DEMOSTENE
. Figlio di Demostene, del demo di Peania, nato intorno al 384 a. C.: uomo politico e oratore ateniese. C'è nelle notizie che noi abbiamo sulla giovinezza di D. una parte sicuramente storica, che riguarda le vicende economiche non liete della sua casa, dopo la morte del padre, industriale in spade e mobili, quando D. aveva circa sette anni. Ma c'è un'altra parte, la più nota, che non ha nessun valore storico e s'è venuta elaborando presso i biografi alessandrini e le scuole retoriche, intorno ai suoi studî, ai suoi maestri, alle difficoltà superate nel raggiungere la perfezione dell'arte oratoria. Di questa seconda parte ci si può liberare subito ricordando solo per esempio che essa attribuiva a D. per maestri Isocrate e Platone, dei quali il secondo non ebbe nessuna efficacia su di lui, il primo scarsissima; che spiegava la sua vocazione ora con l'impressione indimenticabile avuta nell'udire un'autodifesa, non ben determinata, di Callistrato d'Afidna, ora con l'ammirazione per i discorsi inseriti nelle storie di Tucidide; che conosceva la spelonca presso il mare dove egli si ritirava a esercitarsi per vincere un difetto di pronunzia o per abituarsi ad affrontare la folla rumoreggiante, ecc. Per lo sviluppo spirituale di D. ha invece una certa importanza, tuttavia esagerata dai moderni, la complicata vicenda della sua economia famigliare. Perché D. fu lasciato dal padre sotto la tutela di tre tutori: Afobo e Demofonte, cugini paterni, e Terippide, un amico di famiglia. Ciò che Demofonte e Terippide abbiano fatto durante i dieci anni di tutela noi non sappiamo di preciso, perché D. non li tradusse mai in processo, benché li minacciasse: certo è invece che Afobo approfittò largamente dei capitali affidatigli. D., appena uscito di tutela, volle mettersi in grado di sostenere l'accusa contro il suo tutore e studiò oratoria e diritto giudiziario con Iseo, che fu dunque l'unico suo vero maestro. Il processo di cui restano a documento due orazioni sicuramente autentiche (XXVII-XXVIII, Contro la tutela di Afobo) e una assai probabilmente genuina (XXIX, Contro Afobo per falsa testimonianza) si protrasse a lungo e finì con la vittoria di D., perché Afobo fu condannato al pagamento di dieci talenti, multa compresa, somma tuttavia inferiore a quella pretesa da D., che riteneva o mostrava di ritenere di aver avuto in eredità dal padre un capitale di circa 14 talenti. Ciò conferma la constatazione ripetutamente fatta da critici moderni che i calcoli di D. sulla sua sostanza, specialmente nella prima delle orazioni contro Afobo, sono esagerati. D. non abbandonò, dopo queste prime prove felici, la professione di scrittore di orazioni giudiziarie (λογογράϕος). Come è noto, il diritto attico non conosceva un'istituzione corrispondente al nostro avvocato, perché pretendeva che ognuno patrocinasse di persona la propria causa, ma non poteva naturalmente impedire che le parti in causa si facessero scrivere da specialisti le loro orazioni. Ciò permetteva anche a un logografo di scrivere le orazioni per le due parti avverse. D., quale logografo, non si sottrasse, a quanto pare, a questa abitudine, che allora non era ritenuta disonesta; e ce ne fornisce ancora una prova, se è autentica, non solo l'orazione Contro Formione (XXXVI), ma anche almeno la prima delle due orazioni Contro Stefano (XVLXLVI), un testimone favorevole a Formione. Questa operosità professionale di D. non poté continuare dopo il 345 circa, quando le cure politiche dovevano assorbire tutta la sua attività; ma è arbitrario pensare che egli non abbia più potuto scrivere da allora in poi qualche orazione giudiziaria ed è conseguentemente errato ritenere spurie alcune sue orazioni, solo perché gl'indizî interni le dimostrano posteriori a quella data (v. sotto).
Al 355 circa risalgono i primi inizî dell'effettiva e decisa partecipazione di D. alla vita pubblica; una sua orazione del 359 per un tale che richiedeva alla βουλή la corona concessa al trierarca, che avesse primo apprestato la sua nave (LI, Sulla corona della trierarchia), non ha nessuna speciale importanza, anche se il richiedente è D. stesso, come fu acutamente congetturato dal Blass, il quale ricordava che D. fu appunto in quell'anno trierarca.
La situazione politica che D. trovava era assai complicata. Atene aveva le finanze rovinate in seguito alla guerra sociale, che le aveva fatto perdere alcune delle città confederate più importanti (Coo, Rodi, Mitilene, ecc.). Un tentativo di procacciarsi del denaro persiano aiutando il satrapo Artabazo ribelle al Gran Re era fallito. Intanto era scoppiata la guerra sacra, che aveva costretto gli Ateniesi a mettersi dalla parte dei Focesi contro i Tebani e Filippo di Macedonia, ma senza peraltro nessuna volontà decisa di portare a fondo la lotta. Infine, all'avanzata costante di Filippo in Tracia si preferiva opporre, anziché un coraggioso intervento diretto, l'opera brutale, ma decisa del re Cerseblepte e del suo generale Caridemo, i quali badavano a unificare la Tracia, stroncando tutte le altre piccole monarchie locali. Era insomma la politica di Eubulo, preoccupata di non compromettere ulteriormente le finanze ateniesi e soprattutto di non compromettere con una politica troppo decisa la stessa Atene sia verso la Macedonia sia verso la Persia. D. fu sin dal primo momento all'opposizione contro Eubulo. C'era in lui fino d'allora limpidissima quella coscienza esatta del momento eccezionale che attraversava la Grecia, la quale coscienza invece mancava alla politica di Eubulo. Con la Beozia in decadenza e contrastata dai Focesi; con i Focesi alla loro volta fruenti di una potenza effimera, perché solo fondata sui tesori di Delfi; con Filippo di Macedonia ancora limitato a un potere instabile e ristretto; con Sparta infine continuatamente tenuta a bada dall'autonomismo peloponnesiaco suscitatole contro da Pelopida ed Epaminonda; poteva essere agevole ad Atene di riconquistare il primato in Grecia, pur che si riorganizzassero l'esercito e le finanze e si vincesse la depressione provocata dall'esito infelice della guerra sociale.
