Abstract
Le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche sono qualificate nel nostro ordinamento come veri e propri diritti di proprietà industriale, protette contro ogni uso di segni eguali o simili idoneo a determinare inganno del pubblico o agganciamento parassitario, con una norma che estende a tutti i settori le regole di tutela dettate a livello di Unione Europea nel solo campo agroalimentare. Norme speciali assicurano il coordinamento di questa protezione con le disposizioni sull’uso dei nomi geografici come marchi, individuali e collettivi, anche se l’interpretazione di esse presenta ancora margini di incertezza. Ancora largamente insoddisfacente è invece la difesa a livello internazionale, a causa delle rilevanti differenze di disciplina presenti tra i diversi sistemi giuridici, non superate neppure dal TRIPs Agreement, mentre la più importante Convenzione internazionale del settore (l’Accordo di Lisbona del 1958) conta solo 28 adesioni ed è attualmente in corso di revisione.
Tanto le denominazioni d’origine che le indicazioni di provenienza sono segni geografici che esprimono un legame tra il prodotto che sono chiamate a contraddistinguere ed il territorio dal quale esso proviene; sul piano classificatorio (ma non sotto quello della tutela, che è omogenea) si distinguono tra loro perché per le seconde basta che alla provenienza da un determinato luogo si colleghi anche solo la reputazione del prodotto, mentre per le prime occorre che i fattori territoriali, ambientali o umani, influenzino le caratteristiche obiettive del prodotto. Accanto a queste categorie vi è un terzo gruppo di nomi geografici, noti come indicazioni geografiche semplici, che informano semplicemente sulla provenienza del prodotto da un determinato territorio.
Mentre i segni delle prime due categorie sono protetti dagli artt. 29 e 30 c.p.i. contro ogni uso di segni eguali o simili idoneo a determinare inganno del pubblico o agganciamento parassitario, le indicazioni geografiche semplici sono tutelate solo contro gli usi ingannevoli in base alle norme in materia di concorrenza sleale (art. 2598 c.c.).
Le norme richiamate del c.p.i. hanno esteso a tutti i settori le regole di protezione dettate a partire dal 1992 da una serie di Regolamenti comunitari relativi al solo ambito agroalimentare: questi Regolamenti, più volte rivisti ed influenzati anche da esigenze pubblicistiche di promozione di un’agricoltura di qualità, hanno dato luogo, nei Paesi membri, ad un sistema tendenzialmente onnicomprensivo, che entro il suo campo di applicazione centralizza a livello europeo il riconoscimento di denominazioni di origine e indicazioni geografiche, lasciando sopravvivere solo gli impegni assunti verso Paesi terzi in base a convenzioni internazionali preesistenti, bilaterali o multilaterali.
Sul piano economico, questi istituti intendono apprestare una protezione per i prodotti tipici: tuttavia, mentre la protezione oggi accordata a questi segni è di regola intensa nei loro Paesi di origine, siamo ancora molto lontani da una protezione soddisfacente di esse al livello globale che oggi caratterizza gli scambi commerciali. Ciò probabilmente è dovuto al fatto che, a differenza di altri settori, come quelli dei marchi e dei brevetti, nei quali, pur con una serie di differenze, la posizione dei Paesi più economicamente avanzati è sostanzialmente omogenea, qui è fortissima la contrapposizione di interessi fra i Paesi che hanno una forte tradizione nella produzione di prodotti agro-alimentari di qualità caratterizzati localmente, e quelli che una tradizione di questo genere non hanno e che quindi tendono piuttosto a favorire i loro produttori che, prendendo a modello quei prodotti, vogliono usare denominazioni e simboli che richiamino le tradizioni alle quali si ispirano, mettendosi commercialmente «al traino» di esse, dando vita al fenomeno che, per i nostri prodotti, è noto come «Italian Sounding».
Questa contrapposizione di interessi spiega perché lo standard minimo di tutela accordato a questi segni dal cosiddetto TRIPs Agreement, varato nel 1994 in coincidenza con la creazione della World Trade Organisation (WTO) per fissare un livello inderogabile di protezione dei diritti di proprietà intellettuale nei Paesi aderenti, sia ancora estremamente basso.
