Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Denis Diderot è il padre del grandioso lavoro enciclopedico, che unisce tutti i grandi spiriti del Settecento francese. In questa colossale impresa manifesta i principi essenziali del suo pensiero: la natura non è un dato morto e immobile, ma un continuo e metamorfico processo vitale, che va interpretato attraverso le arti, in modo da costruire “forme” che abbiano in sé sia la forza del modello sia la sua capacità di rappresentare la dinamicità delle cose.
La vita e le opere
Denis Diderot nasce il 5 ottobre 1713 a Langres, una cittadina dell’attuale Alta Marna, figlio di un coltellinaio benestante. Destinato dai genitori a divenire prete, in quanto ottimo studente, è mandato a Parigi per completare gli studi nel 1729. Qui diviene nel 1732 “magister artium”, ma disattende profondamente le aspettative della famiglia. Dopo un breve periodo nello studio di un procuratore, abbandona non solo il diritto, ma qualsiasi volontà di carriera per dedicarsi alla letteratura, al teatro e alla filosofia. Il padre taglia ogni aiuto e per circa una decina di anni il giovane Denis vive di espedienti, piccoli lavori e aiuti di amici e della moglie, la ricamatrice Antoinette Champion, sposata nel 1742.
In questi anni difficili, anche grazie alle frequentazioni parigine, e all’amicizia burrascosa (che si rompe nel 1758) con Jean-Jacques Rousseau, si completa tuttavia la sua formazione. La svolta avviene nel 1745, quando traduce il Saggio sulla virtù e sul merito di Shaftesbury. Traduzione e adattamento che lo fanno conoscere anche a editori e, in particolare a Le Breton, che gli affida, in collaborazione con il matematico d’Alembert, la traduzione e l’adattamento della Cyclopedia del britannico Chambers. Pubblica anche i primi lavori filosofici e letterari, ovvero i Pensieri filosofici (Pensées philosophiques) del 1746, La sufficienza della religione naturale (De la suffisance de la religion naturelle) e La passeggiata dello scettico (La promenade du sceptique), del 1747, oltre al romanzo licenzioso, nel 1748, I gioielli indiscreti (Les bijoux indiscrets). Nel 1749 la Lettera sui ciechi ad uso di coloro che vedono (Lettre sur les aveugles à l’usage de ceux qui voient), dove l’impostazione deista e il substrato materialista sono particolarmente evidenti. A seguito delle tesi sostenute in questo saggio, viene incarcerato a Vincennes. La prigionia dura cinque mesi e non è particolarmente dura, ma lascia il segno, ovvero una sagace prudenza nel distinguere i canali di comunicazione dei propri scritti, che da quel momento in avanti non sempre sono destinati al pubblico, ma a una serie di amici, spesso attraverso il giornale manoscritto “La Correspondance littéraire”, pubblicata dal barone Grimm, in cui diversi suoi lavori “esoterici” hanno spazio.
Con questi scritti, e dopo la prigionia, si apre il periodo forse più difficile, ma senza dubbio più fecondo, della esistenza filosofica di Diderot, che coincide con la straordinaria fatica che porta a termine solo nel 1773, cioè l’Enciclopedia, la cui vita travagliata coincide per vent’anni con quella di Diderot. In un vortice di lavoro, e presto abbandonato da d’Alembert, Diderot, che con frequenza redige voci “mancanti” e cura editorialmente l’intera opera, scrive tuttavia in questo periodo i suoi lavori maggiori, sia sul piano filosofico con L’interpretazione della natura (De l’interprétation de la nature, 1753) e il Sogno di d’Alembert (Rêve del 1769), sia su quello letterario con i romanzi La monaca (La religieuse, 1760), Giacomo il fatalista (Jacques le fataliste, 1773), Il nipote di Rameau (Le neveu de Rameau, 1762). Essenziali, più che per il valore intrinseco per l’influenza che hanno sulla riforma settecentesca e ottocentesca del teatro, le due opere teatrali Il figlio naturale e Il padre di famiglia e soprattutto il saggio La poesia drammatica (La poésie dramatique, 1757-58). Molte osservazioni importanti sono presenti anche nell’epistolario, in particolare in quello con l’amica Sophie Volland, conosciuta e amata dal 1756. La sua morte, il 22 febbraio 1784, fu un colpo dal quale Diderot non si riprende. Muore infatti a Parigi il 31 luglio dello stesso anno.