La politica di D. è quindi all'inizio imperialistica, come è imperialistica la tradizionale politica della democrazia a cui egli appartiene. Tuttavia su questo imperialismo occorre intendersi.
Ciò che contraddistingue il giovane oratore è la consapevolezza del valore della libertà, che è propria della vita ateniese. Una profonda passione morale anima già i primi discorsi nel ricordo degli anni della grandezza politica e culturale di Atene, nell'evocazione dei beni concessi da una costituzione democratica. Noi vorremmo poter scendere più a fondo in queste convinzioni di D. e intendere su quale precisa visione della vita si fondassero; ma già la stessa natura dei discorsi, che obbediscono a esigenze di politica immediata, ce lo impedisce, e poi probabilmente D. diresse la sua attività più su una istintiva sensazione dei valori etici che non su un elaborato loro ripensamento. Ora questa consapevolezza del valore della libertà - cioè, per D., della democrazia - fa sì che egli già fin dai primi discorsi si elevi sopra l'imperialismo egoistico per riconoscere i valori che le altre democrazie rappresentano e per giungere quindi a intravvedere l'importanza di un collegamento tra le democrazie contro il principio avverso, che è il dominio dei pochi sui molti, sia poi questo direttamente la monarchia di Filippo o indirettamente l'oligarchia che Filippo stesso, iniziando la politica che sarà poi tradizionale della Macedonia, cominciava ad andare suscitando. Ma tuttavia sarebbe errato ritenere che perciò D. abbia sorpassato definitivamente i limiti dell'imperialismo ateniese: il suo centro è sempre Atene, non la Grecia. Di una confederazione o comunque di un raggruppamento, che abbia per base la rinuncia all'espansione illimitata ed egoistica di ogni città senza riguardo agl'interessi delle altre, non è parola mai in D., nemmeno quando più tardi la confederazione, sotto il pericolo incombente di Filippo, si farà davvero, perché essa sarà sempre solo una lega di difesa contro un pericolo comune. Ne consegue quindi che se D. pare raggiungere, già nei primi anni e poi sempre più, per le stesse necessità della situazione politica, l'ideale di una libera confederazione di città libere da opporre alla coatta confederazione di città sottomesse voluta da Filippo, egli in realtà poi non vi arriva mai, né in teoria né in pratica, perché non sa distaccarsi da quello che alle città greche parve un elemento costitutivo della loro libertà politica, la libertà di espandersi illimitatamente e quindi di sopraffare chi vi si opponesse. Il valore delle democrazie è apprezzato, ma non fino al punto da escludere che i conflitti d'interessi particolari le portino le une contro le altre. Anzi, assai spesso il valore delle democrazie si riduce in D. a ciò, che esse sono per loro natura tali da offrire una sicura alleanza ad Atene. Chi vuole giudicare equamente D. deve appunto sempre ricordare che egli in tutta la sua vita non ha voluto che difendere la libertà democratica di Atene e solo in funzione di questa si è preoccupato della libertà delle altre città. L'imperialismo di D. non contraddice al suo amore della libertà, ma ne è parte integrante. Da questo punto di vista si comprende pure che D. non esitasse a ricorrere all'aiuto persiano, preferendo un controllo lontano del Gran Re, che non poteva mai giungere a trasformare la vita interna di Atene, all'egemonia di Filippo o di qualsiasi altro stato greco, che sarebbe intervenuto a comprimere la democrazia ateniese. Già perciò ogni possibilità di politica panellenica, che tutelasse anche adeguatamente gl'interessi dei Greci d'Asia, era tagliata alla radice. L'ideale di D. e l'ideale di Filippo - quale almeno lo interpretavano gli uomini più elevati del suo partito, come Isocrate e Teopompo - erano perciò antitetici, poiché l'uno difendeva la tradizione gloriosa della libera Atene, patria di Socrate, di Fidia e di Sofocle, e l'altro asseriva l'esigenza di rinunciare a questa libertà per radunare in un fascio solo tutte le forze della Grecia ed espandere la sua civiltà. Ognuno di questi due ideali si dimostra unilaterale già per la semplice sua enunciazione; e la storia lo conferma, contrapponendo all'importanza che ha avuto nello sviluppo umano la libertà di Atene l'importanza dell'espansione della civiltà greca, che fu conseguenza delle vittorie di Filippo e di Alessandro. Perciò è facile riconoscere sorpassati entrambi i giudizî tradizionali che si sono dati su D., ora esaltandolo come il campione più puro della libertà, ora disprezzandolo come il peggiore rappresentante del particolarismo cieco: giudizî tradizionali, che si trovano già nell'antichità (p. es. rispettivamente in quello di Bruto presso Cicerone, Orator, 30, e in quello di Teopompo, fr. 237 Jacoby) e che ritornano ai nostri tempi rappresentati in modo tipico per un aspetto dallo Schaefer e per l'altro dal Beloch (v. Bibl.). Giudizî ai quali basta rispondere che la libertà di D. non può uguagliarsi alla libertà moderna, come parimenti il moto nazionale di Filippo non corrisponde alla formazione degli stati nazionali, che è tipica del sec. XIX. Alla libertà senza sufficiente rispetto della libertà altrui, che è in fondo la politica di D., non poteva se non opporsi la compressione della libertà medesima, che è la politica di Filippo.
