denaro
M. usa in genere il plurale danari; di rado il singolare danaio. Il d. è oggetto di un originale paradosso in uno dei capitoli più importanti e controversi dei Discorsi: «I danari non sono il nervo della guerra, secondo che è la comune opinione» (II x).
Figlio di un intellettuale povero, M. mancò personalmente di denaro. Innalzato all’apice dell’amministrazione fiorentina dalla rivolta antisavonaroliana del 1498, maneggiò somme importanti per affari diplomatici e militari, per poi essere ridotto in povertà dalla contro-rivoluzione del 1512. Le sue commedie, la Mandragola e Clizia, testimoniano un’acuta coscienza di classe e la novella di Belfagor identifica l’inferno con la realtà umana, definita a partire dalle basi economiche della costituzione sociale. Storiografo di Firenze, M. ha posto al centro della sua interpretazione le lotte sociali cittadine, dedicando anche una notevole attenzione ai territori sottoposti ai fiorentini. Eletto capo della seconda cancelleria della Repubblica popolare dal Gran consiglio in un momento di grave crisi politica e finanziaria, ha sperimentato le difficoltà di far adottare i provvedimenti necessari ai bisogni delle casse pubbliche. Incaricato degli affari territoriali, fronteggiò la disgregazione della Toscana e sviluppò una conoscenza dello Stato territoriale fiorentino che lo portò a considerare controproducente l’oppressione fiscale esercitata da Firenze sulle popolazioni soggette, e a proporre di armare i sudditi. Il concetto di d. in M., strettamente legato a quello di popolazioni armate, va quindi valutato all’interno di un determinato processo storico e sulla base delle concrete esperienze del Segretario fiorentino. Nel Principe, taluni ragionamenti chiave si organizzano secondo le voci del bilancio dello Stato – spese ed entrate – avviando così il pensiero politico moderno all’analisi del potere da un punto di vista finanziario, mentre nei Discorsi, affermando che il d. non è il nervo della guerra, M. discute il legame esistente tra un determinato sistema militare e un certo sistema finanziario: l’esplicita critica dei mercenari si rivela un’implicita critica del debito pubblico e delle sue conseguenze sociali. Questo aspetto fu trascurato dalla critica dopo l’età delle rivoluzioni politiche e della rivoluzione industriale, ma in precedenza venne colto da lettori attenti, quali Francis Bacon o Jean-Jacques Rousseau.
Il padre di M., Bernardo (→), godeva di un certo riconoscimento come intellettuale, ma fu sempre iscritto nella lista dei debitori delle imposizioni del comune, cosa che gli valse l’esclusione dai pubblici uffici. Provvedeva ai bisogni della famiglia con i frutti del modesto podere di Sant’Andrea in Percussina, mantenendosi ai margini della vita politica ed economica probabilmente per proteggersi dalla repressione medicea contro i dissidenti, come quella subita da un cugino a lui caro, il noto giurista Girolamo Machiavelli (cfr. C. Atkinson, Debts, dowries, donkeys. The diary of Niccolò Machiavelli’s father, Messer Bernardo, in Quattrocento Florence, 2002, pp. 38-40, 53-55, 85). Nel nuovo contesto aperto dalla rivoluzione del 1494, seppe orientare il suo primogenito verso la carriera cancelleresca, che assicurava un salario regolare nonché la possibilità di agire in politica. Nel 1512, M. perse i suoi uffici e dovette rispondere di 1000 fiorini a titolo di cauzione per il rispetto della condanna al confino: una cifra enorme, pari a circa otto anni del suo precedente stipendio ordinario, che nell’occasione venne garantita dai suoi amici (cfr. Ridolfi 1954, 19787, p. 33). Inoltre, M. dovette rendere conto di importanti somme che aveva gestito per affari diplomatici e militari (p. 214). Il 18 marzo 1513, l’ex Segretario scrive a Francesco Vettori: «Io mi viverò come io ci venni, che nacqui povero, et imparai prima a stentare che a godere» (Lettere, p. 237). Non essendogli restato altro che la vita e la casa, prova a far fruttare il suo sapere storico, politico e letterario, la sua nota lealtà per la cosa pubblica e le sue amicizie. Vettori si limita a intervenire davanti agli ufficiali del Monte, i quali, nell’anno fiscale 1513-1514, avevano tassato M. in modo vessatorio (Ridolfi 1954, 1978, p. 246). Fino all’autunno 1520, quando M. ottiene l’incarico pubblico, poco remunerativo ma assai prestigioso, di scrivere le Istorie fiorentine, la povertà è un motivo d’inquietudine ricorrente nel carteggio privato, ribadito anche nelle dedicatorie del Principe e dei Discorsi.
