Dentro il cratere. Il terremoto del 1980 nella memoria dei sindaci
Il 23 novembre 1980 era una domenica di sole. «Non sembrava novembre», recita il ritornello della memoria. D’improvviso un violento sisma sconvolse le viscere dell’Appennino meridionale, attraversò il confine tra Campania, Puglia e Basilicata. Si scatenò a 30 km di profondità, tra la Sella di Conza della Campania (in provincia di Avellino), Castelnuovo di Conza e Laviano (in provincia di Salerno), cavalcando una faglia lunga circa 60 km e larga 15: la stessa che in passato aveva generato terremoti simili. La frattura raggiunse la superficie terrestre generando una scarpata di faglia ben visibile per circa 35 km. La scossa principale venne valutata 6,9 gradi di magnitudo della scala Richter, la sua intensità variò tra i 10 gradi (completamente distruttiva) e i 7 gradi (molto forte) della scala Mercalli nei comuni compresi nel cosiddetto cratere, cioè la zona maggiormente colpita e per nulla nuova a eventi sismici di significativa potenza (tab. 1). Nel complesso, l’area interessata si estende secondo alcuni per circa 15.000 kmq, 17.000 secondo altri; qualcun altro semplifica paragonandola all’intero Abruzzo o al Belgio. Si tratta comunque di un’area vasta, difficile da determinare con esattezza, che il sisma percorse repentinamente nell’arco di 90 secondi: la scossa venne registrata all’epicentro alle 19,35; a Conza della Campania qualcuno ricorda che erano circa le 19,34; per l’allora sindaco di Balvano erano le 19,36; a Muro Lucano arrivò intorno 19,30.
La durata fu per tutti infinita: 90 interminabili secondi in cui il sisma violentò piazze, strade, case; abbatté campanili, chiese, ospedali; sterminò intere famiglie, scovandone i componenti a uno a uno nei posti diversi in cui quella sera si trovavano: a casa di amici o parenti, nel bar della piazza, in chiesa per la messa vespertina, in auto sulla via del ritorno verso casa per poi riprendere, il lunedì successivo, la quotidiana routine. Ma l’alba del giorno dopo illuminò solo macerie, polvere e lamenti. Moltissimi i comuni colpiti: secondo i dati dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV) furono 687 (542 in Campania, 131 in Basilicata e 14 in Puglia); di questi, 37 «disastrati», 314 «gravemente danneggiati» e 336 «danneggiati». In totale, l’8,5% degli 8086 comuni italiani, pari a circa 6 milioni di abitanti. Il 60% delle attività produttive dell’area furono gravemente compromesse. Imponenti le frane scatenate dal sisma a Calitri, Caposele, Calabritto e Senerchia, nel cratere irpino. Quella notte segnò una frattura temporale che divise mille biografie, mille storie, mille luoghi tra tutto ciò che era «prima del terremoto» e tutto ciò che sarebbe stato «dopo il terremoto»: altro ritornello nel repertorio della memoria collettiva.
Del sisma del 23 novembre 1980 molto si è detto, scritto, visto nelle immagini restituite dai media dopo l’evento. L’informazione e la cronaca si sono concentrate, per lo più, su due fasi polari: i primi mesi dopo il sisma e il lungo periodo che segue la primavera del 1981, segnato dall’emanazione della l. 14 maggio 1981 nr. 219, che finanziava la ricostruzione. Il senso di un immane disastro, da un lato, il prezioso impegno di volontari e soccorritori, dall’altro, connotano l’immagine della prima fase; l’incertezza decisionale, il controllo politico del territorio, le logiche clientelari di gestione delle risorse finanziarie nutrono la narrazione dell’interminabile fase della ricostruzione. Il risultato è una rappresentazione in cui primeggiano gli elementi negativi: impotenza, sconfitta, disorganizzazione, incapacità, corruzione, individualismi, campanilismi e scarsa coscienza civica. Su questa rappresentazione si fonda, sostanzialmente, la memoria storica del sisma del 1980, che tende altresì a omologare territori e pratiche nel quadro univoco della povertà e dell’arretratezza culturale, della dipendenza dal ceto politico locale, della chiusura nei campanilismi. Eppure, se si indaga più in profondità penetrando le zone grigie – delimitate da spazi e tempi circoscritti – attraverso memorie individuali e collettive finora poco o per nulla ascoltate, questa rappresentazione totale può essere incrinata.