L’interpretazione della natura
Diderot non è un pensatore sistematico e il suo valore filosofico e culturale non può essere ristretto ai soli saggi filosofici. Vero protagonista dei “Lumi” francesi, personalità trascinante, spazia dalla teoria letteraria a quella teatrale, dall’estetica alla critica delle arti con i commenti ai biennali Salons parigini di pittura. È di conseguenza difficile enucleare una “linea” filosofica unitaria schematizzandola nei consueti, e spesso banali, parametri storiografici, peraltro sempre poco utili per disegnare le diverse posizioni che attraversano l’Illuminismo francese. In apparenza, Diderot è vicino a teorie materialiste e deiste, ma al tempo stesso è affascinato dalla visione della natura mobile e “sentimentale”, attraversata da utopie etico-politiche, di Jean-Jacques Rousseau. Punti di vista che integra con quelli di Spinoza e, soprattutto, Francesco Bacone, a sottolineare che l’autentico centro del suo pensiero è, come nella quasi totalità di pensatori del suo tempo, il concetto di Natura.
L’interpretazione della natura, che è il suo scritto filosofico principale e richiama sin dal titolo i Cogitata et visa de interpretatione naturae di Francesco Bacone, è un saggio di metodologia della scienza, un elogio dello sperimentalismo che critica la sterilità delle matematiche a favore di una concezione “qualitativa” della natura, considerata come un corpo unitario da interpretare nelle sue leggi intrinseche per poter meglio trarre da essa elementi di conoscenza e di utilità. Come ribadirà nel Sogno di d’Alembert, e sotto gli influssi degli scritti fisiologici di Haller, la natura va considerata da un punto di vista monistico, in un quadro che metta in rilievo l’importanza della sensibilità sullo sfondo di una profonda unità organica tra la materia, la vita e la coscienza. Diderot pone la natura come una “grande catena” in un costante divenire evoluzionistico che coinvolge la totalità vitale degli esseri animati e inanimati: è guidata da un’idea di metamorfosi all’interno della quale il concetto di forma non è un dato fisso immutabilmente connesso a un’immagine, bensì un elemento dinamico, che ha nel movimento, nella sua dialogicità, la sua unica possibile definizione. La forma è fenomeno ibrido perché ha bisogno dell’altro, di mutare i propri confini, il proprio “apparire”, senza potersi rinchiudere in un’immagine isolata. A differenza di Bacone, e con un’impostazione che influenzerà Goethe, Diderot va alla ricerca di un “prototipo” di tutti gli animali, in grado di giustificare, di metamorfosi in metamorfosi, l’incessante movimento genetico della natura come forza e “fermentazione generale”.
Arte ed espressione
Denis Diderot
Comunicazione dei bijoux
I gioielli indiscreti
Mentre parla (Mangogul) rivolge in rapida successione il suo anello sulle donne, ad eccezione di Mirzoza e ogni bijou risponde a sua volta, si possono ascoltare mentre parlano con diversi toni: “io sono frequentato, sciupato abbandonato, profumato, stanco, mal servito annoiato. Tutti parlarono, ma in modo così brusco e poco aggraziato che non furono intesi distintamente. Il loro gergo confuso e stridulo accompagnato dagli scoppi di ilarità di Mangogoul e dei suoi cortigiani provoca un rumore mai ascoltato prima. Le dame convennero con aria seriosa che ciò era assai divertente. Come, dice il Sultano, (ma) noi siamo ben felici che i bijoux vogliano parlare la nostra lingua e contribuire a sostenere almeno la metà della conversazione.
La società non potrebbe che guadagnare da questa duplicazione degli organi. Forse anche non uomini potremmo parlare diversamente che con la bocca. Che cosa ne sappiamo?”
