόϚ, δημαγωγεῖν), passato di peso dal greco classico al linguaggio politico moderno. La prima attestazione di 'demagogia' (δημαγωγία) è in Aristofane, Cavalieri, 191. La commedia fu rappresentata nell'anno 424 a.C.: è dunque un'attestazione precedente Tucidide, VIII, 65, dove si parla della demagogia (nel senso di leadership) di Androcle, un esponente democratico ucciso da sicari oligarchici nel 411 a.C. Sia in un caso che nell'altro il termine indica semplicemente la guida politica della città, ovvero il far politica in un ruolo in vista. "Ormai - dice il servo A in Cavalieri, 191-194 - la guida del popolo (δημαγωγία) non tocca più a persone bene educate e perbene, è andata a finire nelle mani di un ignorante schifoso".È stato notato (v. Lossau, 1969, p. 84) che in Aristofane manca invece del tutto 'demagogo', che in Tucidide figura una sola volta (IV, 21, 3) a proposito di un politico, Cleone, che Tucidide non considera certo con favore. Circostanza che non dovrebbe indurre a pensare che, perciò, il valore del termine sia senz'altro negativo.
L'espressione adoperata ("Cleone che in quel periodo era ἀνὴϱ δημαγωγόϚ") fa quasi pensare a un ruolo formale. Inducono a pensarlo sia l'indicazione di tempo ("in quel periodo") sia la iunctura (ἀνὴϱ δημαγωγόϚ) equivalente per esempio ad ἀνὴϱ στϱατηγόϚ (Tucidide I, 74, 1) che significa 'persona in carica come stratego'. Sembra difficile sostenere (v. Lossau, 1969, p. 87) che l'epiteto abbia significato negativo perché riferito a Cleone, ed è probabilmente una sovrainterpretazione testuale suggerire che il sintagma ἀνὴϱ δημαγωγόϚ sia un conio ironico su ἀνὴϱ στϱατηγόϚ in quanto allusivo a una 'carica inesistente'.
Né deve ingannare un altro passo dei Cavalieri (213-219, nell'ambito del medesimo dialogo tra il servo A e il Salcicciaio), dove il servo così incita il Salcicciaio a fare politica per contrastare Paflagone (personaggio dietro cui è adombrata la figura dell'odiato Cleone): "Conquista il popolo con gustosi manicaretti di parole; tutti gli altri requisiti per la δημαγωγία li hai: una voce repugnante, origini basse, volgarità; hai tutto quello che ti serve per fare politica (πϱὸϚ πολιτείαν)". Poco prima il servo aveva detto che tanto, ormai, la δημαγωγία era passata dai bene educati alle persone "ignoranti" e "schifose". Qui c'è dunque una identificazione tra δημαγωγία e attività politica. E poiché c'è stata una mutazione nella politica, nel personale politico, dai "bene educati e perbene" agli "ignoranti schifosi", la δημαγωγία è caduta nelle mani di questi ultimi; se dunque questo è ormai il personale politico, il Salcicciaio può senz'altro far politica essendo dotato di quei requisiti che, oggi, sono peculiari del δημαγωγεῖν. Non è dunque il δημαγωγεῖν come tale un disvalore: gli è che oggi - così opina Aristofane nel 424 a.C. - lo si deve praticare con mezzi bassi. E infatti nell'omonima commedia i cavalieri ateniesi, la classe più cara ad Aristofane per il suo conservatorismo, l'educazione all'antica, ecc., si schierano senz'altro per il Salcicciaio, e suo tramite sconfiggono Paflagone-Cleone e favoriscono la rinascita del popolo (Demo, che è personaggio della commedia, ringiovanisce e ritorna fulgido com'era "al tempo di Temistocle e Aristide"). Ciò significa che anche il ceto dei cavalieri sa che, ormai, si fa politica con quel personale, dedito a quei metodi e che dunque c'è solo da individuare, tra quei politici, uno strumento da utilizzare per δημαγωγεῖν. Termine neutro, dunque, che si riempie di tratti negativi per il modo in cui i nuovi politici, provenienti dai ceti bassi, praticano la δημαγωγία.
Limpida riprova di ciò la testimonianza di Aristotele nella Costituzione di Atene: "In principio erano le persone perbene che facevano i demagoghi" (28, 2). Segue, nello stesso capitolo, la lista dei demagoghi del tempo andato, da Solone a Pisistrato, da Temistocle ad Aristide "il giusto". La lista è divisa tra "capi del demo" e "capi dei nobili", tutti 'demagoghi' dunque: non a caso lo stesso Aristotele nella Politica (1305 b 23) precisa che si può avere δημαγωγία anche all'interno delle oligarchie, e cita Caricle come demagogo dei Trenta e Frinico come demagogo dei Quattrocento. "Dopo la morte di Pericle - seguita Aristotele - a capo dei signori stava Nicia, a capo del demo Cleone, al quale sembra che spetti la massima responsabilità nella corruzione del popolo per quel che riguarda il modo di far politica (28, 3). Infine, "a partire da Cleofonte la δημαγωγία fu esclusivamente nelle mani degli sfacciati desiderosi solo di compiacere la massa" (28, 3).C'è dunque, per Aristotele, una parabola discendente dall'ottima demagogia dell'età arcaica (fino a Pericle incluso) alla totalmente pessima demagogia da Cleofonte in avanti. Dove collocare il punto di passaggio non era, forse, stabilito in modo convincente per tutti. Anche Tucidide, che sicuramente ha influenzato le idee di Aristotele sulla storia interna di Atene, poneva una cesura nel trapasso da Pericle ai suoi successori (II, 65). E l'anonimo autore della Costituzione degli Ateniesi (tramandata come di Senofonte ma attribuibile all'oligarca socratico Crizia) tende a presentare un quadro totalmente negativo del personale politico ateniese, ma non è detto che non includa anche Pericle tra le figure deteriori.
Nella scena finale dei Cavalieri di Aristofane il buon tempo, l'età sicuramente positiva, è quello di Aristide e Temistocle (v. 1325). Infatti per Aristofane, come per i comici più anziani di lui, Pericle è già un politico impregnato di cattiva demagogia, tanto da portare la città alla dissennata avventura della guerra (Acarnesi, 515-537). E in questa periodizzazione Aristofane e i comici non sono soli: c'è Platone nel Gorgia, e ci sono gli intellettuali delle città alleate-suddite, che odiano i capi della democrazia dominatrice e mettono tra i demagoghi tutti: da Temistocle a Cimone a Pericle (Stesimbroto di Taso).L'idea sottesa a questa visione di progressiva decadenza è che, col farsi avanti sulla scena politica del popolo (cioè dei nullatenenti, tenuti ai margini delle massime cariche politiche fino alla rivoluzionaria riforma di Efialte, 456 a.C.), lo stile della politica necessariamente cambia in peggio (è ciò che vuol dire Aristofane con la parabola dei Cavalieri).