In tale ottica, questo contributo si propone un duplice obiettivo. Innanzitutto, quello di riportare alla luce gli avvenimenti e le dinamiche che presero corpo nella fase più drammatica di quell’evento, che va dalle prime ore dopo la terribile scossa delle 19 e 35 fino ai primi mesi del 1981. Una fase poco indagata, oscurata dall’esposizione mediatica e spettacolarizzata dei numeri del dramma prima e della ricostruzione poi. È proprio questa la fase in cui si può cogliere la capacità di resilienza, sia strutturale sia dinamica, delle comunità locali (Mela 2010). Per resilienza si intende qui, adottando la definizione del Department for international development del 2011 (https://www.gov.uk/government/ uploads/system/uploads/attachment_data/file/186874/defining-disaster-resilience-approach-paper.pdf, 16 sett. 2014), l’abilità di paesi, comunità e società locali di gestire il cambiamento mantenendo o trasformando gli standard di vita di fronte a eventi catastrofici, senza compromettere le prospettive di lungo termine. La dimensione strutturale della resilienza attiene alle caratteristiche del sistema sociale e a quelle dell’ambiente, naturale e costruito, e alle relazioni tra i due sistemi; è la dimensione che più direttamente si intreccia con il concetto di vulnerabilità di una comunità. La resilienza dinamica è riferita all’evoluzione adattiva della comunità di fronte alla catastrofe, al complesso delle relazioni che si creano tra il sistema locale e i diversi livelli esterni, alla capacità di promuovere coesione sociale e di negoziare risorse (Adger et al. 2005; Ungar 2008). Le due dimensioni, ovviamente, sono strettamente interconnesse.
Il secondo obiettivo è quello di colmare questo vuoto nella storia del terremoto del 1980 partendo dal punto di vista dei territori, restituito direttamente dalla memoria degli attori del dramma. L’area indagata comprende 23 dei 36 comuni del cratere distribuiti nella provincia di Avellino (Avellino, Calabritto, Calitri, Caposele, Conza della Campania, Lioni, Morra De Sanctis, Salza Irpina, San Mango del Calore, Sant’Angelo dei Lombardi, Sant’Andrea di Conza, Solofra, Sorbo Serpico, Teora, Torella dei Lombardi), di Salerno (Laviano, Palomonte, Ricigliano, San Gregorio Magno, Santomenna) e Potenza (Balvano, Muro Lucano, Pescopagano). In particolare, si è scelto di privilegiare la memoria dei sindaci ‘della prima ora’, sulla base di alcune considerazioni.
In primo luogo, tali testimonianze restituiscono una memoria – non indagata – allo stesso tempo soggettiva, collettiva e istituzionale. Punto di riferimento per la comunità locale – soprattutto in situazione di crisi –, esse sono l’espressione emblematica della sovrapposizione di più ruoli: cittadino, amministratore locale, decisore pubblico, professionista, esponente di partito, tutti ruoli che, di volta in volta, possono prendere il sopravvento l’uno sull’altro nelle diverse fasi di gestione del disastro. In secondo luogo, questi sindaci rappresentano il ceto amministrativo degli anni Ottanta, che si colloca a cavallo tra il crollo dei partiti storici e la riforma elettorale introdotta dalla l. 25 marzo 1993 nr. 81; si tratta, in pratica, della generazione di amministratori che precede (e che per certi versi, come vedremo, anticipa) i sindaci ‘nuovi’ portati dalla riforma (Comuni nuovi, 2002). Come si vedrà, nella fase immediatamente postsismica, l’emergenza dirompente che si è venuta a creare assegna ai sindaci del cratere autonomia, potere e responsabilità istituzionali in una misura mai sperimentata prima.
