Demanio Regio
È con il Liber Augustalis di Federico II che il termine demanium ‒ quasi del tutto assente da fonti legislative precedenti ‒ fa la sua comparsa nel vocabolario del legislatore. Una comparsa tutt'altro che timida o incerta: con una sicurezza sorprendente, Federico ricorre al termine demanium in una quindicina almeno di costituzioni del Liber, cui vanno aggiunte quattro extravagantes. Di questa ventina di testi, soltanto due son fatti risalire a Guglielmo II (Const. I, 61.1 e III, 55), il che potrebbe far pensare a un uso del termine già consolidato dalla legislazione normanna. Ma si tratta di menzioni fatte di sfuggita, nel quadro di norme rivolte a tutt'altri scopi; per di più si sa che il testo delle Assise normanne pervenuto fino a noi è sembrato in molti casi rimaneggiato in epoca sveva. Sembra legittimo, dunque, attribuire a Federico l'intento di precisare con la propria legislazione un istituto che trova nel Regno una disciplina più ampia e dettagliata di qualunque altra coeva, e che era destinato per questo a favorire nei giuristi meridionali una riflessione sul tema dei beni pubblici che non ebbe eguali fuori del Regno (Leyte, 1996, p. 73).
Diversi elementi concorrono a determinare questa precedenza meridionale. La tradizione normanna giocava certamente il suo ruolo, giacché il vocabolo demanium compare con una certa frequenza nella documentazione amministrativa, a cominciare dal celebre Catalogus baronum, ove esso designa i possedimenti detenuti in feudo dai baroni ma non subconcessi ad alcuno. E la particolare qualità feudale dell'intero territorio meridionale conquistato dai normanni potrebbe giocare un ruolo importante nella precisazione del significato del termine: è proprio nel giuramento di fedeltà di Roberto il Guiscardo del 1059 che per la prima volta appare applicata a un vassallo laico della Chiesa la formula di giuramento che andava precisandosi in quegli anni per i vescovi, i quali erano tenuti a giurare, nell'entrare in carica, di conservare intatti i beni appartenenti alla mensa episcopalis. Applicati al sostegno materiale della diocesi, questi beni sono qualificati da uno status giuridico particolare, che li pone al riparo da ogni tentativo di alienazione. I duchi normanni, legittimati dall'infeudazione pontificia, prestano un giuramento analogo che li impegna a difendere "regalia Sancti Petri", e limita così il loro potere di disposizione su tali beni. Nel Regno meridionale, come più tardi nel lontano Regno normanno d'Inghilterra, è dunque la natura feudale del potere sovrano che induce una limitazione alla disponibilità dei beni demaniali, radicata nel giuramento d'incoronazione che costituisce una specie di legge fondamentale.
Accanto al retaggio normanno, su Federico doveva influire anche la tradizione imperiale germanica, che aveva elaborato per vie diverse meccanismi di tutela dei beni della Corona: già un documento di Enrico II del 1020 (Die Urkunden Heinrichs II., in M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae. Die Urkunden der deutschen Könige und Kaiser, III, a cura di H. Bresslau, 1900-1903, nr. 433, p. 554) accenna a un diverso regime tra i beni personali dell'imperatore e i beni del Regno, e la distinzione appare confermata dall'uso diplomatico di Enrico IV (1065) e poi da opere di dottrina come l'Opusculum de edificio Dei di Gerhoh di Reichersberg (1897, p. 152), composto tra il 1126 e il 1132. In Gerhoh doveva ormai pesare l'influsso di quella particolare conoscenza del diritto romano che le scuole d'Oltralpe erano solite inserire nella formazione dell'alto clero: il diritto pubblico giustinianeo cominciava in tal modo a esercitare la sua influenza.