E poiché dal tardo V secolo a.C. all'età ellenistica, salvo brevi parentesi di governi oligarchici o timocratici, il soggetto della politica ateniese è appunto il popolo, la massa dei non possidenti, si fa strada sempre più l'idea che la politica come tale, in una città retta a democrazia, non può che essere demagogia in senso deteriore: appunto come la descrive al Salcicciaio il servo A dei Cavalieri. Questo spiega il perdurare di una certa incoerenza semantica nell'uso di 'demagogia'. Senofonte l'adopera in senso nettamente deteriore nell'ambito di un discorso di Crizia (Elleniche, II, 3, 27), ma come semplice equivalente di πϱοστάτηϚ τοῦ δήμου in un altro passo della stessa opera (V, 2, 7). Gli oratori attici evitano quasi sempre il termine, e comunque non lo caricano di valenze negative (in Demostene c'è una sola volta δημαγωγοῦντεϚ in Chersoneso, 34, detto degli avversari). Platone non fa distinzioni terminologiche, poiché, coerentemente con le sue premesse, colloca sul versante negativo tutti coloro che fanno politica in democrazia, e perciò usa indifferentemente demagogo o 'capo popolare' (πϱοστάτηϚ) entrambi come disvalori.
È Aristotele che sistematizza e distingue, e accanto all'uso neutro del termine (di cui s'è già detto) adotta anche la nozione negativa di demagogo (Politica, 1292 a 7-15, 23-28) riferendola a coloro che "coi decreti" esercitano il loro dominio contro le (o al di sopra delle) leggi. Perciò - deduce - è dal demagogo che discende il tiranno (1308 a 22). Per Platone, com'è chiaro da quel che si è ora detto, il tiranno proviene in genere "dai capi popolari" (Repubblica 565 d). In Polibio ormai i termini 'demagogo', 'demagogia', 'demagogico' (II, 21, 8; III, 80, 3; XV, 21, 1) hanno unicamente significato deteriore: si tratta di persone e metodi che cercano, per fini perversi, di catturare il favore delle masse adulandole.Via via che si impone questa nozione deteriore, si fa chiaro che il veicolo privilegiato della demagogia è la parola. È latente, ma ben si coglie, negli sforzi definitori sin qui descritti l'identificazione tra demagogo e abile parlatore. Giova ancora una volta il richiamo al servo A dei Cavalieri: lo strumento che suggerisce per δημαγωγεῖν sono i "gustosi manicaretti di parole", e il primo requisito che richiede è la voce (beninteso "repugnante"). Repugnante è Odisseo, buon parlatore, nella tragedia euripidea: nell'Ecuba strappa Polissena a sua madre, nelle Troadi fa prevalere il consiglio di massacrare il piccolo figlio di Ettore. Repugnante è Drance, l'oratore-demagogo dell'Eneide (XI, 343-375), "l'unico fra i personaggi umani [del poema] assolutamente negativo" (cfr. A. La Penna, Drance, in Enciclopedia virgiliana, vol. II, Roma 1985, pp. 138-140).
E anche nella Costituzione di Atene di Aristotele, i segni esterni dello scadimento della δημαγωγία consistono appunto nel modo di parlare in assemblea: Cleone si presenta con la veste stretta intorno al corpo, come in abito da lavoro - laddove prima si parlava "in ordine", immobili e con la tunica cadente fino a terra -, "alza la voce e offende" gli avversari (28, 3); Cleofonte, per fare impressione e imporre il rifiuto della pace, si presenta all'assemblea ubriaco e con indosso la corazza (34, 1). Del resto tutta la polemica socratica e poi platonica contro la retorica come pseudoscienza del politico mira appunto a denunciare il carattere ingannevole della parola politica in generale (corrispettivo della condanna del mestiere di politico come tale). Sintomatica è, in questo senso, la divergenza tra Tucidide e Platone nel giudizio su Pericle. Per Tucidide Pericle è colui che "tiene a freno il demo e lo trascina anziché esserne trascinato", colui che rifugge dal parlare "per compiacere" (II, 65, 8). Per Platone Pericle è colpevole come corruttore del demo, per averne sollecitato le peggiori inclinazioni (Gorgia, 515 d-e). E infatti tutta la rappresentazione dell'oratoria periclea in Tucidide è quella di un oratoria contro corrente. Pericle è contro corrente quando impone la scelta della guerra e quando impone la strategia dell'arroccamento dentro le mura, e "si aspetta", per questo, l'ostilità del pubblico (II, 60, 1), e parla essenzialmente per ammonire ed educare, non per adulare o sollecitare facili riflessi condizionati.
Perciò il suo epitafio liquida (II, 36) i luoghi comuni del più demagogico dei generi oratori qual è l'epitafio, vera recitazione collettiva dei presupposti (anche razziali e imperialistici) della democrazia attica, e si effonde invece in una esaltazione piuttosto anomala, che è quasi una re-interpretazione del meccanismo democratico (II, 37), e in una definizione del ruolo storico di Atene non già in termini di destino imperiale ma di predominio intellettuale sul mondo greco (II, 40). Naturalmente anche Pericle sa toccare i tasti della retorica seduttiva, ma preferisce il franco smascheramento dei veri rapporti, fino alla dura dichiarazione, nel suo ultimo discorso (II, 63, 2-3), che l'impero è tirannide, ma per gli Ateniesi è anche una condanna: e rinunciarvi significa correre pericoli immensi, molto più gravi della guerra.Nasce, con il Pericle tucidideo (che forse rassomiglia non poco a quello vero), l'oratoria politica severamente pedagogica: il politico che rimprovera il demo anziché blandirlo. È il modello cui si attiene costantemente Demostene, per quel che possiamo giudicare dai discorsi assembleari superstiti. È notevole però che anche Cleone, nel suo più impegnativo discorso (Tucidide, III, 37), parli come Pericle in tono duramente educativo e per nulla adulatorio nei confronti dell'uditorio. Addirittura riprende da Pericle la nozione dell'impero-tirannide e dell'impero-condanna; e le sue parole sull'incapacità degli Ateniesi a serbare l'impero sono riprese da Demostene, Chersoneso, 42 (il che significa che non è del tutto esatta la consolidata veduta secondo cui Tucidide raffigurerebbe Cleone unicamente come un banale demagogo.
I moderni confondono spesso il Cleone di Aristofane con quello tucidideo, che invece ha tratti periclei e sollecita Demostene). Naturalmente, anche quando contiene forti elementi pedagogici e di contrapposizione al demo, la parola pubblica, destinata all'assemblea, è protesa alla ricerca dell'assenso, non può prescindere dagli elementi da 'comizio': il richiamo agli antenati e alla passata grandezza da emulare, l'insistenza sul destino di guida rispetto alle altre città, la polemica strumentale verso altre comunità rivali (Tebe) sono tutti ingredienti che in vario dosaggio rispuntano, mescolati alle formulazioni più impopolari, anche nell'oratoria demostenica, pur capace di sottrarsi alla spirale, tipicamente demagogica, adulazione/consenso. E perciò la critica dell'oratoria, se condotta con spietato rigore come è il caso di Platone, non risparmia nessuno, accomuna tutti nel mucchio dei parlatori ingannevoli.
Aristotele sa invece che quella comunicazione ingannevole è la parola politica: e quindi ne fa oggetto di studio anche teorico, la accetta, non la demonizza, scrive egli stesso tre libri di teoria retorica. Ma l'accomodamento empirico di Aristotele nulla toglie alla pertinente scoperta platonica del carattere intimamente demagogico della parola politica. Parola di persone educate (Pericle, Demostene) che hanno messo a disposizione del demo la loro capacità tecnica (la parola) in nome di un compromesso col popolo su cui si fonda il loro potere. Platone contesta quel compromesso, Aristotele no.