Diderot, I gioielli indiscreti, trad. redazionale, 1749
I vari motivi presenti nella filosofia della natura diderotiana, dalla critica della matematica all’idea della necessità di un approccio sperimentale, sono il filo conduttore per comprendere sia l’impostazione generale del lavoro enciclopedico sia la possibilità di spaziare, da questi principi epistemologici generali, ad altri ambiti di sapere. Particolarmente importante è, a questo proposito, la voce “Arte”, che è uno degli scritti programmatici per l’Enciclopedia e che, proprio per tale motivo, viene pubblicata “in anteprima” nel 1751. Partendo dal presupposto che le arti “meccaniche” e le arti “liberali” hanno identica dignità, sia sociale sia conoscitiva, Diderot osserva che l’arte è una modalità di interpretazione della natura che sente la necessità di “provare” la natura stessa attraverso la costruzione di oggetti. La filosofia ha di conseguenza bisogno dell’arte in base al principio (baconiano) che l’uomo è il ministro o l’interprete della natura e non può né comprendere né fare se non nella misura in cui ha conoscenza, sperimentale o razionale, degli esseri che lo circondano.
Il termine “arte” non può dunque riferirsi soltanto alle produzioni “belle”, bensì a qualsiasi organizzazione di strumenti e regole finalizzate a produrre oggetti. Chi si incaricherà della materia delle arti, scrive Diderot nella voce “Enciclopedia”, dovrà avere studiato in profondità l’intera storia naturale, cercando di ricavare da essa una rete di saperi, tra loro sempre connessi.
Nel momento in cui si vogliono trarre da questa natura, attraverso una profonda intelligenza della mano, gli aspetti espressivi e sentimentali, si avranno i prodotti dell’arte “bella”, il cui fine è quello di ricavare dalle cose i segreti “geroglifici” che nascondono in sé, portandoli ad “espressione”. Espressione che è per Diderot “l’immagine di un sentimento”, una risposta antropologica ai caratteri delle cose stesse, al loro stato e alle loro qualità naturali.
La bellezza di un geroglifico espressivo è data così dalla sua capacità di esprimere la natura o un evento, dalla capacità di esibirlo senza mai ridurlo a qualcosa che possa essere bloccato o “spiegato”, cogliendone invece sempre l’energia gestuale che racchiude. Nella Lettera sui sordomuti, scritta nel 1751, si comprende dunque che l’interpretazione diderotiana della natura non è riducibile a Bacone, ma implica una più generale lettura estetico-espressiva del mondo e degli atti costruttivi che lo afferrano e manipolano tecnicamente, seguendone l’intrinseco movimento. La dialogicità diderotiana non è soltanto una forma letteraria utilizzata sia nei romanzi sia in alcuni scritti filosofici, bensì l’immagine vivente di quella polifonia che è per Diderot la natura stessa, con tutta la sua forza espressiva: comprendere i processi della natura e della natura in quanto arte (e dell’uomo come natura) significa porre le basi per una nuova semantica dell’espressione, in sintonia con il movimento generale della natura.
Denis Diderot
Susanna e la superiora
La monaca
Intanto si era tolta il pannolino dal collo, e aveva posato una mia mano sulla sua gola; essa taceva, anch’io tacevo; sembrava assaporare un infinito piacere. Mi invitava a baciarle la fronte, le gote, gli occhi e la bocca; ed io obbedivo: non credo che ci fosse in ciò alcunché di male. Intanto la sua euforia aumentava; e poiché io non chiedevo di meglio che di concorrere alla sua felicità in modo tanto onesto, le baciavo ancora la fronte, le gote, gli occhi e la bocca. La mano che aveva posato sulle mie ginocchia correva lungo le vesti, dall’estremità dei piedi fino alla vita, stringendo or qua, or là; balbettando, e con voce alterata e cupa, la superiora mi esortava a moltiplicare le carezze: le moltiplicai; giunse finalmente un istante, non so se di gioia o di dolore, in cui si fece pallida come una morta; chiuse gli occhi, si irrigidì violentemente, serrò le labbra, umettate d’una lieve schiuma; poi dischiuse la bocca, e mi parve morisse emettendo un profondo sospiro. Mi alzai di scatto; credetti stesse male; volevo uscire, chiamar gente. La Madre socchiuse fiaccamente gli occhi, e con voce spenta mi disse: – Ingenua! non è nulla; che cosa volete fare? State qui... – La guardai con occhio ebete, incerta se rimanere o andarmene. Riaprì nuovamente gli occhi; era assolutamente incapace di parlare; mi fece segno di avvicinarmi e di riprendere posto sulle sue ginocchia. Non sapevo quel che avveniva in me; temevo, tremavo, il cuore palpitava, faticavo a respirare, mi sentivo turbata, oppressa, inquieta, avevo paura; mi sembrava che le forze fossero sul punto di abbandonarmi e che venissi meno; eppure non potrei affermare d’aver provato una sofferenza. Le andai vicino; mi invitò ancora con un gesto della mano a sedermi sulle ginocchia; sedetti; essa sembrava morta, ed io prossima a morire. Restammo parecchio tempo entrambe in quella posizione piuttosto singolare. Se una qualche monaca fosse sopraggiunta, certamente si sarebbe spaventata; avrebbe immaginato, o che stessimo male, o che ci fossimo addormentate.