Nella Mandragola, composta in questi anni, il personaggio di Ligurio, «parassito di malizia el cucco», pare oggetto d’identificazione sociale da parte di Machiavelli. Entrambi astuti e poveri, dilettano i compagni con la loro conversazione in cambio di una cena o di qualche emolumento. Georges Ulysse (1978, p. 105), studioso dei rapporti sociali nel teatro italiano tra 1494 e 1537, ha osservato che
solo per difetto di ricchezza Ligurio non è alla pari con i maggiorenti di una società che dichiara il primato delle qualità personali, ma stabilisce, in base alla condizione economica, una gerarchia sociale fondata solo sul denaro.
Sono parole che echeggiano quelle dell’anonimo Ciompo di M.:
Spogliateci tutti ignudi, voi ci vederete simili; rivestite noi delle vesti loro ed eglino delle nostre: noi sanza dubbio nobili ed eglino ignobili parranno; perché solo la povertà e le ricchezze ci disagguagliano (Istorie fiorentine III xiii 10).
E, in effetti, Ulysse prosegue sottolineando come «il fatto di attribuire a dei parassiti la virtù che dovrebbe essere propria dei maestri contenga potenzialmente la sovversione dei rapporti sociali esistenti». Nella Mandragola e anche nella Clizia si trovano allusioni al ruolo del d., «di una precisione che si cercherebbe invano nella maggior parte delle commedie del tempo»: per M., «nella famiglia, come nella società, la condizione primaria della libertà è l’indipendenza economica» (Ulysse 1978, pp. 90, 97). M. considera il d. un fatto sociale, espressione di relazioni tra le persone e motivo ragionevole delle azioni umane. Biasima il disprezzo della povertà e l’incapacità di una società di «trovare la virtù in qualunque casa l’abitasse» (Discorsi III xxv 3). Ma non considera il d. come qualcosa di vile di per sé: è ben lontano dai riflessi della tradizione evangelica.
La demistificazione di una società la cui economia è basata sul diffondersi del capitale usurario, quale emerge nella novella di Belfagor, non va certo ricondotta al divieto d’usura presente nel diritto canonico:
Presa adunque Belfagor la condizione [d’uomo] e i danari ne venne nel mondo, ed ordinato di sua masnade cavagli e compagni entrò onoratissimamente in Firenze; la quale città innanzi a tutte l’altre elesse per suo domicilio, come quella che gli pareva più atta a sopportare chi con arte usuraie esercitassi i suoi danari (Favola, ed. Vivanti, p. 83).
Se a Firenze può essere attribuito il titolo di città del prestito a interesse per eccellenza è perché, dalla metà del Trecento, ha fondato la sua potenza su un sistema finanziario, il Monte, articolando il debito pubblico con un mercato dei titoli che offriva importanti opportunità di speculazione (R. Barducci, Politica e speculazione finanziaria a Firenze, 1343-1358, «Archivio storico italiano», 1979, 87, pp. 177-219). I grandi mercanti e banchieri fecero allora del comune il cliente dell’attività finanziaria. Liberatisi presto dal problema della liceità giuridica e teologica delle operazioni del Monte, essi svilupparono un’ideologia, fissata in una legge del 1470, atta a far intendere a tutti che il Monte era «il cuore di questo nostro corpo che si chiama città», e che tutti – alcuni pochi in quanto creditori a breve termine del comune, molti altri in quanto contribuenti fiscali e debitori dei precedenti – dovevano contribuire «alla conservazione di tale cuore» (citazioni in L. Marks, The financial oligarchy in Florence under Lorenzo, in Italian Renaissance studies, ed. E. F. Jacob, 1960, p. 127). Questa ideologia affermava il carattere necessario e naturale del sistema del credito pubblico e della politica di deficit (cfr. J. Kirshner, Reading Bernardino’s sermon on the public debt, in Atti del Simposio internazionale cateriniano-bernardiniano, a cura di D. Maffei, P. Nardi, 1982, pp. 547-622, in partic. p. 590), e impregnava la società fino ai suoi fondamenti antropologici – i rapporti uomini-donne, la famiglia e il matrimonio – attraverso uno dei suoi maggior rami, il Monte delle doti, istituito nel 1425 come forma di assicurazione sulla vita (cfr. A. Molho, Marriage alliance in late medieval Florence, 1994). Composta forse nel momento in cui M. investiva nel Monte delle doti per sua figlia (della dote per la Baccina si parla nella lettera di Agostino Del Nero del 26 giugno 1525: cfr. Ridolfi 1954, 19787, pp. 334-35 e 568), la novella di Belfagor prende proprio avvio dal tema degli inconvenienti del matrimonio: ha per bersaglio questi fondamenti antropologici.