La norma del TRIPs Agreement che concerne in generale le indicazioni geografiche (art. 22) le tutela, infatti, soltanto contro l’inganno del pubblico, mentre l’uso di esse con locuzioni come ‘tipo’, ‘modello’ e simili, che non determinano inganno sull’origine del prodotto, ma comportano certamente un agganciamento alla reputazione del prodotto ‘originale’, viene repressa solo per le indicazioni relative ai vini, per i quali tradizionalmente il livello di protezione è più elevato (art. 23).
Il tentativo di riservare una più intensa protezione almeno ad alcune specifiche denominazioni di origine, particolarmente famose e particolarmente sfruttate appunto in chiave parassitaria, è stato fatto, sempre nell’ambito della WTO, in occasione delle periodiche conferenze interministeriali svoltesi nell’ambito dell’Organizzazione, ma sinora senza particolare successo, cosicché attualmente si cerca di trovare delle soluzioni al problema della protezione internazionale delle denominazioni di origine attraverso accordi bilaterali, almeno con i Paesi extracomunitari che rappresentano i mercati più significativi per i prodotti tipici europei, e cioè con Canada e Stati Uniti.
Sempre a livello internazionale, una protezione avanzata delle denominazioni di origine esiste già, ed è quella prevista dall’Accordo di Lisbona del 1958, che prevede un meccanismo di registrazione internazionale delle denominazioni di origine di prodotti le cui caratteristiche obiettive siano legate all’ambiente geografico da cui essi sono originari, che vengono protette (art. 3) «contro qualsiasi usurpazione o imitazione, ancorché l’origine vera del prodotto sia indicata o la denominazione sia tradotta e accompagnata da espressioni come ‘genere’, ‘tipo’, ‘modo’, ‘imitazione’ o simili». All’Accordo di Lisbona hanno però aderito 28 Paesi in tutto: fuori dell’Europa, mancano in particolare gli Stati Uniti, il Canada e tutti i Paesi asiatici, tranne Israele, la Georgia e la Corea del Nord. Una nuova conferenza diplomatica per la revisione dell’Accordo si è tenuta nel 2015 presso l’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale (OMPI-WIPO) e ha portato all’adozione di un testo riveduto, in base al quale potranno essere registrate anche semplici indicazioni geografiche, ma che è bel lungi dal potersi considerare attraente per Paesi come gli Stati Uniti e il Canada.
Anche la Convenzione di Unione di Parigi – che il TRIPs Agreement espressamente richiama – si limita a sanzionare, all’art. 10, l’«utilizzazione diretta o indiretta di una indicazione falsa relativa alla provenienza del prodotto»; poco più specifico è l’Accordo di Madrid del 1891 (cui peraltro non hanno aderito né Stati Uniti, né Canada), che oltre a vietare, all’art. 1, l’uso di un’indicazione «fausse ou fallacieuse» che indichi direttamente o indirettamente un Paese aderente alla Convenzione o un luogo in esso compreso come origine di prodotti in realtà realizzati altrove, all’art. 3 proibisce anche l’uso di «toutes indications ayant un caractère de publicité et susceptibles de tromper le public sur la provenance des produits».
Più efficaci si sono dimostrati taluni accordi settoriali, come la Convenzione di Stresa del 1951 in materia di formaggi, mentre anche gli accordi bilaterali si sono quasi sempre limitati, con poche eccezioni, a intese tra Paesi che conoscono entrambi denominazioni famose, delle quali, per così dire, si «scambiano» la protezione. Più di recente sono stati siglati accordi ‘di seconda generazione’, soprattutto tra l’Unione Europea o altri Paesi, per particolari settori o su specifiche denominazioni.
Più sviluppata e coerente – data la maggiore omogeneità degli interessi da tutelare – è infatti la legislazione comunitaria, che pure prevede – come nel TRIPs Agreement – una contrapposizione tra la disciplina delle denominazioni dei prodotti vitivinicoli e quella delle restanti denominazioni di origine.