Resta così chiarito il carattere fondamentale della politica di D., e se ne potranno intendere più agevolmente i particolari: nei quali, è bene avvertirlo subito, il dottrinale non prende mai la mano al politico realista, che non s'irrigidisce sulle proprie posizioni, quando tale irrigidimento finirebbe col nuocere alla causa che egli difende. Tale virtù ha fatto spesso accusare D. di corruzione o di malafede, ma solo da chi mancava di quel senso reale della vita politica, che egli possedeva in alto grado.
Sin dall'inizio D. cerca di conciliare le necessità di una politica energica con la solidità della finanza ateniese. Perciò se da una parte rigetta tutte quelle proposte che, per salvaguardare il bilancio, immiserirebbero le direttive della politica ateniese, dall'altra non manca di proporre piani di restaurazione finanziaria. Nei primi anni la sua attività si svolge essenzialmente in questi due aspetti. È caratteristico il discorso XXII scritto per un certo Diodoro, Contro Androzione (forse l'attidografo, noto "moderato" in politica, oppure un nipote dal nome identico) per negare il diritto alla βουλή scaduta dell'anno 356-55 di ricevere la corona, non avendo essa adempiuto alla condizione per meritarsela, cioè l'accrescere la potenza marittima ateniese. Altrettanto caratteristica l'azione XX Contro Leptine (355-54) in cui, in opposizione alla proposta di Leptine, evidentemente suggerita da Eubulo, di togliere ogni dispensa onorifica (ἀτέλεια) alle liturgie ordinarie, salvo che per i discendenti di Armodio e di Aristogitone, D. sostiene la necessità di mantenere questi tradizionali impegni di onore della repubblica. Ciò che non gl'impediva, anzi lo costringeva nel discorso XXIV Contro Timocrate (353) a insorgere, sempre a nome di Diodoro, contro le facilitazioni proposte da Timocrate per i debitori morosi dello stato. Del resto nel 355-54 egli aveva presentato un progetto per riformare le venti simmorie trierarchiche (da distinguersi dalle cento simmorie che servivano a raccogliere il tributo, l'εἰσϕορά). In queste venti simmorie erano distribuiti i 1200 cittadini più ricchi: e ogni gruppo si doveva assumere l'allestimento di un'eguale parte della flotta ateniese. Ma di questi I200 cittadini molti dovevano essere esentati per varie ragioni, sicché il numero effettivo dei contribuenti era assai minore: e perciò D., insieme con una più rigorosa distribuzione dei gravami, propose che i trierarchi fossero non più 1200, ma 2000. Gli 800 trierarchi in più superavano certo la differenza che esisteva tra i 1200 trierarchi nominali e quelli effettivi, ma D. voleva cogliere questa occasione per estendere l'obbligo della liturgia trierarchica. Fu probabilmente appunto questa segreta intenzione che valse a far disapprovare il progetto, pure sostenuto con molto calore nell'orazione XIV Intorno alle simmorie; ma D. riuscì poi parecchi anni dopo, nel 340, a far trionfare queste sue idee inserendole in una riforma più ampia dell'istituto della trierarchia. Di un altro progetto finanziario abbiamo indirettamente notizia nell'orazione XIII Sull'ordinamento finanziario (Περὶ συντάξεως), che la scoperta del commentario di Didimo a D. permette ora di datare nel 351-50, togliendo molti dei dubbî sollevati sulla sua autenticità: dubbî che del resto sono provocati dal fatto che noi, non conoscendo con esattezza quel progetto, abbiamo l'impressione che il discorso sia inconcludente.
Uno dei primi veri discorsi politici di D. è quello XXIII contro Aristocrate, che aveva proposto di mettere sotto la tutela della legge speciale la vita di Caridemo, il noto generale tracio. D. nega la legalità di questa proposta, ma soprattutto insiste nel concetto che Cerseblepte e Caridemo fanno gl'interessi contrarî a quelli ateniesi sottomettendo gli altri principi traci: perché - è il pensiero sottinteso - Atene dovrebbe essa approfittare della debolezza di questi principi e del pericolo che su loro incombe sia da parte di Filippo, sia da parte di Cerseblepte per intervenire. (353-2). Con questo discorso D. si allontanava già nettamente dalla politica di Eubulo, ma il più chiaro segno del nuovo programma egli lo dava nello stesso anno invocando nell'orazione XVI Per i Megalopolitani l'intervento di Atene in loro favore contro Sparta, che cercava di risottometterli. La proposta era gravissima, perché implicava la rinuncia di Atene all'amicizia ormai decennale con Sparta e all'avvicinamento alla nemica degli ultimi tempi, Tebe. Era riconoscere lucidamente che l'unione di Tebe con la Macedonia significava la fine di ogni speranza di rinascita per Atene e in conclusione l'egemonia del più forte, cioè di Filippo, su tutta la Grecia: due pericoli evitabili solo tentando di separare Tebe da Filippo col giocare sulla gelosia della prima per l'alleata sempre più potente, a costo di abbandonare non solo Sparta, ma anche i Focesi, ormai in declino. La proposta di D. era anche questa volta prematura, ma cominciava ad affermare la linea ideale, per cui D. giungerà circa quindici anni più tardi all'alleanza con Tebe. Due annni dopo, nel 351-50 (piuttosto che, come alcuni sostennero, nel 353-2) gli si offriva un'altra occasione di riaffermare un punto essenziale del suo programma, l'alleanza delle democrazie, quando i democratici rodî, cacciati dalla loro patria, osavano chiedere l'aiuto di Atene, per quanto fossero responsabili della ribellione di Rodi contro Atene stessa. Anche questa volta D. si trovava contro la maggioranza nel sostenere l'alto valore di un intervento degli Ateniesi, solo perché coloro che tale intervento richiedevano erano democratici.