La critica socratica e poi platonica coglie in realtà un punto centrale: l'antitesi tra discorso scientifico e discorso politico (complice del quale è la retorica). E perciò finisce con l'includere nella demagogia (di cui il discorso non scientifico ma seduttivo è lo strumento) l'intera sfera della politica. È difficile sottrarsi a questa critica radicale del discorso politico. Fuori di essa resta l'impossibilità di definire uno statuto teorico della nozione di demagogia, oggetto di accusa reciproca (e reversibile) tra forze che si contendono il consenso.
Non a caso il termine stenta a rinascere dopo l'epoca (Grecia classica) della sua formulazione e originaria diffusione. Non è senza significato che il linguaggio politico romano non lo abbia ricalcato, come ha fatto con altri termini del lessico politico greco. E nella stessa Grecia moderna la rinascita moderna del termine non sembra aver avuto vitalità: la Μεγάλη ῾Ελληνιϰὴ ᾽Εγϰυϰλοπαιδεία, la grande enciclopedia nazionale neogreca, registra, alla voce δημαγωγία, unicamente l'uso e gli esempi (Demostene, Eschine, Iperide, ecc.) e i teorici (Platone, Aristotele) di età classica. Ancora nel Seicento Bossuet (Histoire des variations des Églises protestantes, 1688) esita ad adoperare il termine démagogue per definire i detestati predicatori luterani: "Il povero Melantone - scrive - si considera, nel bel mezzo dei luterani, come circondato da nemici o, per servirmi delle sue parole, tra vespe scatenate (guêpes furieuses)"; "vorrei - seguita Bossuet - che mi fosse consentito adoperare il termine demagogo", e subito spiega: "erano, ad Atene e negli Stati greci retti dal popolo, alcuni oratori che si rendevano onnipotenti sul popolaccio adulandolo" (V, § 18). In Melantone l'immagine delle vespe verrà, probabilmente, dall'omonima commedia aristofanea, dove i vecchi Ateniesi "bravi democratici", maniaci dei processi e devoti di Cleone (come il protagonista della commedia, di nome appunto Filocleone), appaiono in scena travestiti da vespe, perché col pungiglione del voto infilzano coloro che vengono trascinati in giudizio.
Ben si comprende dunque perché, dall'immagine aristofanea di Melantone, Bossuet sia indotto a pensare ai demagoghi ateniesi. Ma la parola (che figura, ovviamente, nella traduzione francese della Politica di Aristotele curata, alla metà del Trecento, da Nicola d'Oresme) gli appare tuttavia un calco sul greco, un impossibile neologismo.Anche Hobbes adopera il termine e subito lo spiega. Ed è interessante osservare che per lui 'demagogo' è senz'altro l'equivalente di "oratore efficace" (powerfull oratour): "Considera, in una democrazia, quanti demagoghi, cioè quanti efficaci oratori, hanno a che fare col popolo" (Philosophical rudiments concerning government and society, London 1651, cap. X, par. 6, traduzione inglese, curata dallo stesso Hobbes, del De cive, 1646, dove la frase si presentava in forma lievemente diversa: "Sed in democratia quot sunt demagogi, id est potentes apud populum oratores [...]").
Che la democrazia sia appunto il regno dei demagoghi, per Hobbes è assodato: ciò corrisponde alla sua più generale veduta secondo cui la duplicazione delle forme politiche codificata da Aristotele non ha senso, e dunque neanche la distinzione tra buona e cattiva democrazia (cioè tra democrazia e demagogia). Nella sua prima opera, la prefazione alla traduzione inglese di Tucidide (1628), Hobbes manifesta il suo entusiasmo per le idee politiche antidemocratiche dello storico ateniese: infatti - osserva - "in più occasioni sottolinea l'emulazione e rivalità tra i demagoghi [the emulation and contention of the demagogues] anche a costo di opporsi l'uno ai pareri dell'altro, con danno del pubblico" (English works, vol. VIII, London 1843, p. XVI). Funzionamento del governo popolare e demagogia, cioè attività degli oratori, sono per lui sinonimi: la democrazia consiste nell'esplicarsi di quella (deleteria) attività oratoria. Ancora nell'autobiografia in versi (postuma) spiega di aver tradotto Tucidide "per mettere in guardia gli Inglesi dagli oratori, quando dovessero affrontare decisioni politiche" (consultaturi rhetoras ut fugerent, in Opera philosophica quae latine scripsit, vol. I, London 1839, p. LXXXVIII).L'identificazione tra demagogo e "leader in a popular State" vale anche per Jonathan Swift: "Demostene e Cicerone sembrano differire l'uno dall'altro [come oratori], sebbene ciascuno dei due fosse a leader (or, as the Greeks called it, a demagogue) in a popular State" (Letter to a young clergyman [in origine: gentleman] lately enter'd into Holy Orders, 1721, in Satires and personal writings, Oxford 1932, p. 277).
Entrambi sono demagoghi, cioè "capi in città democratiche" (il che costituisce - sia detto tra parentesi - un'interessante, soggettiva, interpretazione di Roma come città democratica); la differenza è nel tipo di oratoria: più ragionativa e volta a persuadere l'intelletto quella di Demostene, più patetica perché indirizzata a una "nazione meno colta" quella di Cicerone. Ancora una volta demagogia e tecnica della parola sono elementi strettamente intrecciati. Questo testo di Swift ha avuto una singolare vicenda. Tradotto in tedesco, esso appare a Zurigo, nel 1757, nel volume Moralische Beobachtungen und Urteile, in forma anonima, come epistola di un illustre teologo a un prete: in questa forma esso venne utilizzato da Lessing nel XIII Literatur-Brief (1° febbraio 1759), scritto in polemica con C. Wieland e con la sua esortazione a imitare l'oratoria francese (Bossuet, Massillon, Trublet, ecc.). Lessing segnala di aver appena ricevuto dalla Svizzera quello scritto ma - soggiunge - "ho l'impressione di aver letto già altrove tali pensieri" (forse aveva avuto modo di conoscere lo scritto di Swift, che comunque nella sua prima edizione recava come firma la semplice sigla 'A.B.').