Per i vini, una serie di Regolamenti si sono succeduti nel tempo: attualmente in questa materia è in vigore il reg. CE n. 479/2008, che comprende 129 articoli, 88 ‘considerando’ e 9 allegati, e a sua volta ha richiesto un ulteriore regolamento di applicazione (attualmente il reg. CE n. 607/2009); ad esso si affianca un separato Regolamento, a sua volta evoluto nel tempo (il testo attualmente vigente è quello del reg. CE n. 110/2008), riguardante le bevande spiritose. In questi Regolamenti vengono precisate molto in dettaglio cose che forse in altri settori sono meno enfatizzate, come l’etichettatura e le modalità di utilizzo delle qualifiche, nell’ottica di promozione dell’agricoltura europea, che muove dall’idea che sia la qualità l’elemento vincente per poter competere sui mercati internazionali.
Il reg. CE n. 479/2008 distingue denominazioni d’origine e indicazioni geografiche, essenzialmente perché per fregiarsi delle prime al vino è richiesto che «la sua qualità e le sue caratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico ed ai suoi fattori naturali e umani», mentre per l’uso delle seconde basta che esso «possied(a) qualità, notorietà o altre caratteristiche specifiche attribuibili a tale origine geografica» (art. 34). Per le bevande spiritose è invece ovviamente prevista solo la disciplina delle indicazioni geografiche, intendendosi per tale «un’indicazione che identifichi una bevanda spiritosa come originaria del territorio di un paese, o di una regione o località di detto territorio, quando una determinata qualità, la rinomanza o altra caratteristica della bevanda spiritosa sia essenzialmente attribuibile alla sua origine geografica» (art. 15, reg. CE n. 110/2008).
Degna di nota è però soprattutto l’evoluzione dell’ambito di tutela: mentre infatti ancora nel reg. CE n. 1493/1999 era solo vietato (all’art. 50) l’uso di indicazioni non veritiere, alle condizioni di cui agli artt. 23 e 24 del TRIPs Agreement, nella più recente versione del Regolamento – così come, per le bevande spiritose, all’art. 19 del reg. CE n. 110/2008 – la protezione è concessa non solo contro l’inganno del pubblico, ma anche contro «a) qualsiasi uso commerciale diretto o indiretto di un nome protetto: i) per prodotti comparabili non conformi al disciplinare del nome protetto, oppure ii) nella misura in cui tale uso sfrutti la notorietà di una denominazione di origine o di una indicazione geografica» (art. 45 reg. CE n. 479/2008).
Quest’ultima previsione (che, come vedremo, deriva da quella già anteriormente adottata per i segni protetti fuori dell’ambito vitivinicolo) è particolarmente significativa, perché in pratica appresta a queste denominazioni una protezione anche extra-merceologica contro lo sfruttamento parassitario, assimilabile a quella dei marchi che godono di rinomanza.
Questi ultimi sviluppi hanno reso la disciplina europea delle denominazioni dei prodotti vitivinicoli più omogenea con quella relativa alle denominazioni dei prodotti agro-alimentari diversi da quelli vitivinicoli. Per questi la duplice protezione contro l’inganno e contro l’approfittamento della reputazione era già prevista sin dalla sua formulazione originaria, col reg. CEE n. 2081/92, poi sostituito dal reg. CE n. 509/2006 e ora dal reg. UE n. 1151/2012, che ha sostituito anche il preesistente reg. CEE. n. 2082/92 sulle attestazioni di specificità (oggi specialità tradizionali garantite – STG, e cioè i nomi tradizionali di specifici prodotti agricoli o alimentari ‘tradizionali’ il cui carattere specifico non risieda nella provenienza o nell’origine geografica), riunendo quindi in un unico testo normativo anche la relativa disciplina.
Tale protezione è prevista sia per le denominazioni di origine protetta (DOP), che per le indicazioni geografiche protette (IGP): le prime in qualche misura assimilabili alle denominazioni previste dall’Accordodi Lisbona, perché presuppongono che «la qualità» o «le caratteristiche» del prodotto contrassegnato – e cioè degli elementi obiettivi di esso – siano «dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico ed ai suoi intrinseci fattorinaturali e umani» e «le cui fasi di produzione si svolg(a)no nella zona geografica delimitata»; le seconde più simili alle indicazioni di provenienza del TRIPs Agreement, perché richiedono solo che all’«origine geografica» del prodotto siano «essenzialmente attribuibili una data qualità; la reputazione o altre caratteristiche» di esso e che la produzione di esso «si svolg(a) per almeno una delle sue fasi nella zona geografica delimitata».