Agli anni intorno al 1425, quelli della guerra contro il duca di Milano e della continua ricerca di espedienti finanziari, M. fa risalire il mito della potenza di Firenze, sin dal proemio delle Istorie fiorentine (da qui in poi Ist. fior.): un mito basato sulla capacità che ebbero allora i fiorentini – senza armi proprie, «perché le avieno in quelli tempi spente», ma con mercenari – di sostenere spese militari senza precedenti tramite il loro sistema fiscale e finanziario (Ist. fior. proemio 12). Questo sistema era sorto, dopo la cacciata del duca di Atene nel 1343 (Ist. fior. II xxxvii), dalle «gravi e naturali nimicizie» tra le classi sociali, e da «quelle leggi che di poi si creavono, non a comune utilità, ma tutte in favore del vincitore» (Ist. fior. III i 1 e 5). Nel 1427, col catasto, il governo fiorentino compì uno sforzo originale di conoscenza della popolazione, della produzione e della distribuzione delle ricchezze. Mentre il sistema del Monte favoriva «una distribuzione fortemente asimmetrica delle ricchezze, visto che, di fatto, riposava fondamentalmente su di essa» (Herlihy, Klapisch-Zuber 1978, p. 26), col catasto, scrive M., si trattava invece di riformare la fiscalità per porre «regola alla tirannide de’ potenti» e istituire la «ugualità della gravezza». Ma per far fallire la riforma, «gli uomini grandi» portarono avanti con successo argomenti capziosi:
il male stava dove e’ non dicevano; perché doleva loro non potere più muovere una guerra sanza loro danno, avendo a concorrere alle spese come gli altri; e se questo modo si fusse trovato prima, non si sarebbe fatta la guerra con il re Ladislao, né ora si farebbe questa con il duca Filippo; le quali si erano fatte per riempiere i cittadini, e non per necessità (Ist. fior. IV xiv 11).
Secondo una tipica ellissi, con «cittadini» s’intende i «potenti» o «grandi», specie quelli che contribuiscono alle guerre con prestiti a breve termine e alto interesse. Col Monte, la ricchezza comune era il debito. Per «così fellonesco modo», scrisse uno storico quattrocentesco ben noto a M., Giovanni Cavalcanti, i grandi «feciono in piccolo tempo la Repubblica povera e’ cittadini ricchi» (Nuova opera, éd. A. Monti, 1989, p. 109), secondo un principio di socializzazione dei costi e di privatizzazione dei benefici tipico delle repubbliche male ordinate (cfr. Discorsi I xxxvii 8).
Il legame tra mercenarismo, debito pubblico e potere degli ottimati era chiaro ai fiorentini del Quattrocento (cfr. Herlihy, Klapisch-Zuber 1978, pp. 24 e segg.). Lorenzo de’ Medici lo rafforzò, riunendo intorno a sé una «oligarchia finanziaria» che assunse il totale controllo del Monte: gli ufficiali del Monte, a cui spettava la responsabilità della gestione finanziaria dei prestiti e una serie di competenze in materia di definizione e di riscossione delle imposte, sembravano «i magistrati più potenti della città» (L. Marks, The financial oligarchy..., cit., p. 146). Con la rivoluzione antimedicea del 1494, la struttura finanziaria cittadina non cambiò e i debiti del precedente regime furono riconosciuti. Ma mentre, per far fronte ai suoi bisogni correnti, la Repubblica rimaneva dipendente dalle anticipazioni finanziarie concesse dall’aristocrazia del d., lo Stato perdeva il suo carattere oligarchico: il Consiglio grande nuovamente istituito acquisì un potere di veto generale, quindi anche sulle leggi e sui provvedimenti finanziari. La contraddizione tra ordine politico e ordine finanziario fu l’elemento chiave delle lotte politiche durante il periodo 1494-1512 (cfr. Marks 1954, pp. 44-45). Contemporaneo di M., Piero Parenti riassume:
Non tacerò che in sul provedimento del danaio feciono e’ Primati principale fondamento di mutare lo stato, imperò che, bisognando ricorrere a loro ché servissino, essi a pregio alcuno nol voleano fare, e per verso alcuno non si trovavano danari (Storia fiorentina, 2° vol., 1497-1502, a cura di A. Matucci, 2005, p. 408).