Fino a questo punto l'attività di D. è ancora necessariamente dispersa e volta soprattutto ad affermare punti ideali: destino di tutti gli oppositori, che non riescono a trascinare a sé le maggioranze. Ma dal 350 in poi l'efficacia di D. cresce, via via che le mire di Filippo si precisano e rappresentano un pericolo sempre più immediato per Atene. Anche la politica di D. si accentua ormai intorno alla difesa contro la Macedonia. Il segnale è la Prima Filippica, del 350. Il pericolo di Filippo sembrava allora lontano agli Ateniesi, perché combatteva in Tracia e perché false notizie si spargevano spesso sul suo conto. D. grida all'allarme: il pericolo non è in Filippo, ma nella rilassatezza ateniese. "Se Filippo venisse a morire, voi ne creereste un altro (11). E perciò egli invita gli Ateniesi a riorganizzare flotta ed esercito in modo da poter direttamente attaccare Filippo nel suo territorio. È l'ultimo invito che D. può fare agli Ateniesi per una politica aggressiva, che tenti di abbattere Filippo e di sostituirsi a lui nell'egemonia della Grecia. Poi la necessità stessa non permetterà più che la difesa. Con il colpo di mano su Olinto, a cui si accompagnava la rivolta contro Atene dell'Eubea - rivolta anch'essa preparata da Filippo - Atene cominciava a essere direttamente minacciata (349 a. C.). D. in tre orazioni, che si succedono l'una all'altra in breve tempo (è però discussa la loro esatta cronologia) incita a portare aiuti a Olinto e l'ottiene, ma non risce a impedirne la caduta (348), mentre anche l'Eubea giungeva a liberarsi da Atene. La guerra contro Filippo, che si trascinava fiaccamente dal 356, avrebbe ora dovuto essere ripresa con vigore; ma D. stesso, diventato il capo-partito più influente, doveva riconoscere l'impossibilità di proseguirla per la disorganizzazione dell'esercito e la scarsezza dei mezzi finanziarî. In un primo momento egli aveva sperato che si potesse sollevare contro Filippo, in seguito alla presa di Olinto, una specie di crociata nazionale, ma aveva dovuto disilludersi. Ora il problema più urgente era trattare la pace prima che Filippo perdesse l'unica buona ragione che aveva di farla: la superiorità per allora inconcussa della flotta ateniese. Nel voler fare la pace D. si veniva naturalmente a trovare d'accordo con Eubulo e i suoi. E ci fu tra loro un breve idillio, del quale uno dei segni più caratteristici fu la riconciliazione di D. con Midia, un nemico suo personale e politico, contro il quale aveva preparato la più famosa delle sue orazioni "private", la cosiddetta Midiana (XXI Contro Midia intorno alla percossa), gridando al sacrilegio perché Midia aveva osato percuoterlo, mentre egli era nella funzione, di valore sacrale, di corego (348-7 a. C.) Nello stesso anno D., entrato nella βουλή con alcuni suoi amici, faceva approvare l'inizio delle trattative con Filippo ed era egli stesso uno dei delegati ateniesi al re con Eschine, Filocrate, ecc. La pace era conclusa nel 346 con la rinuncia ateniese ad Anfipoli e a Potidea e con l'esclusione della Focide dal trattato: il che era un implicito abbandono della medesima nelle mani di Filippo. La pace era perfezionata con un patto difensivo tra Filippo e Atene.