Inoltre, già in base alla prima versione del Regolamento – rimasto sotto questo profilo sostanzialmente invariato – DOP e IGP erano tutelate sia contro «tutte le prassi che possano indurre in errore il pubblico», sia contro «qualsiasi impiego commerciale diretto o indiretto di una denominazione registrata per prodotti che non sono oggetto di registrazione, nella misura in cui questi ultimi siano comparabili ai prodotti registrati con questa denominazione o nella misura in cui l’uso di tale denominazione consenta di sfruttare indebitamente la reputazione della denominazione protetta».
Viene dunque protetta direttamente la reputazione contro ogni forma di sfruttamento parassitario, anche in assenza di un inganno del pubblico, e quindi questi segni vengono ad avvicinarsi agli (altri) segni distintivi, ed in particolare ai marchi, che sono del pari oggi protetti contro ogni forma di parassitismo commerciale: fermo restando che DOP e IGP, per essere tutelate come tali, devono comunque esprimere un legame tra il prodotto ed il territorio, in difetto del quale esse sarebbero equivalenti a segni di fantasia, e nulla si opporrebbe quindi anche alla loro monopolizzazione come marchio individuale di uno specifico imprenditore.
Ad un’evoluzione analoga si è assistito anche nella legislazione interna italiana, che, pur essendosi sviluppata in modo disorganico – essendo stata spesso adottata con leggi speciali relative a situazioni specifiche – ha progressivamente acquisito coerenza e omogeneità proprio in relazione alle convenzioni internazionali e al diritto comunitario.
In termini più generali, nell’ordinamento italiano lo spazio per una tutela delle denominazioni di origine non limitata alle ipotesi di inganno del pubblico, è stato anzitutto trovato mediante l’applicazione delle norme in materia di concorrenza sleale, che le stesse disposizioni dedicate alle indicazioni di provenienza contenute negli artt. 29 e 30 c.p.i. (che, nella loro formulazione originaria, erano sostanzialmente corrispondenti all’art. 31 del d.lgs. 19.3.1996, n. 198, di attuazione del TRIPs Agreement) fanno espressamente salve: infatti, l’uso di denominazioni d’origine non conformi al vero è considerato un’ipotesi di appropriazione di pregi (cfr. ad esempio Trib. Napoli, 8.7.1996, in Dir. ind., 1996, 1016 e ss.; e App. Bologna, 24.6.1996, in Giur. ann. dir. ind., 1997, n. 3598).
È anche importante notare che, già nella sua formulazione originaria, l’art. 30 c.p.i. accordava tutela a tutte le denominazioni rispondenti ai requisiti dell’art. 29, indipendentemente dal fatto che esse abbiano ottenuto protezione attraverso una disciplina legislativa ad hoc. Questi requisiti, inoltre, sono più ristretti di quelli previsti dall’Accordo di Lisbona (il «milieu geographique», inteso come collegamento fra le caratteristiche obiettive del prodotto e l’ambiente geografico, di cui la nostra giurisprudenza ha tra l’altro sempre preteso di controllare caso per caso l’esistenza: cfr. Cass., 28.11.1996, n. 10857, in Giur. ann. dir. ind., 1996, n. 3565 e Cass., 10.9.2002, n. 13168, ivi, 2002, n. 4337), poiché basta che all’ambiente sia legata anche soltanto la «reputazione» del prodotto stesso, come è previsto dal TRIPs Agreement e per le IGP comunitarie. Con la riforma del Codice della Proprietà Industriale operato dal d.lgs. 13.8.2010, n. 131, l’art. 30 è stato poi riscritto in modo da riprendere pressoché alla lettera il dettato dell’art. 13.1, lett. a) del reg. UE n. 1151/2012 sulla tutela di DOP e IGP, tutelando quindi nel nostro Paese tutte le denominazioni d’origine (e quindi non solo quelle del settore agroalimentare registrate a livello comunitario) contro ogni uso non autorizzato che «consenta di sfruttare indebitamente la reputazione della denominazione protetta», e cioè appunto contro lo sfruttamento parassitario.