Nell'additare a Wieland il modello dei due grandi demagoghi antichi, Lessing non manca di osservare che la grande oratoria francese del Seicento, proposta da Wieland come modello, si era sviluppata "sotto un governo dispotico" (Gesammelte Werke, vol. IV, Berlin-Weimar 1968, pp. 120-121). Ciò rafforza l'impressione che, per Lessing, la connessione dell'oratoria dei due grandi demagoghi con le forme politiche democratiche delle loro città non costituiva, come invece per Hobbes e forse per lo stesso Swift, un aspetto negativo.È con la Restaurazione e con la persecuzione antigiacobina che 'demagogo' diviene l'epiteto stabile con cui si designano gli sconfitti della Rivoluzione e i loro ostinati seguaci. Jean-Pierre Faye (v., 1978, pp. 523-524) in una recente voce enciclopedica ha richiamato l'attenzione su di uno scritto di modesta rilevanza, risalente al 1825 (cfr. A. Roche, Histoire de la Révolution française, Paris 1825), dove sono, com'era da attendersi, definiti in blocco demagoghi tutti i capi della Rivoluzione, da Mirabeau ai girondini e ai giacobini, e quindi anche Tallien, l'artefice della trama antirobespierrista del 9 termidoro ("il giovane demagogo - scriveva Roche, p. 253 - corse a casa di tutti i nemici di Robespierre incitandoli a scuotere il giogo: Riuniamoci e decidiamo l'arresto di tutti gli anarchici e tiranni!"). In realtà questa terminologia, in quegli anni, non presenta alcuna peculiarità. "Da un secolo - osserva nel 1870 l'appassionato autore della voce Démagogie nel Grand dictionnaire universel du XIXe siècle diretto da Pierre Larousse - i nemici della Rivoluzione hanno talmente abusato [dell'epiteto di demagogo] che non ci si degna più nemmeno di notarlo" (vol. VI, p. 386). Nella prosa giacobina sono demagoghi invece i caporioni delle rivolte sanfediste. Ovviamente, data l'esaltazione delle antiche repubbliche propria dei giacobini, anche la riscrittura della storia antica nell'età della Restaurazione (e dopo) calca la mano sul carattere demagogico della democrazia radicale ateniese (Mitford, Curtius), trovando ampio riscontro e alimento negli antichi critici (Platone soprattutto).
Tanto più perciò si apprezza, contro questo prevalente orientamento, l'originalità contro corrente di un democratico come George Grote, il quale, non senza un intento polemico, riferisce la taccia di demagogia al benpensante e generalmente stimato Cimone (History of Greece, vol. V, London 1849), e si spinge a rivalutare la figura di Cleone, per esempio nella vicenda dell'assedio di Sfacteria (cap. LII) ma anche nella valutazione d'insieme della sua politica estera (cap. LIV) in opposizione alle critiche di Tucidide e ovviamente alla caricatura aristofanea.
Il nesso tra la rinascita del termine demagogia e la demonizzazione postuma della Rivoluzione francese giova a comprendere il diverso trattamento del termine in alcune importanti enciclopedie nazionali. Nell'Encyclopaedia Britannica manca del tutto la voce, vi è solo una sommaria definizione di 'demagogo' come "agitatore senza principî". Il termine non sembra dunque suscitare molto interesse. Nella Brockhaus Encyclopaedie viene riservata speciale attenzione al fenomeno delle "persecuzioni giudiziarie dei demagoghi" (cioè dei gacobini), Demagogen-Verfolgungen, negli Stati tedeschi, con particolare riguardo all'inasprimento di tali persecuzioni dopo l'attentato a Kotzebue (1819).
Al contrario il Grand dictionnaire di Pierre Larousse affronta il termine e il concetto in modo storico-analitico e con notevole approfondimento. Il volume VI, in cui figura la voce, esce nel 1870; con ogni probabilità è stato scritto prima del crollo (settembre) di Napoleone III: peraltro l'orientamento dell'articolista, fervente giacobino, in riferimento agli anni della Grande Révolution non collide con il corredo ideologico-propagandistico bonapartista; ma l'animus antibonapartista che in questa voce non traspare (è latente nei cenni al 1848) diventa chiarissimo nell'amplissima voce dedicata a Napoleone III nel volume XI (1874), dove tutta l'ascesa e presa del potere da parte di Luigi Bonaparte è descritta (e stigmatizzata) come un capolavoro da grande demagogo.
La voce Démagogie si apre dunque con una polemica osservazione sull'uso strumentale del termine: "Ecco un'espressione tipica del linguaggio polemico, che si adopera senza attribuirvi un significato preciso". Vi è poi una sorta di apologia del ruolo del 'demagogo': "Il termine vuol dire semplicemente guida del popolo; orbene, poiché i popoli non sono tuttora capaci di guidarsi da sé, non vediamo cosa ci sia di criminale nell'impegnarsi a dirigerli". Peraltro vi è una tragedia individuale del demagogo: egli "crede di guidare le folle, ma in realtà subisce il movimento piuttosto che imprimerlo: il che è così vero che, generalmente, con demagogia s'intende una situazione in cui il popolo, piuttosto che essere governato, governa". È il caso, vien fatto osservare nell'ultima parte della lunga voce, delle grandi figure della Rivoluzione: "Sono trattati come demagoghi, e tuttora denunciati ogni giorno come tali al giudizio dei posteri, tutti gli uomini di cuore che hanno preso parte alla Rivoluzione: Robespierre, Danton, Vergniaud, Mirabeau e persino Lafayette. Lo furono? Sicuramente. Non si conduce - seguita l'articolista - il popolo all'assalto della Bastiglia, non lo si lancia alle frontiere contro tutta l'Europa coalizzata senza sovreccitare sino al parossismo le sue passioni, le buone come le cattive. Ma una volta dato l'impulso, chi guiderà il movimento, chi lo frenerà, chi lo conterrà nei limiti della giustizia? Nessuno. I più forti vi si infrangeranno. A seguire con lo sguardo la breve carriera dei grandi cittadini che si posero alla testa della Rivoluzione, sembra di vedere dei fanciulli appesi a una locomotiva. Tutti vi si sono stritolati. Ma loro se lo aspettavano né si ripromettevano dai propri figli ingrati una tardiva riabilitazione. Perciò dobbiamo ammirarne la grandezza del sacrificio e l'immensità della dedizione".
Peraltro viene, nello stesso contesto, rifiutata la nozione di una demagogia unicamente 'di sinistra': "Prima di mettere sotto accusa i demagoghi di un'epoca a noi più vicina [rispetto al mondo romano di cui ha prima parlato] gli storici monarchici e clericali dovrebbero rileggersi i loro Annali. Ci furono mai demagoghi più focosi che i nobili e i preti della Vandea o del Midi?".Nonostante le premesse che mettevano in dubbio l'esistenza stessa di un "significato preciso" del termine, nonostante la ritorsione della taccia di demagoghi nei confronti dei preti vandeani, anche l'articolista del Grand dictionnaire paga il suo contributo alla visione tradizionale: e identifica la demagogia con quella "frazione del popolo, la più turbolenta e la più folle, che si arroga il diritto di parlare e di agire a nome di tutti". Il riferimento è alla "minoranza faziosa" che imponeva alla Convenzione la propria volontà, e alla "miserabile frazione [la minoranza socialista] che il 15 maggio 1848 invase l'Assemblea Costituente e ne proclamò la dissoluzione". È allora - conclude - che, contro la demagogia, si incomincia a invocare il dispotismo di un capo. La voce si ferma qui, ma il riferimento a Luigi Bonaparte non potrebbe essere più chiaro: la sua ascesa viene presentata come il frutto dell'eccesso "demagogico" del maggio-giugno 1848.
È la veduta ricorrente: demagogia come 'eccesso' di una fazione popolare (il resto del corpo civico, impaurito, invoca il despota). Essa coesiste con l'altra, non meno diffusa ma che sembra invertire i termini del problema: demagogia è l'azione di aspiranti despoti che strumentalizzano la massa popolare, soprattutto la meno consapevole.
Faye, J.-P., Demagogia, in Enciclopedia Einaudi, vol. IV, 1978, pp. 519-534.