Per finire, proprio in quanto rappresentanti istituzionali delle realtà locali, essi costituiscono un canale di accesso alla comunità intesa non come oggetto di studio, ma come luogo in cui ci si colloca per concentrarsi su un tema e studiarne l’estensione delle dinamiche a esso connesse oltre gli ambiti geografico-spaziali (Geertz 1983). Ciò fa di loro una fonte preziosa attraverso cui è possibile ricostruire le dinamiche sociali e politiche che hanno gettato le basi dei nuovi, spesso controversi, assetti territoriali e sociali nei comuni del cratere. Partiremo da quella sera del 23 novembre e dai danni prodotti dal sisma, per ricordare le dimensioni della catastrofe ma anche per cogliere il contributo che la memoria di chi ha vissuto quegli attimi può apportare al significato di numeri e misure ricostruite a posteriori. Seguiremo poi il percorso della memoria degli attori istituzionali, sindaci e amministratori, nei tempi e negli spazi dei territori del cratere per mettere a fuoco la risposta delle comunità locali, la capacità di resilienza attivata nell’immediata emergenza messa poi a tacere dalle dinamiche contorte della ricostruzione.
La misura della catastrofe generata dal sisma del 1980 è restituita dalla complessa valutazione del danno, a oggi ancora non completamente definita. Molto si è detto sugli errori di valutazione iniziali, variamente spiegati con la difficoltà di comunicazione da parte di paesi completamente isolati dall’interruzione delle linee telefoniche, con l’esigua presenza di radioamatori (gli unici in grado di comunicare), fino all’impatto della condizione emotiva di coloro che per primi arrivavano nei territori disastrati, ai quali il danno appariva incommensurabile. Sta di fatto che a lungo è mancato un ruolo di coordinamento e di raccolta dei dati. Ma soprattutto gli errori di valutazione si sono moltiplicati nel tempo, condizionando i processi di ricostruzione a vari livelli. Si pensi, per es., alla ben nota questione dell’individuazione delle fasce di danno – comuni disastrati, gravemente danneggiati, danneggiati – imposta alle Regioni Campania e Basilicata dalla l. 22 dic. 1980 nr. 874. Basti qui ricordare come, da una prima ripartizione che nel dicembre del 1980 individuava 339 comuni, si sia passati, attraverso una serie di decreti successivi, a 687 comuni (Ventura 2011), distribuiti per fascia di danno nelle misure sopra riportate. Gli indicatori centrali nella valutazione del danno sono due: il numero delle vittime e l’entità del patrimonio edilizio, pubblico e privato, danneggiato o distrutto dal sisma. Si tratta di indicatori che chiamano in causa, oltre ai conteggi e alle misurazioni, le percezioni individuali e collettive, il senso e i significati attribuiti alle quantità, il tipo di competenze e strumenti messi in campo per ‘pesare’ il danno in termini di impatto sulle comunità locali. Partiamo dalla conta delle vittime.