Inoltre, negli stessi giorni in cui M. veniva nominato segretario dei Dieci della guerra, questo ufficio – incaricato della sicurezza e dell’integrità dello stato territoriale – era oggetto di tale sospetto che una legge istituiva una commissione per la revisione dei libri contabili relativi agli affari militari dal 1494. Il preambolo della legge collegava l’inefficacia delle truppe mercenarie sul fronte pisano con la distrazione degli stanziamenti per pagarle. Un anno dopo, l’indagine fu estesa a tutti gli investimenti nel debito fluttuante. Fu così svelato il sistema di corruzione con il quale l’aristocrazia finanziaria indeboliva la Repubblica, mettendola artificialmente in una situazione di bancarotta (ASF, Provisioni, Registri, 189, f. 43v, cit. in J. Barthas, Machiavelli from the Ten to the Nine, in Essays in honour of Anthony Molho, ed. D. Curto et al., 2009, pp. 165-66). Tutto sommato, scrisse M. anni dopo, «la cagione del male era la febbre e non il medico», cioè non l’ufficio dei Dieci sospeso per più di un anno (Discorsi I xxxix 7; cfr. anche Discorsi I viii 16-18). Il problema della debolezza di Firenze era di maggior profondità e di più lunga durata:
nasce dallo avere disarmati i popoli suoi, ed avere più tosto voluto [...] godersi un presente utile, di potere saccheggiare i popoli, e fuggire uno immaginato più tosto che vero pericolo, che fare cose che gli assicurino, e faccino i [suoi] stati felici in perpetuo. Il quale disordine, se partorisce qualche tempo qualche quiete, è cagione col tempo di necessità, di danni e rovine irrimediabili (Discorsi II xxx 11-12).
Si trattava quindi di liberare la Repubblica dalla sua dipendenza rispetto al potere della finanza, origine della sua debolezza. Questa necessità fu avvertita da M. sin dalle Parole da dirle sopra la provvisione del danaio, nel quadro dei negoziati per la legge finanziaria dell’anno 1503, la prima del governo di Piero Soderini:
non conoscete el tempo che voi perdete e che voi avete perduto; el quale voi piangerete ancora e sanza frutto, se non vi mutate di opinione: perché io vi dico che la fortuna non muta sentenzia dove non si muta ordine (§ 44).
M. aveva indicato la ragione della debolezza di Firenze: «cominciamo a guardarci in seno: voi vi troverrete disarmati, vedrete e’ sudditi vostri senza fede» (§ 15). Mutare opinione e ordine voleva dire istituire una vera e propria forza pubblica, non mercenaria, e ridefinire i rapporti tra città dominante e comunità suddite. I capitoli di sottomissione prevedevano obblighi fiscali e tributari in cambio della protezione di Firenze. Per la città dominante, l’espansionismo territoriale in Toscana era giustificato dalla competizione con le altre potenze italiane, e riprendere Pisa e altre città ribelli del dominio era «necessario a volere mantenere la libertà» (Discorso sopra Pisa, § 1). Ma tale espansionismo era stato reso necessario anche dalla politica del deficit, da cui l’aristocrazia del d. traeva ricchezza e potenza: il debito pubblico finanziava il costo dei mercenari al servizio dell’espansionismo commerciale e fiscale, il quale doveva assicurare il servizio del debito. Ma dal processo di concentrazione delle ricchezze, dal dominio alla dominante, risultarono, durante il Quattrocento, l’impoverimento, lo spopolamento e la contrazione economica e fiscale nei territori sudditi (cfr. M. Becker, Problemi della finanza pubblica fiorentina della seconda metà del Trecento e dei primi del Quattrocento, «Archivio storico italiano», 1965, 123, pp. 433-66). Nel contesto creato dall’avvio delle guerre d’Italia, Firenze dava ormai prova di debolezza strutturale e si dimostrava incapace di assicurare la sicurezza del territorio e dei sudditi. La ribellione, a Pisa, Arezzo o altrove, era quindi «ragionevole» secondo M.: «gli uomini non possono e non debbono essere fedeli servi di quello signore, da el quale e’ non possono essere né difesi né corretti» (Parole da dirle sopra la provvisione del danaio, § 15; cfr. anche Principe vii 24-25 e Discorsi II x 5). Già si profilava il concetto machiavelliano di «popolazioni armate» e il progetto di armare i popoli cominciando con i sudditi del contado e delle comunità fedeli, allo scopo di sottomettere Pisa e gli altri popoli insubordinati, per poi integrarli – come già suggeriscono Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (§ 6) e La cagione dell’ordinanza (§§ 6-8) – e farli partecipare a una forza comune. Da qui l’ipotesi di Antonio Gramsci di sollecitare il pensiero di M. e la storia toscana con domande di più vasta portata, anche dal punto di vista della storia del pensiero economico:
Se si prova che il Machiavelli tendeva a suscitare legami tra città e campagna e ad allargare la funzione delle classi urbane fino a domandar loro di spogliarsi di certi privilegi feudali-corporativi nei rispetti della campagna, per incorporare le classi rurali nello Stato, si dimostrerà anche che il Machiavelli implicitamente ha superato in idea la fase mercantilista (Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, 1975, pp. 1038-39).
Oltre che «tenere in maggior conto l’attività di governo all’interno dello stato di cui [M.] fu uno dei più importanti funzionari» (C. Vivanti, introduzione a N. Machiavelli, Opere, 1° vol., p. xxvii), per verificare tale ipotesi, o quella del «giacobinismo precoce» di M. (A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 953), andrebbe anche indagato, intorno a lemmi quali amore, amicizia, fedeltà, grazia, liberalità, il linguaggio contrattuale che regola, nel ‘lungo Medioevo’ cristiano (fino alla Rivoluzione francese), i rapporti venali, ossia gli scambi di protezione e benefici contro tributi e servizi, nell’ambito delle relazioni tra gli Stati, tra lo Stato e i suoi cittadini, tra il signore e i suoi sudditi, non diversamente da quanto accade tra marito e donna provvista di dote. Per esempio, nella Firenze del Quattrocento, il termine liberalità poteva essere usato per designare certi privilegi finanziari e interessi discrezionali, presentati come testimonianza dell’amore della comunità verso ricchi cittadini obbligati a prestare (Armstrong 2003, p. 69). Nel Principe M. si sforzò di ridefinire l’antropologia che veicolava un tale linguaggio, senza la comprensione del quale non si può capire nemmeno la veemenza dell’antimachiavellismo religioso. Da qui la molteplicità di ramificazioni del tema del d. anche nel capolavoro di Machiavelli. L’amicizia di una potenza esterna si compra versando tributi o pensioni (Principe iii 34, 39; vii 35). D’altra parte, è dannoso tenere «in cambio di colonie gente d’arme»: il principe «spende più assai, avendo a consumare nella guardia tutte le intrate di quello stato, in modo che l’acquisto gli torna perdita» (iii 19). All’interno, l’amicizia dei grandi si compra versando loro rendite (vii 18, 21) o liberalità (xvi 4). Tributi e liberalità sono una spesa, hanno un costo; richiedono delle entrate, e quindi imposte, «dazi», ossia di «gravare e’ populi» anche «estraordinariamente». Per essere liberale, con pochi, bisogna «essere fiscale» (xvi 3) e «rapace» (xvi 20) con molti. M. segna un legame tra la povertà dei popoli, depredati e spogliati dai loro signori, e il falso obbligo di «mantenere la fede» (iii 46, con ovvio rimando a xviii) che «signori impotenti» (vii 24) contrattano con forze esterne o con forze sociali interne animate dal desiderio di «opprimere el populo», quali i grandi (ix 2). Se la critica machiavelliana della liberalità è anche legata a una visione negativa dei rentiers – «quelli che oziosi vivono delle rendite delle loro possessioni abbondantemente» (Discorsi I lv 18) –, ciò non esclude che M. abbia intuito la possibilità di orientare il credito verso lo sviluppo dell’attività economica (cfr. Principe xxi 25-27). La storia del concetto di liberalità durante il ‘lungo Medioevo’ dimostra che il suo rigetto da parte di M. (in Principe xvi) portò a esaminare il potere dal punto di vista finanziario, e a considerare i legami tra spese e fiscalità: si prepara così il radicale cambiamento di paradigma che risultò nell’abolizione dei privilegi nel 1789 (cfr. A. Guéry, Le roi dépensier, «Annales», 1984, 39, pp. 1241-69).