Finley, M.I., Athenian demagogues, in "Past and present", 1962, XXI, pp. 3-24.
Lossau, M., δημαγωγόϚ, Fehlen und Gebrauch bei Aristophanes und Thukydides, in Festschrift Rudolf Stark, Bad Homburg-Berlin-Zürich 1969, pp. 83-88.
Schaefer, H., Prostates, in Realencyclopädie der classichen Altertumswissenschaft, di A.F. von Pauly e G. Wissowa, suppl. IX, Stuttgart 1962, coll. 1287-1304.
Woodhead, A.G., Thucydides portrait of Cleon, in "Mnemosyne", 1960, serie V, 13, pp. 289-317.
di Giorgio Fedel
Nell'uso moderno e contemporaneo il termine 'demagogia' reca l'impronta del mondo classico da cui trae origine. Innanzitutto è un termine politico, sta per qualcosa che attiene al dominio della politica. A riprova si osservi che ogni qualvolta esso si stacca dalla sfera politica viene debitamente aggettivato: ad esempio 'demagogia religiosa' (v. Weber, 1920-1921; tr. it., pp. 1108-1112) oppure 'demagogia domestica, familiare, didattica, amicale, amorosa' (v. Fortini, 1945). Questi usi, oltre che essere eccentrici, sono metaforici; ossia utilizzano implicitamente il significato che demagogia ha nel campo politico e lo proiettano in quello non politico, cogliendo una somiglianza tra un campo e l'altro. Analogamente 'demagogo' è un sostantivo che denota primamente un attore politico e solo per traslato altri tipi di attori. Per contro, l'aggettivo 'demagogico' sembra colorare di politica sfere che di per sé non sono politiche: ad esempio 'arte demagogica', 'letteratura demagogica' (v. Auerbach, 1947). Comunque sia, demagogia, senza aggettivazioni, è e resta un termine del lessico politico: e ciò riflette in pieno il significato etimologico della parola (guida del popolo) che nel mondo della πόλιϚ è il contrassegno della politicità. Ma vi sono altre implicazioni.
La cultura greca identifica il tema della demagogia (e forgia la parola per trattarlo) nel quadro di visioni della politica che mescolano insieme giudizi di fatto e giudizi di valore in stretta connessione con i problemi posti dalla presenza di fazioni in competizione per la conduzione della πόλιϚ. Di conseguenza demagogia acquisisce non uno ma due tipi di significato: un significato descrittivo, che designa il semplice fatto della leadership politica; un significato valutativo, che esprime un atteggiamento di disapprovazione etica verso una particolare forma di leadership (la tirannia basata sullo status di popolarità del leader). Questo dualismo è insito nella stessa parola δῆμοϚ che indica sia la totalità del corpo civico sia la parte infima della collettività (v. Finley, 1983). Demagogia pertanto può riferirsi a un fenomeno strutturale della πόλιϚ senza alcuna risonanza negativa (o al limite con una positiva) (v. Connor, 1971, pp. 109-110), ma si carica subito di significati di spregio qualora venga riferito alla leadership della fazione plebea (e/o ai fenomeni che le fanno da corollario).
Con questa ambiguità 'demagogia' e 'demagogo' entrano nel lessico politico moderno conservando sia il significato svalutativo sia quello neutrale, ma la loro storia registra un'intensificazione degli usi 'derogatori' rispetto a quelli neutri, che pur permangono. Questo si spiega con il fatto che tali parole, proprio in forza della carica espressiva in esse sedimentatasi, si prestano a un uso pratico più che a un uso conoscitivo. Vanno bene cioè come armi della lotta politica (v. Dubois, 1962, pp. 96-97), ma si rivelano incerte e inadeguate quando le si voglia utilizzare per altri scopi, primo fra tutti quello scientifico.Per questa ragione demagogia e demagogo sono termini, sì, del lessico politico, ma del linguaggio pragmatico ordinario piuttosto che di quello delle discipline che studiano la politica. Ciononostante, poiché tali parole alludono comunque a fenomeni importanti (e sono di uso comune), esse vengono utilizzate anche dagli scienziati politici, e a volte con funzioni degne di nota. Conviene dunque esaminare questi usi se vogliamo dilucidare la questione della demagogia come fenomeno politico oggetto di conoscenza. Del resto, sia nei filosofi politici della tradizione moderna (cfr. ad esempio Hobbes, De cive, 1646, cap. X) sia negli intellettuali politici di oggi, attenti alla politica di massa, compare il termine demagogia, ma non una sua elaborazione concettuale, o - se compare - è ispirata esclusivamente da criteri di valore e risulta quindi arbitraria (v., ad esempio, Gramsci, 1975, p. 772, per il marxismo; v. Partito Nazionale Fascista, 1940, per il fascismo).
In letteratura il termine demagogia e i suoi derivati sono impiegati per lo più in senso intuitivo. Esistono tuttavia alcuni usi significativi nei quali la parola demagogia diventa una categoria interpretativa della politica (o di certi aspetti della politica) e, quindi, riceve una caratterizzazione esplicita.Un primo uso significativo fa capo a Edward Shils, che oppone 'demagogia' a 'politica civile'. La politica civile designa un modello ideale di interazione politica in cui gli attori apprezzano valori quali il compromesso, la tolleranza, la moderazione, l'idea del bene comune. La demagogia deforma le premesse stesse della politica civile, perché i demagoghi o attuano una 'politica ideologica' che persegue valori antitetici a quelli civili (l'assolutismo dei principî, la dicotomia amico/nemico, l'estremismo) o sfruttano con qualsiasi mezzo simbolico (drammatizzazione) l'opportunità di acquisire un vantaggio sui loro rivali (v. Shils, 1956 e 1990).
Di "dominio del demagogo" parla invece Sigmund Neumann per qualificare la leadership nei regimi totalitari e dittatoriali del Novecento. Questa forma di dominio prende il sopravvento quando le istituzioni politiche sono deboli, e possono così essere rimpiazzate da un regime in cui il demagogo diventa il "sostituto delle istituzioni".
Neumann identifica alcune caratteristiche del demagogo: è un uomo comune; emerge per le sue abilità oratorie; fa presa sui bisogni di sicurezza degli individui; propende per la parola 'parlata'; formula argomenti semplificati, ripetitivi, personificanti; dà grande spazio alla ritualità e ai simboli; proibisce ogni forma di opposizione (v. Neumann, 1938; v. Rüstow, 1950-1957).Un'interpretazione diversa è quella di Charles W. Lomas, che tratta la retorica dell''agitazione' nella storia americana (Dennis Kearney, Martin Luther King, ecc.). L'agitazione trascina con sé la demagogia - come discorso "indifferente alla verità", zeppo di figure retoriche, di pseudoragionamenti e di emotività - giacché i 'vantaggi personali' dell'agitatore derivano dall'impatto della demagogia sull'opinione pubblica (v. Lomas, 1968, pp. 13-20).Un altro uso significativo del termine si è avuto nell'analisi dell'aspetto demagogico della Presidenza americana di Jeffrey K. Tulis. Questa demagogia si manifesta - secondo Tulis - sia nel rapporto comunicativo tra presidente e pubblico, senza la mediazione 'politica' del Congresso, sia in determinate stilizzazioni delle issues grazie alle quali il presidente ottiene popolarità. Tulis sottolinea le tensioni intrinseche cui va soggetto il ruolo presidenziale, perché da un lato il dettame costituzionale proscrive il modello della leadership 'popolare', dall'altro vi sono forti incentivi, favoriti anche dai media, a che la Presidenza sia 'Presidenza retorica' (v. Tulis, 1987; v. Hart, 1984, pp. 134-139).