La relazione del commissario straordinario Giuseppe Zamberletti, presentata alla Camera nel marzo del 1981, parlava di 2735 vittime (cifra che probabilmente non teneva conto del numero dei dispersi). Negli anni si susseguono cifre contrastanti. I dati del Ministero dell’Interno (aderenti a quelli dell’INGV per il Catalogo dei forti terremoti italiani, 1997) riferiscono 2914 morti. La Protezione civile ne conta, a oggi, 2734. Nei primi giorni dopo il sisma i quotidiani parlavano di ‘migliaia di vittime’ (Ventura 2011). Sono 2700 secondo l’Osservatorio sul doposisma. Stessa cosa per feriti (tra 8000 e 10.000) e senzatetto (circa 300.000). In realtà, il conteggio è complicato: per l’estensione del territorio interessato, per le morti accadute dopo la notte del 23 novembre, per la distruzione di diversi archivi comunali e per altre regioni ancora. Eppure gli amministratori locali allora in carica conservano una memoria precisa del numero delle vittime del sisma nei loro comuni. Soprattutto nei piccoli centri, ma non solo, i morti sono stati contati uno a uno: «Fu un triste, lungo censimento: 243 morti» ricorda Rodolfo Salzarulo, allora consigliere comunale a Lioni (intervista del 16 genn. 2013, Lioni). «73 morirono nel crollo della chiesa, altri quattro qualche giorno dopo all’ospedale di Potenza. 41 su 77 avevano un’età compresa tra i 3 e i 25 anni. 62 erano di sesso femminile e 15 maschile», ricorda l’allora sindaco di Balvano Ezio Di Carlo (intervista del 13 genn. 2014, Balvano); così per i 24 morti di San Gregorio Magno; per i 20 di Pescopagano, che il sindaco Bartolomeo Mazzeo conosceva personalmente (come conosceva tutti i loro familiari su due generazioni, avendo insegnato per molti anni nella scuola elementare del paese); per i 430 di Sant’Angelo dei Lombardi; per i 303 di Laviano (un quinto dei residenti), e così via fino al ricordo, altrettanto puntuale, delle famiglie che subirono il maggior numero di lutti (interviste a testimoni vari 2010-14). È una memoria che restituisce il danno sociale del sisma: vuoti istituzionali, drammi familiari, economie locali seppellite, gerarchie sociali rivoltate, dinamiche demografiche profondamente alterate dall’irruzione della catastrofe negli equilibri di genere e generazionali. E tutto ciò con pesi e ricadute diversi in contesti diversi, anche a pochi chilometri di distanza tra loro. Lo stesso commissario Zamberletti, in un’intervista rilasciata nell’ambito della celebrazione del trentennale del terremoto a Sant’Angelo dei Lombardi, ha dichiarato: «Castelnuovo di Conza, un ricordo agghiacciante: metà degli abitanti si apprestava a seppellire l’altra metà» (intervista di Franco Genzale, in 23 novembre 1980-23 novembre 2010. Viaggio nella memoria con Giuseppe Zamberletti, a cura di F. Genzale, D. Moschella, «Buongiorno Campania», 23 nov. 2010, supplemento, p. 19). Nel dramma ricostruito dalla memoria, la mera conta delle vittime finisce nel retroscena.
Per quanto riguarda il danno al patrimonio edilizio, dai resoconti dell’Ufficio del commissario straordinario risulta che il 74% dei comuni colpiti dal sisma ha subito gravi danni. Interi nuclei urbani cancellati, altri duramente danneggiati. In particolare, circa 20.000 alloggi distrutti o irrecuperabili nei 36 comuni della fascia epicentrale. In 244 comuni (non epicentrali) altri 50.000 hanno subito danni da gravissimi a medio-gravi. Ulteriori 30.000 alloggi sono stati danneggiati in maniera lieve. L’INGV tira le somme: 362.000 abitazioni distrutte o danneggiate dal sisma. Mediamente, i comuni più colpiti registrano più del 60% degli edifici crollati o danneggiati; per Conza della Campania, come per Laviano, l’indice di distruzione arriva al 95%. I numeri raccontano la vulnerabilità di queste aree in cui il sisma irruppe su di un patrimonio abitativo – vecchie costruzioni in muratura ma anche nuove costruzioni in cemento – inadeguato a sostenerne la potenza. Raccontano la disattenzione delle prime norme tecniche che si svilupparono dopo grandi eventi sismici (quelle del 1908 dopo il terremoto Messina, poi nel 1935 e nel 1942), soprattutto nel periodo del boom edilizio degli anni Sessanta e Settanta, che vide all’opera costruttori improvvisati e poco attenti alle regole architettoniche, urbanistiche e soprattutto tecniche; la frenesia delle nuove costruzioni che distolse l’attenzione dalla manutenzione delle vecchie, in muratura. Raccontano le implicazioni dell’inadeguata classificazione sismica delle aree colpite, evidenziata con forza dal geologo Franco Ortolani nel corso del suo intervento al convegno tenutosi a Sant’Angelo dei Lombardi il 23 novembre 2010, nel trentennale del sisma.