In tutti i casi il parassitismo segna così la misura ed il limite della protezione, prendendo anche qui atto del progressivo avvicinamento tra la disciplina delle denominazioni di origine e quella dei marchi, intervenuto non solo sul versante della tutela, ma anche su quello – strettamente correlato al primo sul piano del bilanciamento di interessi – del rilievo primario attribuito alla non ingannevolezza del segno (che è da sempre fondamentale per le denominazioni di origine e che è ora divenuto anche la chiave di volta del nuovo diritto dei marchi).
Si è dunque creata una sorta di diritto comune dei segni commerciali: che non significa ovviamente uniformità di disciplina per segni di tipo diverso, ma certamente esistenza di un denominatore comune tra essi.
In linea di principio, la circostanza che un nome geografico sia percepito come indicazione di provenienza sembra invece logicamente incompatibile con l’appropriazione in esclusiva di esso come marchio, poiché per definizione esso comunica al pubblico un messaggio relativo alla qualità o alla reputazione di prodotti tipici, contraddistinti, in quanto provenienti (non da una determinata impresa, ma) da un determinato territorio. I giudici comunitari hanno anzi dato dell’art. 3.1.c della dir. n. 89/104/CEE in materia di marchi d’impresa (ora dir. n. 2008/95/CE), e delle esigenze pro-concorrenziali ad esso sottese, un’interpretazione rigorosa, che vieta la registrazione come marchio (individuale) non solo di una denominazione geografica che attualmente influenzi il giudizio del pubblico sulla qualità dei prodotti contraddistinti, ma anche di quella che sia potenzialmente in grado di designare la provenienza geografica della categoria di prodotti per cui il marchio venga chiesto (cfr. C. giust. CE, 4.5.1999, C-108/97 e C-109/97, Windsurfing Chiemsee; C. giust. CE, 7.1.2004, C-100/02, Gerolsteiner Brunnen; Trib. CE, 15.10.2003, T-295/01, Oldenburger).
In questo caso i diritti consolidati assumono un rilievo significativo, dal momento che il regolamento ammette la coesistenza di un marchio coincidente con una DOP o una IGP, purché lo stesso sia anteriore al 1996 (quando è entrato a regime il sistema), sia stato registrato in buona fede e non sia decaduto; e poiché la decadenza del marchio può verificarsi anche per perdita di capacità distintiva e per inganno del pubblico, va escluso che il titolare di un marchio preesistente ormai percepito come mera indicazione di provenienza geografica possa impedirne la registrazione come DOP o IGP e continuare a monopolizzarne il significato ormai divenuto generico.
Per l'ipotesi speculare della registrazione (e dell'uso) di un marchio corrispondente a una DOP o a una IGP, secondo logica, un divieto dovrebbe valere solo quando l'inserimento del nome geografico del marchio dà luogo a un inganno del pubblico o a un approfittamento della reputazione della denominazione geografica: ed in tal senso si era in effetti espressa la giurisprudenza (si veda C. giust. CE, 4.3.1999, C-87/97, Gorgonzola/Cambozola). Sennonché la norma corrispondente del Regolamento sulle denominazioni vitivinicole è stata interpretata nel senso che il divieto di registrazione come marchio sia automatico e assoluto, ossia valga per qualunque tipo di prodotto e per qualunque forma di inserimento del nome geografico nel segno (Trib. CE, 11.5.2010, T-237/08, Cuvée Palomar).
È peraltro evidente la contraddittorietà intrinseca di questa conclusione, che non può venire giustificata neppure sulla base degli interessi pubblicistici del settore agricolo, posto che, in difetto di un richiamo alla DOP o all'IGP, non sussistono neppure le esigenze di tutela che il legislatore ha inteso soddisfare con questi istituti. Si può inoltre dubitare che il divieto valga quando il segno geografico venga registrato come marchio collettivo dai Consorzi di tutela, anche se la norma non fa distinzioni al riguardo.
Un altro profilo problematico delle denominazioni d’origine agroalimentari riguarda la possibile difformità tra le previsioni del diritto comunitario e quelle previste da convenzioni stipulate anteriormente all’entrata in vigore del Trattato.