Un secolo più tardi, nell'Italia federiciana, la conoscenza del diritto giustinianeo è ben altra: è naturale, dunque, che i beni della Corona finiscano per denunciare parecchi caratteri delle res fiscales tardoantiche, cioè di una categoria di beni che non coincide perfettamente con l'odierno concetto di demanio, giacché la dottrina medievale distingueva le cose del fisco da quei beni che si considerano oggi tipicamente demaniali, come le coste, le vie pubbliche, i corsi d'acqua: questi ultimi rientravano piuttosto, nel Regnum come altrove, fra le res communes o le publicae, e dovevano considerarsi esclusi da ogni proprietà. Le res fiscales, invece, potevano ben fare da modello per il demanio federiciano, proprietà immediata e qualificata del Regnum.
È significativo, in proposito, il caso di un documento del 1221 (Historia diplomatica, II, 1, p. 227) pervenuto in due copie lievemente diverse: concedendo diritti di sfruttamento di acque e pascoli "per demanii nostri terras", una variante della seconda copia legge "per proprias Imperii nostri terras", mostrando di identificare, appunto, le terre demaniali con quelle di pertinenza dell'Impero stesso.
L'estensione e la ricchezza delle terre di demanio regio erano assai cospicue. L'ampia disponibilità di risorse che i contemporanei riconoscono al Regno di Sicilia deriva in gran parte dall'attenzione posta dai sovrani nel mantenere il controllo dei territori e dei diritti appartenenti alla Corona (Kamp, 1974). Come i feudi sono oggetto di continui sforzi di controllo e di ripetuti interventi legislativi tesi a impedirne l'autonomia, così per le terre del demanio il sovrano si mostra geloso della propria autorità diretta, esercitata sulle cose così come sulle persone.
Già all'indomani dell'incoronazione imperiale del 1220, due assise promulgate a Capua nel dicembre dello stesso anno impongono il rilascio di beni e redditi demaniali indebitamente occupati. Le norme rispondono forse a sollecitazioni pontificie, giacché nello stesso anno Onorio III promulgò una decretale proprio in materia di inalienabilità dei beni della Corona (Liber Extra di Gregorio IX, 2.24.33), ma proseguono anche una tradizionale politica normanna.
Accogliendo fra le proprie costituzioni melfitane tre assise normanne (probabilmente interpolate; v. Servi), Federico mostra di ricollegarsi a una tendenza viva fin dal tempo di re Ruggero, che aveva voluto tutelare i bona regalia contro ogni depauperamento. L'impegno posto da Federico nel superamento del grave disordine creato dai lunghi anni di interregno sembra anzi aver agito sostanzialmente nella precisazione del concetto di demanio regio nel Regnum: le due costituzioni capuane sono poi rifuse nella Dignum fore del Liber Augustalis, in cui compare l'elenco ufficiale dei beni che costituiscono il demanio: ne fanno parte "civitates, castra, munitiones, casalia, villas […] redditus enim et servitia" (Const. III, 4.1).
Questo assetto prospettato dalla legislazione si rispecchia fedelmente nella dottrina meridionale che si trova condensata, a una cinquantina d'anni dalla morte di Federico, nell'opera di Andrea d'Isernia (v.). Cos'è il demanio nel Regno di Sicilia? si chiede Andrea non nella sua pur ricchissima Lectura delle Constitutiones Regni Siciliae di Federico II, ma nel commentario agli usus feudorum, diffuso anche fuori del Regno e tuttavia attentissimo ai problemi specifici posti dall'ordinamento meridionale. Siamo negli anni a cavallo tra il Duecento e il Trecento, ma Andrea risponde al quesito che si è posto richiamando l'opinione degli "antiqui nostri", e riferisce perciò un'interpretazione corrente nella dottrina meridionale: "sono chiamati demani le città, i castelli e gli altri beni, come dogane, gabelle, ed altre prerogative del sovrano [regalia] che gli antichi re hanno riservato al proprio dominio, non avendole donate né concesse".
Il demanio regio è dunque, per la dottrina giuridica meridionale, il patrimonio della Corona che non è stato oggetto di alienazione o di concessione. In questo senso il termine demanium è riservato dalle fonti legislative ai beni non concessi in feudo, e dunque l'espressione 'demanio feudale' (v.), a rigore, sarebbe una contraddizione in termini.