Tutto ciò è patrimonio consolidato della memoria pubblica, ha orientato studi e ricerche, politiche locali e nazionali, ha sollecitato ampi dibattiti mediatici. Ma il crollo della propria casa – così come del palazzo comunale, della scuola o della chiesa – assume, nella percezione soggettiva, un significato dalle coordinate più ampie, che conferisce profondità al dato quantitativo. I luoghi, e in misura maggiore quelli edificati, sono il posto in cui gli eventi accadono, le pratiche quotidiane prendono corpo, gli elementi identitari e le stratificazioni sociali si materializzano. Tony Lucido, allora direttore di una radio locale a Sant’Angelo dei Lombardi, ricorda:
C’era il palazzo che era stato il simbolo della modernità del paese, in piazza, realizzato agli inizi degli anni Sessanta, Palazzo Japicca, che noi eravamo contenti, chi ci abitava aveva fatto una conquista sociale, aveva abbandonato la casetta angusta che oggi semmai viene riscoperta nel centro storico, perché quella casa era imponente, l’ascensore e altro… Quel palazzo non c’era più. Mentre cammino vedo che al posto di quel palazzo c’era la luna […] fu una cosa terribile! (intervista del 12 luglio 2013, Sant’Angelo dei Lombardi)
Assunta Fasano, che quella sera era con Tony Lucido e altri coetanei, adolescenti, nella sede della radio locale, rievoca il grande senso di smarrimento generato dalla perdita degli abituali luoghi di aggregazione: la piazza, i giardini, la fontana del paese. Il sindaco di Balvano, Di Carlo, ricorda che le 810 abitazioni del comune erano, per la maggior parte, ricavate da grotte, vecchie e abbarbicate l’una sull’altra; il 30% di queste crollò completamente il 23 novembre; quattro o cinque condomini di costruzione più recente, in cemento armato ma non antisismici, si salvarono insieme alla caserma dei carabinieri, alla casa comunale e a due edifici scolastici. Ma soprattutto, afferma ancora Di Carlo, sparirono con il terremoto i luoghi simbolo della socialità: le piazze, i bar con i frequentatori abituali suddivisi per fazioni e gruppi politici, il Corso Garibaldi teatro dei pettegolezzi. Anche nei contesti più urbanizzati, la memoria dei luoghi travolti dal sisma assume significati molteplici. Così racconta Amalia Leo, oggi funzionaria del comune di Avellino e allora giovane laureata in lettere impegnata nella ricognizione del patrimonio architettonico della città:
Avellino era stata completamente squarciata, alcune strade erano completamente invase da detriti: via Cascino, piazza Libertà… e i più anziani parlavano di una distruzione superiore a quella del bombardamento del 1943. Piazza del Popolo, che era stata investita dal bombardamento del 1943, era completamente distrutta. E poi il cimitero: l’entrata monumentale del cimitero è stata inagibile per anni! Lì per lì la città si è completamente bloccata (intervista dell’1 ott. 2013, Avellino).
Come tutte le catastrofi, il terremoto ha scatenato trasformazioni urbane e paesistiche tanto massicce quanto repentine. La ricostruzione totale del danno al patrimonio, al suo valore simbolico e identitario, si è configurata dunque come un processo complesso e allo stesso tempo fondamentale per una riparazione appropriata, che non aggiunga alla catastrofe naturale il disastro prodotto dall’uomo: ciò che restava di Laviano dopo il terremoto fu raso al suolo dalle ruspe e mai più riesumato (Colletta in Rischio sismico, paesaggio, architettura, 2005). In questo processo, la memoria assume un ruolo tanto centrale quanto complicato; in un territorio distrutto dal sisma, infatti, riconoscere un luogo comporta uno sforzo notevole della memoria in quanto i segni che prima individuavano quel particolare posto non esistono più (Sepe in Rischio sismico, paesaggio, architettura, 2005). Inoltre, la memoria può alterare la realtà, connotandola più o meno oggettivamente, a seconda dei ‘quadri sociali’ (Halbwacks 1997) in cui si colloca, della condizione emotiva che la alimenta, del tempo e del luogo in cui è narrata. Ciononostante, essa riporta a galla dinamiche sommerse.