Ma dobbiamo risalire alla scienza politica del primo Novecento per reperire gli usi di maggior respiro del termine. Qui gli autori rilevanti sono Arthur F. Bentley, Max Weber, Gaetano Mosca e Roberto Michels. Questi autori, con una eccezione, connettono in modo avalutativo la demagogia al funzionamento del sistema democratico, sicché, se nell'Ottocento la demagogia veniva considerata "il pericolo caratteristico della democrazia" (v. Cooper, 1838, p. 101), ora il demagogo "è il frutto spontaneo del terreno democratico" (v. Michels, 1911; tr. it., pp. 16-17); di conseguenza Bentley afferma che "se togliamo a una parola come demagogo questo significato spregiativo e la usiamo nel senso in cui Demostene avrebbe riconosciuto di essere propriamente definito da essa, ne guadagneremo senza dubbio moltissimo" (v. Bentley, 1908; tr. it., p. 283).
Così Bentley utilizza il termine in una tipologia della leadership politica, distinguendo il boss dal demagogo. Il boss è il leader che esercita il potere attraverso il controllo della macchina del partito, soddisfacendo cioè alcuni interessi per fini di 'automantenimento' della macchina stessa. Il demagogo è invece il leader che "opera per mezzo di appelli alle passioni", e il suo campo d'azione è più ampio di quello del boss.
Tra i due tipi intercorrono poi dei rapporti: la macchina partitica e il boss mostrano una propensione a stabilirsi su una base demagogica, mentre la leadership demagogica, una volta insediatasi nei ruoli di governo e dovendo gestire politiche di lungo periodo, tende a trasformarsi in leadership bossistica.Weber parte da un altro problema, giacché stacca la demagogia dalla semplice tipizzazione della leadership politica per dislocarla sul comportamento elitistico del sistema democratico (v. Weber, 1919; tr. it., pp. 78 ss.). L'idea di fondo è semplice. L'introduzione del suffragio universale e la conseguente competizione partitica non mutano la sostanza oligarchica del processo politico, mutano invece i principî in base ai quali le élites sono reclutate e i metodi di lotta per il potere. Weber dunque individua nella demagogia una tecnica indispensabile della lotta politica, che consiste nel conquistare la "fiducia e la fede delle masse". Ne deriva che le capacità oratorie (e organizzative) e le qualità personali diventano il criterio di selezione dei capi politici e il requisito essenziale del successo elettorale. Il "potere plebiscitario" è dunque il possibile esito della contesa demagogica che contraddistingue la lotta politica in un regime di democrazia di massa (v. Weber, 1918, tr. it., pp. 104 ss., e 1919, tr. it., pp. 82).
Alla contesa demagogica rivolge l'attenzione anche Mosca, specificando (non senza apporvi una nota svalutativa) la natura e le dinamiche di questa contesa. A fronte di un corpo elettorale inclusivo i partiti devono cercare i suffragi anche negli strati più bassi della società, particolarmente inclini all'invidia e al risentimento verso le classi superiori. La demagogia incide proprio sul "senso così comune e diffuso di grossolana giustizia", promettendo la cancellazione di ogni gerarchia sociale e l'uguaglianza assoluta. Da questo punto di vista il flusso demagogico avvantaggia certi partiti a scapito di altri. È giocoforza dunque che i partiti colpiti dalla demagogia avversaria ricorrano a una controdemagogia che si avvale delle medesime tecniche, dallo sfruttamento delle "cupidigie", dei "pregiudizi" e degli "istinti più rozzi" alle "promesse impossibili da mantenere". Ne risulta una "ignobile gara", dove coloro che "ingannano volontariamente abbassano il loro livello intellettuale fino a renderlo uguale a quello degli ingannati, e moralmente scendono ancora più in basso" (v. Mosca, 1982, pp. 1021-1023; v. Sartori, 1957, pp. 76-77).
Michels ritorna sul piano avalutativo e focalizza il problema della demagogia in relazione alla formazione dell'oligarchia all'interno delle organizzazioni di massa (partiti e sindacati). La demagogia è un metodo oratorio che "trabocca di sentimentalità e di commozione sopra i dolori del popolo". In tal senso essa si connette con quegli appelli a ideali di giustizia e di emancipazione che configurano un "ornamento etico" di ciò che in realtà è solo lotta per il potere tra élites. La massa scambia così per valori universali delle mere razionalizzazioni di fini particolaristici di potere. D'altra parte la leadership consolidata all'interno dell'organizzazione non solo si appella continuamente a tali valori ideologici, ma asserisce anche magniloquentemente la propria conformità al "volere della massa" quando percepisce la minaccia di essere soppiantata da un'altra élite, e tuttavia - osserva Michels - "ogni nuova corrente di opposizione, che sorga nel partito, viene dai capi screditata coll'accusa di demagogia" (v. Michels, 1911; tr. it., pp. 13-20, 71-75, 175 ss., 239).
Abbiamo delineato alcuni usi del termine demagogia all'interno della scienza politica. Possiamo ora tentarne una valutazione. La prima cosa che balza agli occhi è che essi sono esigui: non sembra dunque che il termine abbia molta rilevanza. Un'altra cosa evidente è che non tutti gli usi sono neutrali, dandosi anche usi valutativi. Emblematici al riguardo sono rispettivamente l'uso di Weber, che designa il dato di fatto della demagogia come un portato della democrazia di massa, e quello di Shils, che contrappone in blocco la demagogia (come disvalore) alla politica civile (come valore). E venature svalutative sono presenti anche in Neumann, che imputa la qualifica di demagogo a figure negative come Hitler o Mussolini. Se poi Bentley perora esplicitamente l'uso non emotivo della parola, Mosca parla dell'escalation demagogica in termini di "ignobile gara". Questo oscillare tra la neutralità e la valutazione mostra le tensioni cui va incontro un termine peggiorativo quando se ne vuole fare un uso esclusivamente descrittivo. E ciò potrebbe già deporre a sfavore dell'opportunità di utilizzare un termine siffatto in un contesto conoscitivo.Cerchiamo ora di vedere che cosa gli autori intendono con demagogia. Dall'esame dei testi emergono due dati. Da un lato tutti gli autori, in modo più o meno esplicito, hanno in mente una tecnica comunicativa, dall'altro caratterizzano questa tecnica introducendo una molteplicità di tratti che riguardano la comunicazione nei suoi vari aspetti: i contenuti (promesse, ideali etico-politici, "volere delle masse", ecc.); le modalità retoriche e formali (pseudoragionamenti, ripetizioni, semplificazioni, oralità, "indifferenza alla verità", ecc.); gli scopi e le conseguenze ("fiducia e fede delle masse", "appelli alle passioni", "vantaggi personali", popolarità, ecc.); le condizioni esterne (riti, assenza di opposizione, ecc.). E la tendenza non è omogenea, perché alcuni introducono singolarmente questi tratti, altri li mettono in combinazione.