Il concetto di demanium non coincide però, almeno per Andrea, con i beni patrimoniali del sovrano, giacché se è vero che ciò che fa parte del demanio è anche parte del dominio del principe, non è vero però il contrario: esistono cioè beni non demaniali in proprietà del re. La differenza tra i beni demaniali e quelli patrimoniali è dunque costituita da uno statuto particolare del demanio, che ne fa un patrimonio vincolato, sottratto alla disponibilità incondizionata del suo proprietario.
Infatti, oltre a cose immobili e a redditi e servizi, il concetto di demanio si amplia nel vocabolario federiciano fino a comprendere le persone stesse, siano esse di ceto nobiliare, i milites o baroni di pertinenza demaniale evocati dalla costituzione Personas rebus (Const. III, 4.2), oppure di estrazione contadina, come quegli homines tutelati dalle costituzioni Cum universis e Quia frequenter, che proibiscono esplicitamente la creazione di legami di soggezione fra uomo e uomo all'interno dei demani regi.
L'appartenenza delle persone al demanio contribuisce a marcare la differenza, chiara alla dottrina, tra demanium pubblicistico e dominium privatistico. La salvaguardia delle prerogative regie coincide, in questo caso, con la proibizione di ogni sorta di asservimento, anche parziale, dell'uomo a soggetti diversi dal re, servitù che si tradurrebbe in un depauperamento del demanio stesso, il quale perderebbe una quota dei servitia prestati dal contadino. È naturale, perciò, che l'appartenenza al demanio stia particolarmente a cuore ai rustici delle campagne demaniali come ai borghesi delle città, che vedono coincidere la demanialità con la libertà. Agli uomini del suo demanio Federico promette in effetti la propria protezione con parole scultoree che evocano la defensio imperiale: "adversus quorumlibet impetus valeant clipeo defensionis nostre defendi" (Const. III, 7). E questa tutela regia è richiesta dagli homines Regni come un bene prezioso: Andrea d'Isernia prospetta il caso in cui alcuni di essi ‒ contro le pretese di un signore ‒ facciano valere il decorso del tempo per dimostrare l'originaria volontà del re di accoglierli nel demanio.
Come l'appartenenza immediata al demanio regio è sentita come l'opposto della dipendenza, e quindi garanzia di libertà, così la ricchezza materiale delle terre demaniali è presentata dalle fonti meridionali come ricchezza comune del Regnum. Tutti i sudditi possono denunciare usurpazioni del demanio, poiché è interesse di tutti che il demanio non venga diminuito, con la conseguenza che il principe debba incrementare i prelievi fiscali. Quest'interesse pubblico sui beni demaniali costituisce poi la giustificazione tecnica più convincente degli ostacoli posti all'alienazione dei beni demaniali da parte del re. Ancora l'Isernia riporta il parere dei giureconsulti d'età sveva ("antiqui periti Regni Sicilie"), che ritenevano che né il re né l'imperatore potessero disporre dei beni demaniali. Vincolati al sostentamento del re e del suo governo, i beni del demanio costituiscono, secondo loro, la miglior garanzia contro un inasprimento eccessivo della fiscalità. Si giustifica così anche la regola dell'imprescrittibilità dei beni demaniali, sostenuta da Marino di Caramanico (v.), ma rigettata da Andrea. Considerando "troppo favorevole al fisco" il pensiero del glossatore ordinario del Liber Augustalis, il più maturo Andrea tende a sfumare i caratteri più marcati che farebbero del demanio federiciano un patrimonio vincolato e indisponibile. Ne ammette perciò l'acquisto da parte dei privati per prescrizione immemorabile e anche l'alienazione o la concessione feudale da parte del sovrano, purché motivata da giusta causa e dall'impossibilità di valersi di beni regi non demaniali.
fonti e bibliografia
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