Parallelamente, la negazione della sentenza pecunia nervus belli, in Discorsi II x – strettamente connessa all’affermazione che «le republiche e gli principi veramente potenti non comperono l’amicizie con danari, ma con la virtù e con la riputazione delle forze» (II xxx 1) – ha contribuito a far capire che ricchezza e prosperità non devono essere confusi e che, ferma restando l’importanza di stabilire dei fondamenti finanziari sani, una organizzazione sociale e una preparazione inadeguate all’eventualità della guerra sono un pericolo ben più serio. Donde la necessità di sapere bene «misurare le forze sue» (II x 2; cfr. anche Principe x). M. nega il sofisma che – estrapolato dal caso particolare in cui la mancanza di d. è stata causa di disfatta – conferisce in generale al d. un potere decisivo. M. lo attribuisce a Quinto Curzio, in una parte notoriamente mancante della Storia di Alessandro Magno, mentre l’exemplum rimanda alla Vita di Cleomene (§ 27) dove Plutarco «narra che, per difetto di danari, il re di Sparta fu necessitato azzuffarsi, e fu rotto» (Discorsi II x 9). Cleomene è una figura centrale del pantheon rivoluzionario di M., perché fu alle prese con una città corrotta dai processi di concentrazione delle ricchezze (cfr. Discorsi I xviii 21 e I ix 15-18). L’impiego della sentenza pecunia nervus belli a Firenze era un sintomo della medesima corruzione che vigeva a Sparta ai tempi di Agide e Cleomene, o a Roma quando i Gracchi tentarono di rimediare all’appropriazione privata dell’ager publicus (cfr. Discorsi I xxxvii). Cavalcanti la mette in bocca al capo dell’oligarchia fiorentina mentre sosteneva la guerra contro Milano nel 1423: egli chiede che «le borse si sciolgano, e i denari si versino; de’ quali nasca un fiume, che inebrii i soldati delle nostre ricchezze» (Istorie fiorentine, a cura di G. Di Pino, 1944, p. 11). Lo storico precisò anche quante ricchezze ricavavano i «grandissimi cittadini» dagli affari militari, tramite «l’amministrazione delle pecunie del comune» (p. 14). Come poté constatare M. sin dal luglio 1498, la stessa sentenza veniva regolarmente pronunciata nelle Consulte del comune o riassumeva nei loro verbali il tema in discussione (come segnalato da F. Gilbert, Florentine political assumptions in the period of Savonarola and Soderini, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 1957, 20, pp. 187-214; trad. it. in Id., Machiavelli e il suo tempo, 1977, p. 91; cfr. Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina 1495-1512, a cura di D. Fachard, 3 voll., 1988-2002). In quel momento, gli ufficiali del Monte negoziavano, per conto dei creditori del debito fluttuante, il tasso d’interesse (elevato) e le relative garanzie fiscali: espressione della fatalità economica, l’adagio aveva assunto a Firenze un preciso valore, legato a determinate pratiche finanziarie all’interno di determinate istituzioni sociali. Danari era diventato metonimia per Monte. Prova manifesta di ciò, il 10 dicembre 1498 veniva votato un provvedimento finanziario il cui preambolo diceva: «atteso maxime alla lunga guerra che per ancora dura per la ribellione della città di Pisa, e sapendo il nervo della guerra e il mantenimento della libertà di ciascuna Repubblica essere il danaro [il corsivo è nostro]» (ASF, Provvisioni, Registri, 189, f. 108v, come per primo ha notato A. Molho, Lo Stato e la finanza pubblica, in Origini dello Stato, a cura di G. Chittolini et. al., 1994, p. 226 nota 2). Con il suo paradosso M. negava proprio questo linguaggio universalizzante della legge, che dà un valore mistico a forme istituzionali storicamente costruite dagli uomini, rendendoli incapaci di concepire forme alternative. Per sostenere la propria tesi, M. presenta vari casi che provano che il d. non è sufficiente a garantire sicurezza, e altri che indicano nel d. addirittura un fattore di debolezza (per es., il d. fa di chi lo possiede una preda ambita). Sul piano retorico, M. ricorre alla minaccia per far capire la necessità di riforme strutturali. Ma l’argomento va in più direzioni: alla città, indica la necessità di armare le popolazioni per non diventare preda di potenze esterne; ai sudditi, quella di accettare l’onere della milizia, per non essere preda della città dominante o di potenze esterne. M. esplicita quindi la sua tesi:
Dico pertanto, non l’oro, come grida la comune opinione, essere il nervo della guerra, ma i buoni soldati; perché l’oro non è sufficiente a trovare i buoni soldati, ma i buoni soldati sono bene sufficienti a trovare l’oro (Discorsi II x 18).