Tali convenzioni sono ovviamente superate nei rapporti tra gli Stati membri dell’Unione Europea; tuttavia nei rapporti tra uno o più Paesi membri ed un Paese terzo esse devono essere ancora applicate. Ciò è espressamente stabilito dall’art. 351 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea ed è stato più volte ribadito dalla giurisprudenza comunitaria (cfr. in particolare C. giust. CE, 3.3.2009, C-249/06, Commissione c. Regno di Svezia); lo stesso reg. UE n. 1151/2012 (come quelli che l’hanno preceduto) prevede al suo art. 7, co. 3, lett. c) la possibilità di presentare opposizione alla registrazione di una DOP/IGP sulla base di una denominazione/indicazione (di un Paese membro o di un Paese terzo) non registrata a livello comunitario: così esplicitamente confermando la possibilità che esistano denominazioni di origine e/o indicazioni geografiche al di fuori del sistema comunitario e che queste possano ricevere tutela.
Nella giurisprudenza italiana più recente questa tutela è stata così riconosciuta ad esempio alla denominazione svizzera ‘Emmental’, in quanto tutelata dalla Convenzione di Stresa del 1951, che pure è ormai inoperante nei rapporti tra i Paesi comunitari (si veda, recentissimamente,Trib. Milano, 17.3.2012, in www.darts-ip.com; e già Cass. pen., 19.11.1993, in Cass. pen., 1995, 1209); e ciò fermo restando che un ambito di tutela per le denominazioni geografiche che siano percepite come tali dal pubblico può essere recuperata nel nostro ordinamento in base sia ai richiamati artt. 29 e 30 c.p.i., sia, e prima ancora, alle norme della Convenzione di Unione di Parigi e a quelle in materia di concorrenza sleale.
Anche in questo caso decisiva appare dunque la percezione del pubblico: e su di essa sembra quindi giocoforza fare leva anche per tutelare le denominazioni d’origine del nostro Paese nelle aree geografiche dove questo istituto non è riconosciuto, essendo comunque vietato, appunto in base alla Convenzione di Unione, ogni forma di pubblicità ingannevole e, di regola, anche l’agganciamento parassitario.
Il progressivo avvicinamento tra la disciplina delle denominazioni di origine e quella dei marchi, si manifesta non solo sul versante della tutela contro ogni forma di parassitismo, ma anche su quello – strettamente correlato al primo sul piano del bilanciamento di interessi – del rilievo primario attribuito alla non ingannevolezza del segno, da sempre fondamentale per le denominazioni di origine e ora divenuto anche la chiave di volta del nuovo diritto dei marchi.
Questo duplice ravvicinamento sembra anche indicare una possibile strada per l'armonizzazione della disciplina a livello internazionale, creando le condizioni per il superamento dell'attuale divaricazione tra la posizione degli Stati europei e quella dei Paesi extraeuropei, in special modo americani ed asiatici: il Congresso mondiale di AIPPI, tenutosi a Gőteborg nell'ottobre 2006, ha infatti approvato una Risoluzione che prospetta appunto il divieto dell'inganno del pubblico e quello dello sfruttamento abusivo della reputazione commerciale come linea-guida per risolvere, anche a livello internazionale, i frequenti conflitti tra marchi e denominazioni di origine.
Nella stessa prospettiva, inoltre, le modifiche del Codice della Proprietà Industriale introdotte dalla riforma del 2010 appaiono idonee a consentire anche un legittimo sfruttamento dei valori insiti nei nomi geografici «significativi», in particolare attraverso la concessione di licenze: le nuove disposizioni permettono infatti sia ai Consorzi di tutela delle denominazioni d'origine, sia agli enti pubblici territoriali di utilizzare al meglio i nomi geografici e gli altri simboli legati al territorio come strumento per valorizzare le esternalità positive legate alla fama del territorio medesimo, non solo vietando ogni forma di free-riding e di sfruttamento parassitario di essa, ma anche – in positivo – monetizzando questa fama, in particolare concedendo questi segni in uso a imprese operanti sul territorio, naturalmente imponendo ad esse limiti precisi per evitare che i segni stessi divengano fonte di inganno, e quindi facendo anche da volano per lo sviluppo di iniziative localizzate nella propria area territoriale (cfr. Galli, C., a cura di, Codice della proprietà industriale: la riforma 2010, Milano, 2010 e più specificamente, nello stesso volume, Contini, A., Le opportunità di sfruttamento della nuova protezione delle denominazioni di origine e il suolo dei Consorzi, 43 e ss.).