La condizione in cui si veniva a trovare D. in seguito a questa pace era quanto mai delicata. Per lui la pace era una tregua, che doveva servire a rimettere in assetto le forze militari e finanziarie di Atene: il suo compito era perciò d'impedire ugualmente che gli estremisti del suo partito portassero Atene alla ripresa immediata della lotta con Filippo e che gli amici di Filippo, tra cui Eschine, riuscissero a trasformare l'alleanza sancita sulla carta in un'effettiva collaborazione tra Filippo e Atene, che avrebbe significato senza dubbio, data la disparità delle forze, l'egemonia della Macedonia. Perciò da una parte egli difendeva la pace nel discorso che s'intitola appunto Per la pace, quando la nomina di Filippo nel consiglio anfizionico, riconoscendogli il suo diritto d'intervenire nelle cose greche, aveva sollevato gli animi degli Ateniesi (346-5); dall'altra cominciava una campagna spietata contro Eschine e i suoi partigiani. Non c'è dubbio che questa campagna fu condotta da D. con la calunnia e la menzogna, cercando perfidamente di far passare Eschine per un traditore e un venduto a Filippo, sostenendo che egli aveva ingannato gli Ateniesi con il dichiarare che Filippo aveva assicurato di non agire contro la Focide. Ma in sostanza D. si valeva degli unici mezzi che erano a sua disposizione per adempiere quello che egli riteneva il suo primo dovere: salvaguardare la libertà di Atene. Gli attacchi contro le persone in parte fallirono. Nel 346 Timarco, che era il portavoce delle accuse di D., veniva egli stesso privato dei diritti politici per l'accusa d'immoralità che Eschine sosteneva nella sua orazione Contro Timarco. Tre anni più tardi, se Filocrate era condannato in contumacia, Eschine riusciva nuovamente a salvarsi dagli attacchi di D. svolti nell'orazione XIX Sulla violazione dei doveri di ambasciatore (Περὶ παραπρεσβείας) con un'orazione d'identico titolo a noi conservata. E tuttavia D. riusciva a raggiungere il suo scopo: tener desta l'agitazione contro Filippo. Né questi erano i soli mezzi di cui si valeva. Nel 344-3 teneva la sua Seconda Filippica per un'occasione imprecisata, probabilmente per una protesta di Filippo contro la politica di D. nella Grecia centrale, che continuava a sostenere le città nemiche di Sparta, pur evitando ancora di rompere l'alleanza spartana. E nel 342 egli faceva respingere le proposte conciliative di Filippo, che si dichiarava pronto a rivedere il trattato di pace del 346 e a lasciare agli Ateniesi l'isola di Alonneso; ma l'orazione VII Sull'Alonneso che va sotto il suo nome è, come si è potuto dimostrare, non sua, ma di Egesippo (v.), perché nell'orazione l'autore accenna di aver lanciato un'accusa contro un certo Callippo, che si sa essere stata opera appunto di questo Egesippo. E ancora nel 341 nella Terza Filippica D. incitava a grandi preparativi per terra e per mare, spingendo alla propaganda contro Filippo negli stati neutrali.
La situazione ormai precipitava. D. e Iperide, padroni di Atene, costituivano una lega a cui aderivano Bisanzio, Abido, Rodi, Chio, poco dopo anche Megara, Corinto, l'Acaia, l'Acarnania, Corcira. Su proposta di D., nominato sopraintendente alla flotta, erano riformate le simmorie trierarchiche, stabilendo che gli appartenenti ai singoli gruppi non pagassero in parti uguali, ma proporzionalmente alle loro ricchezze. Il denaro del teorico era riversato alla cassa per la guerra. E si tentava di rendere più stretta anche l'amicizia con la Persia; ma il Gran Re evitava un intervento diretto, limitandosi a sussidiare generosamente D. e i suoi. Gli effetti di questo energico risveglio si riconoscevano subito, perché l'Eubea era rioccupata e si apprestava la difesa della libertà degli stretti nel Mar di Marmara (v. l'orazione VIII Intorno alle cose del Chersoneso); e quando Filippo poneva l'assedio a Bisanzio alleato di Atene, D. faceva spezzare la stele in cui era inciso il trattato di pace del 346, dichiarando così guerra alla Macedonia e impedendo con opportuni rinforzi che Bisanzio capitolasse.
La mira di D. era adesso l'alleanza con Tebe. Filippo tentava un gioco abilissimo per sventarla nella riunione anfizionica dell'autunno del 340. Per suo incitamento un deputato di Anfissa accusava Atene d'empietà per l'aiuto dato ai Focesi nell'ultima guerra: ciò metteva senz'altro Tebe contro Atene. Per completare il gioco, Filippo permetteva che Eschine reagisse proponendo la condanna anfizionica di Anfissa, che aveva coltivato la pianura sacra di Cirra: ciò poneva necessariamente Atene contro Tebe. In ogni caso Filippo credeva di poter trionfare; ma quando era dichiarata la guerra sacra contro Anfissa, D. riusciva a ottenere l'imprevedibile, convincendo i concittadini a non parteciparvi. Così Filippo si era alienata Trebe, senza guadagnarsi Atene. E quando egli occupava Elatea nella Focide, Atene e Tebe si univano sotto gli auspici di D. (v. filippo; grecia: Storia). L'alleanza giungeva troppo tardi, quando ormai la superiorità militare di Filippo gli permetteva senza eccessiva difficoltà di tenere testa alle truppe collegate delle democrazie greche e di sgominarle il 1° settembre del 338 a Cheronea. Dopo il disastro D., che vi aveva assistito combattendo da semplice oplita, preparò la difesa di Atene e riuscì a ottenere che Filippo non invadesse l'Attica, risparmiandole le umiliazioni a cui era sottoposta Tebe. Poi, conclusa la pace, riprese la politica subdola e cauta, che, in condizioni