È dunque difficile sfuggire all'impressione di una certa confusione. Ma una seconda osservazione è importante.
Gli autori non solo caratterizzano diversamente il significato del termine, ma trattano anche la demagogia in riferimento a fenomeni politici eterogenei: la lotta per il potere nei sistemi democratici, sia quella interna ai partiti (Michels) sia quella tra i partiti (Weber, Mosca, Shils); la leadership politica generica (Bentley); un particolare ruolo di autorità (Tulis); i movimenti collettivi (Lomas); il funzionamento dei regimi non democratici (Neumann). Ora, una simile eterogeneità solleva immediatamente una questione, quella di comprendere il principio per cui tecniche comunicative associate a fenomeni politici così differenti rientrano tutte nel campo demagogico. Questo principio purtroppo si trova confuso (e disperso) nella congerie dei tratti via via proposti per caratterizzare la comunicazione demagogica, e d'altra parte gli autori non si occupano di chiarirlo, limitandosi ad applicare il termine demagogia selettivamente, ossia solo alle comunicazioni afferenti ai fenomeni politici cui sono interessati (v. Weber, 1918; tr. it., p. 106).
Ma qual è il rapporto tra la demagogia che scaturisce da una campagna elettorale e quella di un leader in un regime totalitario? Perché è coerente parlare di demagogia in tutti e due i casi? Per rispondere a tali domande bisogna identificare gli elementi invariabili che definiscono il campo concettuale della demagogia e alla luce di questi elementi esplicare e dare direzione unitaria agli usi politologici della parola.Una via può essere quella di prendere in considerazione proprio il significato etimologico della parola: guida del popolo. Tale significato ci dice poco o nulla di per sé, ma si rivela ricco di implicazioni se viene ricondotto al contesto in cui era operativo, e descrittivamente operativo. Che cosa veniva denominato nel mondo greco con i termini demagogo e demagogia? All'inizio notavamo che questa terminologia è collegata con la leadership politica. Tuttavia nella πόλιϚ l'organo sovrano (quello dotato di potere decisionale) è l'assemblea popolare; sicché vi sono delle connessioni specifiche tra la formazione della leadership politica e il funzionamento dell'assemblea. Dobbiamo perciò guardare a quest'ultimo se vogliamo lumeggiare il senso di 'guida del popolo'. L'assemblea funziona in due fasi, una fase di discussione e una di votazione. La discussione è un insieme di discorsi pronunciati da oratori in competizione che perorano dei corsi d'azione alternativi (fare la guerra o non fare la guerra, costruire templi o non costruirli, ecc.). I sostenitori dei vari corsi d'azione prendono a turno la parola; l'assemblea ascolta e poi, votando, decide quale parte seguire e quali corsi d'azione adottare (v. Fustel de Coulanges, 1864).
'Demagogo' quindi designa il leader politico in quanto designa colui che influenza le decisioni dell'assemblea popolare (v. Starr, 1990, pp. 58-59), e 'demagogia' è l'attività oratoria con cui il leader consegue questo risultato. Possiamo ora elencare gli elementi invariabili che cercavamo.
1. La struttura uno/molti.
Se la demagogia è l'attività oratoria dei leaders e questa attività si svolge nel corpo assembleare, essa si configura con una struttura obbligata, a due poli: l'oratore e l'uditorio, uno che parla e molti che ascoltano. Non vi è una conversazione come interscambio tra singoli individui, nel quale ai messaggi verbali dell'uno seguono quelli dell'altro nel flusso libero della reciprocità. Qui i messaggi provengono da un unico polo mentre l'altro polo non reciproca; vi è dunque una polarizzazione tra il centro di emissione delle parole, un individuo, e il centro di ricezione, una moltitudine di individui. Naturalmente, anche se si avvicendano oratori diversi, la struttura uno/molti non muta, si reitera soltanto.
2. La funzione motivante del linguaggio.
Nell'assemblea vi è chi parla e chi ascolta, ma il parlare implicato non è il normale parlare spontaneo: le parole sono proferite in vista di un fine preciso. Infatti, il demagogo utilizza lo strumento linguistico allo scopo di orientare il voto dell'assemblea nella direzione desiderata. Ciò significa che con le parole egli tenta di suscitare nell'uditorio determinati atteggiamenti (approvazione/disapprovazione, attrazione/repulsione, ecc.), ossia quegli atteggiamenti che reputa più adatti a produrre gli effetti corrispondenti alle sue intenzioni. Di necessità dunque il linguaggio risponderà alle esigenze del discorso persuasivo, emotivo, direttivo, in genere opposte alle esigenze del discorso scientifico, conoscitivo, informativo. Insomma, nella situazione demagogica l'efficacia del discorso non dipenderà dai contenuti di verità, dalla razionalità o dalla validità logica delle parole, bensì dal fatto che esse sappiano stimolare in modo adeguato il complesso motivazionale degli individui (valori, sentimenti, interessi, credenze), per controllarne l'agire.
3. L'emotività come requisito della ricezione del linguaggio.
Certamente i sentimenti fanno parte delle componenti motivazionali dell'agire. Di conseguenza, il discorso del demagogo farà presa anche (e soprattutto) sui sentimenti per produrre gli effetti voluti. Ma l'emotività si connette alla situazione demagogica anche in un altro senso più profondo, giacché la stessa struttura uno/molti è un canale dell'emotività che condiziona e il discorso del demagogo e l'effetto sull'uditorio. L'oratore parla di fronte a una moltitudine di individui riuniti fisicamente in un luogo. È evidente che siamo in presenza della condizione che causa il manifestarsi dei fenomeni tipici della psicologia di massa e che l'oratore diventa una potente fonte di stimoli (linguistici e gestuali) per l'attivazione di tali fenomeni. L'oratore tende quindi a trasformare l'uditorio in una "massa psicologica" (v. Eisenson, 1938, pp. 198 ss.), utilizzando la continuità temporale del discorso per scandire i passaggi delle reazioni emotive, e suscitando nell'uditorio sentimenti di impellenza espressiva. D'altra parte l'individuo inserito in una folla abbassa le proprie capacità raziocinanti e si conforma alle pressioni dell'ambiente. I membri dell'uditorio diventano così sensibili al contagio psichico, per cui certi sentimenti, una volta emersi in un individuo, facilmente si generalizzano e la percezione che uno stesso sentimento è condiviso da altri individui rafforza l'emotività complessiva.
Siamo ora in grado di dire qualcosa sugli usi politologici del termine demagogia. Innanzitutto constatiamo che tutti i fenomeni politici in riferimento ai quali gli autori usano questo termine implicano la struttura uno/molti. I 'molti' ovviamente variano: dal seguito di un partito a quello di un movimento, dall'elettorato di un regime competitivo alla massa mobilitabile di un regime non competitivo, dal pubblico dei media a un non meglio precisato pubblico di massa. Comunque sia, si tratta sempre di entità collettive che recepiscono il linguaggio proveniente da una fonte, sia questa un capo-partito, un agitatore, un leader totalitario, un'autorità costituzionale, ecc. Questo primo risultato è significativo, ma è anche un risultato parziale. Si potrebbe osservare infatti che gli autori trattano fenomeni di comunicazione e, per definizione, la comunicazione deve avere un centro di emissione e un centro di ricezione. Inoltre, chi comunica è un attore politico, e dunque è assolutamente normale che comunichi a molti. Ma è proprio qui il punto. La struttura uno/molti va integrata con gli altri elementi strutturali del concetto per indicare in modo qualificato la presenza della demagogia e, per così dire, la politicità della comunicazione demagogica. Anche sotto questo rispetto i risultati confortano la nostra interpretazione. Infatti tutti gli autori calano nella struttura uno/molti un processo comunicativo attraverso il quale l'attore che produce linguaggio usa il linguaggio stesso come una risorsa per ottenere sostegno dall'attore collettivo.