Diderot, La monaca, a cura di F. Cordero, trad. it. di C. Borelli, Torino, Einaudi, 1972
La percezione dei rapporti
La bellezza non è dunque un dono degli dèi, ma deriva da uno sforzo costruttivo che è comprensione dei rapporti intrinseci dell’oggetto. Diderot, infatti, per collegare bellezza e natura, parla di “teoria dei rapporti”, riprendendo un’espressione contenuta nel cartesiano Compendium musicae del 1618. I rapporti, semplici o composti, costituiscono la simmetria, l’ordine interno alla “natura delle cose”, che loro tramite si esprime: percepire tali rapporti significa comprendere la bellezza come forza espressiva e geroglifica. Scrive Diderot: “Chiamo bello fuori di me tutto ciò che contiene in sé qualcosa che possa risvegliare nel mio intelletto l’idea di rapporti; e bello per me tutto ciò che risveglia questa idea”. Questa nozione non è un principio soggettivamente relativo in quanto ha il suo limite nell’oggetto: l’intelletto non aggiunge o toglie nulla alle cose e la loro bellezza deriva soltanto dalle connessioni e dai rapporti concreti che sono in loro, tra le loro parti, che è compito dell’arte unire, comporre, organizzare in modo che il sentimento le riconosca, le afferri, le esprima.
La questione assume così un senso simbolico per l’intero pensiero di Diderot: costruire opere d’arte o manufatti è sempre un’interpretazione espressiva della natura, che ha un profondo significato antropologico. In questo lavoro espressivo la natura si mostra come insieme di molteplicità e differenze, che tra loro collaborano, dialogano, scambiandosi valori, significati, possibilità, che si traducono in rapporti “belli”, in forme che mantengono la dinamicità che le ha costruite. Il pensiero di Diderot è dunque, in tutte le sue manifestazioni, un pensiero “viaggiante”: il bello è un risultato di questo viaggio, che permette di comprendere, in primo luogo in via sperimentale, le possibilità che sono nella natura umana e nella natura delle cose.
La metafora settecentesca del viaggio diviene così l’evidente sigillo dell’evoluzione subita in questo secolo dal concetto di “natura”, sulla cui viaggiante ambiguità l’intera filosofia del secolo si fonda: natura che non è più un sistema di leggi quantitative stabilite da Dio nel mondo fisico, ma di cui sempre più si scoprono i lati oscuri o, comunque, qualitativi, che ne spezzano la rigidità geometrizzante, volgendo l’attenzione verso la sua varietà sperimentale e biologica. Questa natura viaggiante non è più l’oggetto immobile di un’analisi scientifica basata su antichi modelli, in quanto richiede nuovi sguardi, che al tempo stesso rinnovano il concetto di “scienza”, che deve adattarsi alla mobilità di oggetti tematici come il bello, l’uomo, la società, strati di un’unica natura in movimento sempre di nuovo da interpretare.
Il teatro come metafora
Il movimento interpretativo operato dal filosofo, dallo scienziato, dall’artista trova nel teatro la sua metafora privilegiata. Il teatro non è una rappresentazione astratta, bensì una pratica gestuale e corporea che va ricondotta nel quadro di una forma e che, di conseguenza, ha bisogno di regole, regole che sono necessarie ogniqualvolta il corpo si trovi a esprimere sentimenti. Sentimenti che vanno “controllati” (tema, quest’ultimo, che, di derivazione cartesiana, accompagna Diderot sino al Paradosso sull’attore) dal momento che “la poesia vuole qualcosa d’enorme, di barbaro e di selvaggio”. La forma è data dall’attore, che deve seguire precise regole nel conferire alla rappresentazione aspetti corporei – il tono, il gesto, l’azione – attribuendo energia alla scena. Accanto a questo aspetto passionale e corporeo, in cui l’attore inserisce la sua intera sensibilità, si deve tuttavia porre un freno razionale, che ha così un compito insieme etico e logico.