mutate, aveva già praticato dopo il 346, evitando che Atene si compromettesse in atti di audacia inconsulta o al contrario che si desse con le mani legate a Filippo. La meta era sempre per lui la riscossa: a rinunciarvi, ad accettare il fatto compiuto, non pensò mai fino al giorno estremo della sua vita. Gli Ateniesi continuarono del resto a essergli fedeli: la prova più famosa è il processo per la corona. Un certo Ctesifonte propose nel 337 che D. fosse incoronato per le sue benemerenze alle grandi Dionisiache, nel teatro. A ciò si oppose Eschine sostenendo che la proposta era illegale, poiché non si poteva proporre che fosse incoronato chi era ancora magistrato e perché inoltre l'incoronazione non poteva avvenire in un teatro. Le due tesi erano giuridicamente incontrovertibili, ma Eschine ebbe il torto di presentarle come argomenti accessorî accanto alla vera accusa, che era per lui l'indegnità di D. a essere incoronato. Perciò, quando dopo molti anni, nel 330, la causa, prolungata per motivi ignoti, si discusse, D. ebbe facile il compito di spostare la discussione dal terreno giuridico a quello politico e fare l'apologia della sua lunga opera a favore di Atene nell'orazione XVIII Per la corona, che è il suo capolavoro. Gli Ateniesi gli diedero ragione. Di questa sua autorità presso di loro D. si valse nel 336, alla morte di Filippo, per impedire che Atene si lanciasse subito, senza l'adeguata preparazione, nella ribellione, e anche questa volta evitò ad Atene la sorte durissima toccata a Tebe. Perciò egli stesso poté salvarsi, quando Alessandro ne chiese l'estradizione. Fu infatti abbastanza agevole all'ambasceria ateniese, capitanata da Focione, di persuadere il re affinché desistesse dalla pretesa apparentemente ingiustificata. Apparentemente, perché non poteva non essere a tutti noto che D. riceveva denaro dal re di Persia per provocare quell'insurrezione degli stati greci che, se avesse potuto scoppiare a tempo debito, sarebbe stata nello stesso tempo la salvezza del particolarismo greco e del regno di Persia: due fattori ormai interdipendenti l'uno dall'altro. Ma D. non trovò mai negli anni successivi il momento opportuno e preferì che Atene rimanesse tranquilla, sanando le sue piaghe e riacquistando l'antica prosperità. Così fino al 324, quando un improvviso scandalo venne a troncare definitivamente i piani politici di D. e la sua efficacia su Atene. Il ministro delle finanze di Alessandro, Arpalo, era fuggito con 6000 soldati, 30 navi e 700 talenti, verso il promontorio Sunio, chiedendo l'ospitalità di Atene. Su proposta di D. e contro la volontà degli estremisti del suo partito, che volevano approfittare dei mezzi che il caso loro offriva, venne rifiutato di servirsi di questi mercenarî e si tenne Arpalo e il suo denaro in custodia. Quando poi Alessandro richiese Arpalo, e questi fu lasciato fuggire, si trovò che dei 700 talenti depositati sull'Acropoli mancava la metà. Fu aperta l'istruttoria affidata all'Areopago; e tra coloro che l'Areopago mise in istato di accusa ci fu appunto anche D., incolpato di avere avuto 20 talenti. Tradotto in giudizio, dieci accusatori, tra cui Iperide e Dinarco, lo fecero condannare a una multa di 40 talenti, che D. non poté pagare e perciò fu imprigionato. Ma dalla prigione poté fuggire facilmente, e andò in esilio a Egina e poi a Trezene. Sulla responsabilità di D. nella causa arpalica fu discusso senza fine, ma il giudizio che noi ne possiamo dare deve essere estremamente riservato, mancandoci affatto notizia degli elementi di cui si poté servire l'Areopago per mettere in stato d'accusa D. Due sole cose si possono osservare. In primo luogo gli avversarî di D., fossero nemici estremisti della Macedonia (come Iperide) o amici devoti, colsero quell'occasione per liberarsi dal vecchio uomo di stato, che, appunto per la sua politica moderata, andava perdendo ogni giorno più il seguito. In secondo luogo è almeno da ammettere che tutti gl'indizî a nostra disposizione negano la reità di D., tra i quali basti ricordare la testimonianza, conservataci da Pausania, del cassiere di Arpalo, che nei registri in cui Arpalo annotava le sue elargizioni il nome di D. non esisteva.
Ad Atene D. fu richiamato dalla morte di Alessandro, quando il popolo, per permettergli il ritorno, gli decretò un regalo di 50 talenti, che gli rendesse possibile il pagare la multa. E fu quello di D., ritorno trionfale. Ma in tutto il complesso di vicende che ne seguì non pare che D. avesse più una parte dirigente. Anche egli, come Iperide, con cui si era riconciliato, fu condannato a morte, dopo la battaglia di Crannone e l'occupazione macedonica di Atene; ma più fortunato del suo compagno di battaglie, poté fuggire nel tempio di Posidone a Calauria, dove si uccise prima di essere raggiunto dai sicarî di Antipatro (322 a. C.). Con la libertà di Atene, spariva il suo più grande e sincero campione, quello che, qualunque fossero poi i limiti della sua concezione, aveva più appassionatamente sentito la grandezza spirituale di Atene libera e democratica. Circa quarant'anni dopo, nel 280, gli Ateniesi, su proposta del suo nipote Democare, concessero per sempre il pasto in Pritaneo al primogenito della sua discendenza e gli eressero una statua su cui stava scritto:
εἴπερ ἴσην γνώμῃ ῥώμην, Δημόσϑενες, εἷχες
οὔποτ' ἂν ‛Ελλήνων ἧεξεν "Αρης Μακεδών
"Se tu avessi avuto, o D., forza uguale all'ingegno, il Marte Macedone non avrebbe mai signoreggiato sui Greci."