Naturalmente anche in questo caso andranno fatti salvi i diritti consolidati di terzi, anche solo all'uso in funzione non distintiva di questi segni: anche se non si può escludere che una mutata percezione del pubblico possa comportare la decadenza di questi diritti o consentirne diverse forme di sfruttamento in funzione distintiva. La chiave di volta, ancora una volta, sarà rappresentata dalla percezione del pubblico, che è l'elemento decisivo sia per stabilire se un segno è tutelabile, sia per delimitarne l'ambito di tutela, secondo una prospettiva, che si può definire giusnaturalistica, di adeguamento del diritto alle relazioni interpersonali della vita reale.
L’art. 517 c.p., nel testo risultante dalla revisione operata dalla l. 21.12.1999, n. 99, sanziona con la reclusione sino a due anni e con la multa sino a 20.000 euro la condotta di «(c)hiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri, atti a indurre in inganno il compratore sull’origine, provenienza o qualità dell’opera o del prodotto». Poiché il bene giuridico tutelato dalla norma è stato identificato anzitutto con la protezione dei consumatori dagli inganni del pubblico, essa è stata ritenuta idonea a sanzionare anche condotte di uso ingannevole di indicazioni geografiche e denominazioni di origine; ad essa sono state anzi ricondotte, dai ripetuti interventi legislativi operati in materia di ‘Made in Italy’ anche le fallaci indicazioni che richiamino la provenienza italiana di prodotti non realizzati nel nostro Paese: anche se tali norme sono per più versi sospette d’incostituzionalità e di contrarietà al diritto comunitario e sono state interpretate restrittivamente dalla giurisprudenza, che sotto questo profilo ha sanzionato solo le esplicite rivendicazioni di un’origine geografica inveritiera (cfr. in particolare Cass. pen., 7.5.2009, n. 29533 e in dottrina Galli, C., Marchi italiani e «Made in Italy», in Dir. ind., 2009, VI, 511 e ss.).
Sempre la l. n. 99/2009 ha tuttavia inserito nel codice penale una norma specifica che sanziona la contraffazione delle denominazioni geografiche e delle indicazioni di provenienza dei prodotti agroalimentari, e cioè l’art. 517quater, a mente del quale «chiunque contraffà o comunque altera indicazioni geografiche o denominazioni di origine di prodotti agroalimentari è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a euro 20.000».
Artt. 2598-2601 c.c.; art. 517-quater c.p.; d.lgs. 10.2.2005, n. 30 (c.p.i.); d.lgs. 19.3.1996, n. 198; l. 24.4.1998, n. 128; d.lgs. 30.4.1998, n. 173; l. 21.12.1999, n. 526; l. 24.12.2003, n. 350; d.lgs. 6.9.2005, n. 206; d.lgs. 8.4.2010, n. 61; art. 351 TFUE; reg. CE 29.4.2008, n. 479; reg. CE 14.7.2009, n. 607; reg. UE 21.11.2012, n. 1151; Accordo di Madrid per la repressione delle indicazioni di provenienza false o fallaci (14.4.1891), ratificato conl. 4.7.1976, n. 676; Convenzione internazionale sull’uso dei nominativi di origine e delledenominazioni dei formaggi (1.6.1951), ratificata con d.P.R. 18.11.1953, n. 1099; Accordodi Lisbona sulla protezione delle denominazioni d’origine e sulla loro registrazione internazionale(31.10.1958), ratificato con l. 28.4.1976, n. 424; Convenzione di Parigi per laprotezione della proprietà industriale (14.7.1967), ratificata con l. 28.4.1976, n. 424;TRIPs Agreement (Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights, adottato a Marrakech nel 1994), ratificato con l. 29.12.1994, n. 747; d.m. 8.9.1999, n. 350; d.m. 12.4.2000.
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