Il teatro non è corruzione, come insiste Rousseau quando vede in esso la metafora di una mediazione culturale che allontana dalla natura. Al contrario, esso interpreta la natura esercitando quella collaborazione tra dimensione sensibile e dimensione ideale da cui trae origine la rappresentazione, cioè la regola che guida la forma del sapere. Là dove Rousseau, in nome della natura, vuole reprimere, annullando la rappresentazione teatrale, Diderot ritiene che il teatro sia il modello di come vadano costruite forme rappresentazionali: quando si generano o interpretano forme è necessario trovare mediazioni che introducano nella forma stessa una dinamicità e nel sentimento un rigore. Il teatro, come la natura, è un sistema che deve essere conosciuto nella sua ricchezza e varietà, di manifestazioni e di leggi, perché possa generare conoscenza ed espressione. Il gesto teatrale, pur ripetuto come i movimenti della natura, è sempre diverso, sempre rinnovato. Il paradosso dell’attore è il medesimo della natura, e della filosofia, per le quali la rappresentazione non è l’identico concettualizzato che si ripropone, ma lo sguardo, i sensi, il corpo, il giudizio che provano con i loro gesti la multiforme varietà del senso del mondo. L’istinto non è un buon giudice, come non lo è l’immediatezza: l’attore, come il filosofo, deve essere simile al poeta, cioè a colui che “va continuamente ad attingere nel fondo inesauribile della natura” e, se così non fosse, “presto vedrebbe estinguersi la sua ricchezza”.
Compensare, mediare, moderare, fare dialogare esperienza e giudizio, espressione e riflessione. È questa l’essenza profonda dell’intero percorso diderotiano: osservare, riconoscere, imitare sono le qualità della conoscenza, non il sentimento indistinto, bensì la volontà di finalizzare alla forma, a un apparato legale, i movimenti del corpo. Il grande attore, quando rappresenta, non è catturato e dominato dalla scena, ma esce da sé e la controlla: la verità non è la presenza immediata, né la riproduzione, bensì, come il lavoro enciclopedico, una rappresentazione che descrive il senso molteplice delle cose, riflettendo sulla loro natura, cogliendone il principio, facendola divenire un modello formale di riferimento, che supera l’istante e afferra ciò che caratterizza il fenomeno.
L’incipit dei Saggi sulla pittura di Diderot – “La natura non fa nulla di scorretto. Ogni forma, bella o brutta, ha la sua ragion d’essere, e in tutto ciò che esiste non c’è nulla che non sia come deve essere” – sembrerebbe ingenuamente leibniziano, essendo un procedimento per enunciare il principio di ragion sufficiente. Da un lato, infatti, è questo il substrato: la distinzione leibniziana tra verità di ragione e verità di fatto ha reso possibile una metafisica delle cose che giustifica molte affermazioni illuministiche e le “nuove scienze” che da esse sono nate. D’altro lato, tuttavia, segna una novità, implicita in Diderot, cioè la volontà di plasmare e interpretare la metafisica, guardando alle “ragioni” intrinseche alle cose, alle loro qualità fenomeniche. Il principio di ragion sufficiente può infatti essere interpretato, all’interno di uno spirito razionalista, come ricerca di cause: ma Diderot non si riduce a questa interpretazione dal momento che le “ragioni”, i logoi, sono sia un modo per scavare il reale sia uno strumento per agire su di esso. Se cause ed effetti fossero per noi sempre chiari e distinti, e non lo sono, allora, scrive Diderot, “non avremmo nulla di meglio da fare che rappresentare gli esseri così come sono”. Ciò invece non può accadere: non è l’evidenza del sistema causale a permetterne la comprensione, bensì la complessità stratificata dei loro modi di rappresentazione, l’intelligente abilità di organizzare l’insieme non in una serie di cause ed effetti, bensì in uno stratificato organismo, che deve essere sempre di nuovo descritto, indagato, interpretato.