Fortuna di D. come oratore. - D. ha certo pubblicato egli stesso i più importanti suoi discorsi, naturalmente dopo averli elaborati: altri discorsi saranno stati pubblicati dopo la sua morte. Ma si capisce che dei discorsi non genuini gli venissero facilmente attribuiti e fossero già accolti come demostenici dal loro catalogatore nella biblioteca di Alessandria, Callimaco. I discorsi a noi pervenuti sono 61, alcuni sospettati dagli stessi antichi. Trentacinque sono comuni azioni giudiziarie, e manca assai spesso ogni criterio decisivo per giudicare intorno alla loro autenticità. Tuttavia è ad esempio probabile che i discorsi XXXV e XLV che riguardano un certo Apollodoro abbiano trascinato con loro nel corpus altre orazioni concernenti la stessa persona e stilisticamente assai differenti (XLVI; XLIX-L; LII-LIII; LIX). Più facile è riconoscere i discorsi spurî fra quelli politici ed epidittici, per quanto rimangano in molti casi dei dubbî. Certamente non genuini i due epidittici, l'epitafio (LX) e l'erotico (LXI), che dimostrano influenze platoniche e isocratee estranee a D. Fra le orazioni politiche probabilmente spurie vanno notate, oltre quelle già ricordate più sopra, la Quarta Filippica, che sembra un centone di frasi demosteniche, e Sul trattato con Alessandro, certamente di stile diverso da quello abituale di D. Al corpus demostenico appartengono anche 56 proemî di orazioni, sei lettere e inoltre una lettera di Filippo con la risposta di D. Dei proemî alcuni sono sicuramente autentici, perché si ritrovano nei discorsi e ne rappresentano spesso una diversa redazione, che si ha ragione di ritenere anteriore e corrispondente a quella che D. usò nel pronunciare la sua orazione. Il nucleo della raccolta è quindi in una collezione di proemî che D. si era preparato per suo uso: che siano avvenute aggiunte, non sempre bene determinabili, va da sé. Le sei lettere del periodo dell'esilio non possono essere dichiarate tutte spurie con risolutezza; ma d'altra parte è impossibile ritenerle tutte autentiche perché, ad es., la seconda offre indizî indubbî di essere stata fabbricata da un retore, che si compiaceva di rappresentarsi D. esiliato e giungeva al cattivo gusto d' immaginarlo a mirare la patria dal tempio di Posidone in Calauria, dove D. trovò poi la morte. Lo scetticismo sull'autenticità di queste lettere è ora reso anche più legittimo dalla certezza che la risposta di D. alla lettera di Filippo sia spuria. Già da tempo lo si era dubitato, ma la conferma si è avuta solo con la scoperta del commento di Didimo, il quale ci informa che la lettera si trovava nelle Storie Filippiche di Anassimene. In altri termini la risposta di D., come probabilmente la lettera di Filippo, è stata trasportata nel corpus demostenico dall'opera di Anassimene, che, come ogni storico antico, ricostruiva a modo suo i documenti. A proposito di documenti, va infine ricordato che se ne trovano nelle stesse orazioni di D. e sono stati aggiunti dai grammatici, per maggiore chiarezza, là dove D. indicava solo di riferirvisi. Anche sull'autenticità di questi documenti si è molto discusso, ma è ormai opinione prevalente che i più di essi nelle orazioni private siano autentici e che invece quelli delle orazioni politiche siano sicuramente apocrifi o gravemente sospetti.
La fortuna di D. fu. molto rapida. Mentre già nel sec. III a. C. si veniva elaborando la sua biografia romanzesca con i noti criterî dello psicologismo aneddotico dei peripatetici - e soprattutto, nel nostro caso, di Ermippo -, nelle scuole retoriche egli prendeva posto fra i maggiori oratori non solo per i pregi del suo stile, ma anche per le sue opinioni p0litiche, appunto perché le scuole retoriche conservavano a modo loro l'attaccamento alle istituzioni delle città libere. Vinte le ultime riluttanze dell'atticismo ortodosso, che gli preferiva Lisia o Iperide, D. è già al tempo di Cicerone il retore per eccellenza (ῥήτωρ κατ' εξοχήν), il modello del vir bonus dicendi peritus. Con gli studî di Didimo, di Cecilio, di Dionisio di Alicarnasso, con la sanzione del giudizio di Cicerone, la sua oratoria prende valore canonico: e la seconda sofistica (specialmente Aristide ed Ermogene) non farà che accentuare questa convinzione. Solo una resistenza verrà da parte romana con l'opporre a D. Cicerone, dando luogo a quei confronti tra i due, che erano già in Cecilio e si trovano in Quintiliano e in Plutarco. Con Dionisio di Alicarnasso, si viene anche a fissare la caratteristica dell'oratoria di D.: la sua δεινότης (impressionante abilità), la capacità di trasfondere l'impeto della passione nel discorso, serrando i contrasti d' idee in antitesi spiccate ed evitando la monotonia che ne verrebbe con l'opportuno variare dell'espressione. Come accade di regola per i giudizî antichi sugli oratori, frutto di molta famigliarità e di particolare sensibilità alle loro finezze, anche questo giudizio va ancora oggi tenuto a base per comprendere l'abile struttura tecnica dell'oratoria demostenica, che non ha mai nulla d'immediato e di spontaneo, ma risolve e dissolve la sua artificiosità nel senso purissimo di euritmia che ne emana.
