GIUSTINIANI (Giustiniani Ciprocci), Demetrio
Nacque a Genova da Tommaso, del ramo Giustiniani Ciprocci, che vantava molti interessi commerciali nella colonia genovese di Chio, e da Giorgetta Giustiniani verso il 1450 (forse nel 1451, se nel 1496 poteva accedere a cariche che richiedevano almeno quarantacinque anni di età).
Al pari di tutte le famiglie dell'"albergo" dei Giustiniani, tra le fazioni politiche che si contendevano il governo di Genova egli parteggiò sempre per quella popolare: era noto come mercante di orientamento bianco o ghibellino e quindi favorevole alla parte degli Adorno.
Le prime informazioni che lo riguardano datano al 1496, quando venne eletto nel Consiglio dei dodici anziani che affiancava il doge al supremo governo della Repubblica. Nel 1500 figurava tra gli elettori che dovevano scegliere e votare gli anziani, mentre l'anno successivo ricoprì di nuovo direttamente l'ufficio di anziano.
Dopo la discesa di Luigi XII in Italia e la sconfitta di Ludovico Sforza, allora signore di Genova, il governo genovese nominò il 20 sett. 1499 un'ambasceria di ventiquattro cittadini, tra i quali venne eletto il G., in rappresentanza di tutti gli ordini, con il compito di recarsi presso il nuovo sovrano per assicurargli l'obbedienza e la fedeltà della Repubblica, oltre a contrattare i patti di dedizione e la conferma dei privilegi genovesi. Il 23 settembre furono votate le dettagliate istruzioni che fissavano i limiti entro i quali i membri dell'ambasceria dovevano muoversi: il G., in particolare, ebbe il compito di perorare gli interessi genovesi nell'isola di Chio e di presentare al re un memoriale per conto di quella Maona, la compagnia commerciale monopolizzata dai Giustiniani che gestiva lo sfruttamento economico dell'insediamento coloniale genovese.
Giunta il 27 settembre a Pavia, la delegazione iniziò subito le trattative, spostandosi a Milano il 5 ottobre per assistere al solenne ingresso del re in città. Superate le difficoltà a far accettare quanto richiesto dai Genovesi e addirittura le minacce francesi di chiudere brutalmente i negoziati, dopo aver ottenuto le necessarie assicurazioni circa i privilegi da garantire al Comune genovese, al suo dominio e alla Casa di S. Giorgio, i delegati furono ricevuti dal re con grandi onori e il 26 ott. 1499 sottoscrissero l'atto di sottomissione e di trasferimento del dominio di Genova a Luigi XII.
Con la nomina di un rappresentante regio con il titolo di governatore, che in pratica sostituiva il doge, il nuovo sovrano stabiliva un controllo diretto sulla vita politica e amministrativa della città. Da un lato ciò produsse nell'immediato il conseguimento della stabilità e il superamento delle endemiche divisioni in fazioni dogali; dall'altro il rapporto privilegiato stabilito dai governanti francesi con l'antica nobiltà feudale, i cui servigi a favore del re vennero premiati con la concessione di feudi e di altri benefici, pur non interferendo sostanzialmente con la distribuzione delle cariche interne, doveva portare alla crescita del malumore e dell'insofferenza dei ceti popolari, che mal sopportavano il rafforzamento nobiliare.
Questi contrasti sfociarono nell'aprile del 1506 nella cosiddetta rivolta delle "cappette". Benché non figurasse tra i capi della sollevazione, né fosse tra i suoi sostenitori più accesi, il G. partecipò attivamente alle vicende di quei mesi, ricoprendo numerosi incarichi pubblici. Nell'agosto 1506 fu nominato con Vincenzo Sauli e Leonardo Di Facio oratore presso il governatore francese Filippo Cleves di Ravenstein ad Asti, per preparare il suo arrivo a Genova, in realtà per spiegare al governatore le ragioni dei popolari e controbilanciare la parallela azione di due inviati di parte nobiliare. Terminati all'inizio di settembre i colloqui con il Cleves, il 10 del mese il Consiglio generale, riunitosi a Genova per deliberare l'abolizione o la diminuzione di alcune gabelle (grano e vino) che gravavano sui ceti popolari, incaricò tre cittadini, tra cui il G., di studiare la questione e di rivedere l'intero impianto della tassazione. Il 16 ottobre seguente il G. entrò a far parte della commissione che doveva riformare l'ordinamento del Comune e ridisegnare a favore degli ordini popolari le modalità di distribuzione degli uffici.
Quando, il 22 ottobre, il Cleves impose ai magistrati genovesi, integrati dal G. e dagli altri due ambasciatori della missione ad Asti, la consegna alle truppe francesi della Riviera di Levante, essi accondiscesero per scongiurare un intervento militare francese contro la città, ma il giorno dopo i popolani contestarono con le armi quella decisione e mandarono a chiamare il G. e i maggiorenti delle famiglie nobili per chiedere conto di quell'assenso, fatto che conferma la sostanziale moderazione della sua posizione. Comunque, il 18 febbr. 1507 il G. si ritrovò nominato tra i quattro deputati alla Zecca che dovevano requisire gli argenti presenti in città per fonderli e battere nuova moneta. Il 28 successivo venne eletto tra i Dodici seniori popolari, la nuova magistratura che sostituiva nel controllo dell'ordine pubblico l'abolito ufficio di Balia.
Nelle settimane seguenti il nome del G. non compare più e non sembra dunque che prendesse parte attiva al breve dogato popolare di Paolo da Novi, tra il 10 e il 28 aprile, quando la sommossa prese un deciso orientamento antifrancese e con la nomina del doge contestò pure sul piano formale l'autorità del re. L'intervento armato delle truppe di Luigi XII pose tragicamente fine a quell'ultimo tentativo di stabilire a Genova un governo del popolo minuto e l'11 maggio il re entrava in città tra ali di folla che imploravano il suo perdono. Ottenuto nuovamente il giuramento di fedeltà, abrogò i privilegi di cui aveva goduto il Comune di Genova provvedendo a concederne di nuovi come atto della sua magnanimità, quindi revocabili a suo piacimento.
Confidando eccessivamente nel suo scarso coinvolgimento nelle ultime e più radicali fasi della sollevazione, il G. non fuggì da Genova come tanti altri della sua stessa famiglia. Forse per dare un esempio colpendo un esponente di una potente consorteria, il suo nome comparve nell'elenco dei settantasei cittadini ai quali il re rifiutò l'amnistia generale, dichiarandoli ribelli e rei di lesa maestà e comminando loro il bando e la confisca dei beni. Forse non si perdonava al G. di avere suggerito di richiedere l'intervento del papa a favore della cittadinanza genovese. Arrestato e sottoposto a un giudizio sommario, venne condannato a morte. Per un momento sembrò che riuscisse a riscattare la vita tramite l'offerta di 40.000 ducati, ma il re fu irremovibile.
Il 13 maggio 1507, giorno dell'Ascensione, il G. salì il patibolo eretto sulla piazza del Molo e fu giustiziato. Come monito, il suo capo mozzo venne infisso su una lancia e piantato sulla torre vicina, mentre il giorno dopo i suoi beni vennero sequestrati e le sue case probabilmente rase al suolo.
Il G. aveva sposato Mariola Giustiniani di Giovanni, dalla quale ebbe cinque figli: Demetrio, Nicoletta, Nicolò, Giovanni, Cattarina.
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