La definizione di «buoni soldati» rimanda al concetto centrale di tutto il pensiero politico di M., quello di arme proprie, basate sul principio della coscrizione popolare. Che ciò avesse lo scopo ultimo di neutralizzare il sistema con il quale i ricchi tenevano i popoli dipendenti e servi, è manifesto anche nell’Arte della guerra dove, dopo avere lievemente sfumato la formulazione del suo paradosso, M. sentenziava: «Il disarmato ricco è premio del soldato povero» (VII 179).
Dopo M., l’adagio pecunia nervus belli non ha cessato di essere ripetuto, e molti autori hanno preferito accomodarsi sul senso comune piuttosto che sforzarsi di discutere i meriti dell’autore dei Discorsi (cfr. M. Stolleis, Pecunia nervus rerum, in Finanze e ragion di Stato, a cura di A. De Maddalena, H. Kellebenz, 1984, pp. 21-47). Al contrario, Francis Bacon (→) si è riferito all’adagio nel proporre un apprezzamento di sapore machiavelliano per i tumulti popolari, quale risultato inevitabile della corruzione del potere e del bisogno di riforme politiche e sociali (cfr. l’analisi del mito di Tifone nel De sapienza veterum, 1609). Il cancelliere inglese ha anche spesso citato il paradosso di M. per indicare nell’idolatria del d. un sintomo di degenerazione. In uno dei suoi più importanti saggi, ne ha sviluppato l’impostazione per analizzare i rapporti tra produzione, proprietà, classe sociale ed esercito nazionale (cfr. Of the true greatness of kingdoms and estates, 1612). Un secolo più tardi, scoprendo le conseguenze sociali ed economiche del clamoroso scandalo politico-finanziario della Compagnia dei Mari del Sud (1720), George Berkeley dimostrò una profonda intuizione del significato del paradosso di M.: ne affermò la correttezza constatando che la ricchezza fittizia creata nel sistema creditizio e lo sviluppo del commercio estero su basi speculative erano giunti a opporsi allo sviluppo reale dell’agricoltura, del mercato interno e dell’industria. Secondo il filosofo irlandese, gli uomini che avevano messo in piedi un tale dispositivo finanziario avevano lavorato «con sangue freddo e occhi ben aperti in vista della rovina del loro paese» (An essay towards preventing the ruin of Great Britain, in Id., Works, ed. A. Luce, T. Jessop, 6° vol., 1953, p. 80). La sentenza di M. fu anche accolta nel maggior libro dell’economia politica italiana nell’età dell’Illuminismo: Della Moneta (1751) di Ferdinando Galiani.
All’interno di una discussione sull’utilità e la necessità della moneta, Galiani nota che «la moneta ha, ed in ogni tempi ha avuti, e ingiusti disprezzatori e vili idolatri», ma che l’idolatria del d. è la più diffusa perché facilmente comunicabile alla moltitudine e la più pericolosa perché fonte di deleteri fraintendimenti nel valutare la prosperità e la solidità economica della nazione (Della Moneta, II iv). Jean-Jacques Rousseau (→) assunse il paradosso di M. sul d. nel capitolo Système économique delle Considérations sur le gouvernement de Pologne (scritte nel 1771-1772 e pubblicate postume nel 1782). Dopo avere ammonito a diffidare dei moderni «sistemi di finanze», che producono «degli animi venali», intriganti e servili, e si rendono necessari per mantenere meglio «il popolo in grande dipendenza», anche Rousseau invitò a fondare il «sistema militare» sul principio della coscrizione dei cittadini.
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