Fonti. - Le biografie antiche di Plutarco, di un anonimo nelle Vite dei dieci oratori, di Libanio, di Zosimo, di Fozio, di Suida; i sommarî delle singole orazioni di Libanio e di altri; i frammenti del commento di Didimo e di quello all'orazione contro Androzione pubblicato come opera storica da B. Keil, Anonymus argentinensis, Strasburgo 1902, e riconosciuto nel suo valore da U. Wilcken in Hermes XLII (1907), p. 374 segg.; gli scolî raccolti in Baiter e Sauppe, Oratores attici, II, p. 49 segg. (a cui devono aggiungersi quelli pubblicati da M. Sakkélion, in Bull. Corresp. Hellen., I (1877), pp. 1 segg. e 137 segg. e da v. Leeuwen e da v. Herwerden nell'ed. princeps della 'Αϑηναίων πολτεία di Aristotele, Leida 1891). Si tengano inoltre presenti tutte le fonti di storia contemporanea e specialmente Diodoro, XVI. Ma le vere fonti sono, oltre che le orazioni di Eschine, Dinarco, Iperide, ecc., quelle di D. stesso. Editio princeps, l'aldina di Venezia 1504. Edizioni migliori complete: Blass Lipsia 1885 segg.; Butcher e Rennie, Oxford 1903 segg. Preziosa l'edizione parziale commentata di H. Weil, Harangues de D., 3ª ed., Parigi 1912; Plaidoyers politiques, 2ª ed., Parigi 1886. Utile anche M. Croiset, Haranoues, Parigi 1924.
Bibl.: G. Grofe, History of Greece, 1ª ediz. 1846-56, II, cap. 84 segg.; A. Schäfer, Demosthenes u. seine Zeit, 2ª ed., Lipsia, 1885 (fondamentale); J. Beloch, Attische Politik seit Perikles, Lipsia 1884, p. 173 segg.; id., Griechische Geschichte, 2ª ed., III, i, Lipsia 1922, passim; A. W. Pickard-Cambridge, D. and the last days of Greek freedom, New York e Londra 1914; E. Drerup, Aus einer Advokatenrepublik, Paderborn 1916; G. Clémenceau, Démosthène, Parigi 1924; U. Kahrstedt, Forschungen zur Geschichte des ausgehenden fünften und des vierten Jahrhunderts, Berlino 1910; E. Pokorny, Studien zur griechischen Geschichte im sechsten und fünften Jahrzehnt des vierten Jahrhunderts v. Chr., Greifswald 1913, p. 77 segg.; E. Drerup, D. im Urteile des Altertums, Würzburg 1923. Per l'eloquenza: in specie L. Brédif, L'éloquence politique en Grèce, Démosthène, Tolosa 1878; F. Blass, Die attische Beredsamkeit, 2ª ed., III, i, Demosthenes, Lipsia 1893; E. Norden, Antike Kunstprosa, Lipsia 1923, p. 120 e seguenti. Si vedano anche le storie della letteratura greca e in particolare M. e A. Croiset, Histoire de la littérature grecque, IV, Parigi 1900, p. 510 segg.; Christ-schmid, Geschichte der griechischen Literatur, 5ª ed., I, Monaco 1908, p. 546 segg.
Sulle questioni particolari le indicazioni in K. Emminger, Bericht über die Liteartur zu den attischen Rednern, in Bursians Jahrsberichte f. die Fortschritte d. klass. Altert., CLXI (1914), per gli anni 1886-1814. Bibl. anteriore e poi fino al 1904 parzialmente anche presso Th. Thalheim, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., V, col. 169 segg. Qui si ricordano solo alcune ricerche più importanti o di data più recente: W. Christ, Die Attikusausgabe des D., in Abhandl. d. Bayer. Akademie, XVI (1882), p. 192 segg.; J. H. Lipsius, Zur Textgeschichte des D., in Berichte der Sächs. Gesell. der Wissensch., XLV (1839), p. 1 segg. e in Leipziger Studien XVII (1898), p. 313 segg.; D. Schulthess, Die Vormundschaftsrechnung des D., Frauenfeld 1899; W. Schwahn, D. gegen Aphobos, Berlino e Lipsia 1929; F. Focke, Demosthenestudien, Stoccarda 1929; F. Kahle, De D. orationum Androtioneae, Timocrateae, Aristocrateae temporibus, Gottinga 1909; C. Stavenhagen, Quaestiones demosthenicae, Gottinga 1907; H. Francotte, Études sur Démosthène, in Musée Belge, 1914, pagina 159 segg.; P. Wendland, Anaximenes von Lampsakos, Berlino 1905; W. Nitsche, D. und Anaximenes, Berlino 1906; E. Drerup, Über die bei den attischen Rednern eingelegten Urkunden, in Jahrb. f. class. Philologie, XXIV (1898), p. 223 segg., con bibliografia precedente; P. Cloché, La politique de D. de 354 à 346 a. J. C., in Bul.. Corr. Hell., XLVII (1923), p. 97 segg.; E. Meyer, Isokrates' Brief an Philipp und die zweite Philippika, in Sitzb. Preuss. Akad., 1909, p. 750 segg. (Klein. Schriften, II, p. 103 esgg.); F. W. Lewis, De D. περὶ συνταξεως oratione, Berlino 1919; A. Körte, Der Harpalische Prozess, in Neue Jahrb. f. d. class. Altert., XXVII (1924), p. 217 segg.; G. Colin, D. et l'affaire d'Harpale, in Rev. d. Étud. Grecques, 1925, p. 306 segg.; S. Schiller, Über den Verfasser der Rede περὶ τῶν πρὸς Αλέξανδρον συνθηκῶν, in Wiener Studien, XIX (1897), p. 211 segg. V. pure la bibl. di eschine.