Alcuni autori lo fanno apertamente, o perché rivolgono l'attenzione a processi di potere in cui il sostegno della massa è la condizione e la misura del successo politico (Weber e gli elitisti), oppure perché focalizzano fenomeni di stile della leadership che, in quanto tali, riguardano da vicino la formazione di un seguito (Bentley). Altri invece lo presuppongono indicando fenomeni contigui al sostegno (la popolarità) (Tulis), o sottolineando i "vantaggi" che l'acquisizione del sostegno permette di conseguire (Shils, Lomas), o ponendo addirittura la demagogia a fondamento della legittimazione di un regime dove il demagogo è il "sostituto delle istituzioni" (Neumann). Ciò detto, è facile anche constatare come tutti gli autori definiscano demagogica la natura del linguaggio impiegato in funzione di motivazione del sostegno.
Alla 'funzione motivante' possiamo ricondurre quei tratti che abbiamo classificato come 'contenuti' della comunicazione (v. sopra). Che cosa sono infatti questi contenuti se non ciò che il linguaggio veicola per incidere sulle componenti motivazionali degli individui? Qui gli autori spaziano dagli interessi materiali (le promesse di remunerazione) ai contenuti normativi delle dottrine politiche ("ornamento etico"), a contenuti indifferenziati ("volere della massa"). E possiamo ricondurvi anche (e a maggior ragione) le 'modalità retoriche', le quali si riferiscono ai caratteri tipici che il linguaggio viene ad avere quando è impiegato in funzione motivante ed è destinato a un pubblico di massa (semplificazione, illogicità, "indifferenza alla verità", drammatizzazione).Ciò ci porta al terzo elemento concettuale (l'emotività).
Al riguardo bisogna notare che in letteratura è difficile trovare una distinzione tra le due matrici dell'emotività demagogica, del resto due facce della stessa moneta: quella legata al linguaggio e quella legata alla situazione di aggregazione fisica della moltitudine. E questo perché non è sempre chiaro se gli autori si riferiscono a pubblici riuniti, presenti fisicamente e in contatto diretto con chi parla, oppure a pubblici dispersi, distanti e raggiungibili con i mezzi di comunicazione di massa (v. Weber, 1918; tr. it., p. 61). Ad ogni modo l'emotività (comunque intesa) risulta un elemento centrale che ricorre in varia forma. Vi è chi definisce la demagogia interamente in termini di linguaggio emotivo (gli "appelli alle passioni" di Bentley) e chi colloca l'emotività tra i meccanismi del linguaggio atti a intensificare la spinta all'azione (Lomas); chi considera l'emotività indotta dal linguaggio demagogico come la causa dell'adesione fideistica a capi, a valori e a posizioni politiche (Weber, Michels, Shils), e chi fissa nella base emotiva dell'appello demagogico la fonte del potere manipolatorio delle élites sulla massa (Mosca, Michels); chi coglie nell'oralità del linguaggio demagogico il canale privilegiato dell'emotività, intensificata anche dall'uso della ritualità che determina un contatto fisico tra demagogo e massa mobilitata (Neumann), e chi infine mette l'accento sull'impatto emotivo delle strategie d'immagine della videopolitica che mette in rapporto diretto leader e grande pubblico (Tulis).
Il termine demagogia compare negli scritti politologici come un elemento del linguaggio ordinario impiegato discorsivamente e non come uno strumento di conoscenza teorica. Di conseguenza, gli autori si accontentano di utilizzarlo senza ridefinirne il significato in un senso analitico e lasciandogli l'indeterminatezza caratteristica delle parole di uso comune.
Abbiamo già notato che gli usi politologici della parola sono esigui e che questo può indicare la scarsa rilevanza del termine per la scienza politica. Ora che conosciamo le componenti sostanziali del concetto che sta dietro la parola, possiamo comprendere le ragioni non tanto dell'esiguità degli usi (l'effetto) quanto della poca salienza (la causa).Spesso tra le parole e i concetti non vi è una corrispondenza univoca, cosicché usi diversi della stessa parola possono esprimere concetti diversi e - quello che qui interessa - lo stesso concetto può essere denotato da parole diverse. Ne deriva che l'importanza di un termine dipende dal rapporto di insostituibilità che lo lega a un determinato contenuto concettuale. Se questo è vero, dobbiamo chiederci due cose: a) se il termine demagogia è insostituibile per denotare il contenuto concettuale che abbiamo enucleato; b) se la scienza politica ha utilizzato altri termini per indicare quegli aspetti della realtà politica definiti dal concetto di demagogia.
Basta un attimo di riflessione per rispondere negativamente alla prima domanda e affermativamente alla seconda. La struttura uno/molti, il linguaggio motivante il sostegno, l'emotività - insomma il contenuto concettuale del termine demagogia (almeno secondo l'impostazione qui seguita) - non vengono meno se eliminiamo questo termine e al suo posto ne mettiamo altri che, più di esso, appartengono al lessico degli scienziati politici, essendo i nomi che titolano interi filoni politologici. Ci riferiamo a lemmi quali 'propaganda' e 'simbolismo politico'.È facile vedere come il campo concettuale coperto da questi termini assorba quello di demagogia. Sia la propaganda sia il simbolismo politico sono fenomeni intenzionali di comunicazione (soprattutto linguaggio, ma anche equivalenti del linguaggio come i gesti e le immagini). E si tratta di comunicazioni indirizzate da attori politici a un pubblico di massa. La struttura uno/molti è infatti il criterio definitorio e della propaganda e del simbolismo politico (v. Kecskemeti, 1973; v. Rothman, 1981).
Entrambi i termini congiungono poi due idee: quella della necessità per gli attori politici di sollecitare il sostegno di grandi masse di individui e quella del ruolo decisivo dell'irrazionalità nell'attivazione dei comportamenti collettivi. Qui abbiamo il collegamento tra la struttura comunicativa uno/molti e l'emotività. Da un canto la propaganda trova nell'emotività il mezzo più idoneo a mobilitare il sostegno politico (v. Lasswell, 1935); dall'altro l'emotività diventa il principio stesso del simbolismo politico, visto come base del sostegno (v. Edelman, 1964).Risultano ora chiare le ragioni della scarsa rilevanza del termine demagogia: quando il contenuto concettuale di un termine coincide con quello di altri termini, e sono questi a prevalere, il primo diventa inutile. La scienza politica ha infatti potuto studiare i fenomeni che cadono nel campo 'demagogico' senza ricorrere a questo termine - e ciò senza alcuna perdita concettuale - e quindi ha elevato al livello della propria coscienza teorica la propaganda e il simbolismo politico, non la demagogia.
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