Prendiamo, per es., la mappatura del danno patrimoniale. L’estensione dell’area colpita, l’entità del danno, i tempi stretti dell’emergenza, l’imperativo «Fate presto» dell’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini fecero mettere in campo competenze più o meno aderenti al compito, procedure più o meno standardizzate, criteri e visioni disparati. Architetti e urbanisti, geologi e geometri, ingegneri e agronomi lavorarono accanto a chiunque abbia un minimo di familiarità con il concetto di patrimonio edilizio. Ancora Amalia Leo, al tempo appena laureata, racconta come nei giorni successivi al sisma, insieme ad altri colleghi di varia formazione, venne inviata dal comune nelle zone più colpite per fare il censimento degli immobili; la mancanza di competenze e di strumenti adeguati si tradusse spesso, ricorda la Leo, in valutazioni molto sommarie. Le aree disastrate, dunque, divennero cantieri in cui si costruirono competenze (che talvolta maturarono anche in veri e propri percorsi professionali), in cui si parlavano linguaggi differenti e le sensibilità individuali presero il posto delle procedure standardizzate, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che ciò può comportare. Basti pensare alle ricadute sulla collocazione dei comuni nelle varie fasce di danno e, di conseguenza, sulla distribuzione delle risorse finanziarie previste per la ricostruzione. L’entità del danno generato dal sisma del 1980 e la percezione che ne hanno gli attori direttamente coinvolti svelano un’elevata vulnerabilità dei territori. Questi presentano caratteri sistemici (ambiente naturale e costruito, strumenti di pianificazione e competenze, strutture di informazione e comunicazione ecc.) che ne ostacolano la resilienza strutturale, la capacità di fronteggiare il disastro. Ma quali sono le risposte che si sviluppano in seno alle comunità? Qual è il ruolo giocato dai sindaci in quei territori d’un tratto senza confini, senza senso?
Le narrazioni dei sindaci, ma anche le incursioni nei luoghi del sisma, le conversazioni spontanee con gli abitanti, le foto e i documenti conservati negli archivi personali o comunali disegnano con chiarezza il percorso della memoria dell’evento. C’è di più: forniscono una serie di elementi utili a decostruire lo stereotipo – ancora piuttosto diffuso – dell’omogeneità socioeconomica, politica e culturale delle aree interne, collocate solitamente in un quadro di arretratezza e connotate dalla cultura della sconfitta. È lo stereotipo che guidò gli inviati speciali della stampa, e dei media in generale, nelle zone del sisma:
Rileggendo i testi di alcuni inviati colpisce una sorta di ingenuo stupore nel descrivere paesi e persone che essi avevano immaginato del tutto diversi da come li incontravano nella realtà. Tra i pregiudizi che molti di loro avevano nel proprio bagaglio culturale e professionale c’era quello del fatalismo dei meridionali [...] era persino inutile aiutare chi non voleva e non sapeva riscattarsi della sua arretratezza […]. Scoprimmo allora la possibilità di praticare forme di solidarietà che ci sembravano appartenere in esclusiva a un’altra Italia (Zollo 2005, pp. 6-8).
Il risultato è una rappresentazione totalizzante, costruita su verità parziali e spesso esasperate in negativo. In realtà il quadro era alquanto diversificato, sia dentro sia tra le aree provinciali interessate dal sisma. Lo evidenzia con efficacia Manlio Rossi Doria in un articolo pubblicato il 30 novembre 1980 sul «Corriere della sera», in cui sosteneva l’opportunità di una distinzione tra le zone interne povere più duramente colpite dal sisma e altre, variamente danneggiate, in un’area molto più vasta che invece al momento del disastro attraversavano una fase di notevole ripresa, per effetto soprattutto delle rimesse degli emigranti e delle migliorate comunicazioni, come nel caso, in particolare, dell’alta valle dell’Ofanto.
Ma entriamo nei territori seguendo il percorso della memoria degli amministratori in carica nel 1980. Questo si articola su quattro passaggi principali. Il primo è rappresentato dalla ‘memoria lunga del passato’, che rimanda a tutto ciò che era prima del terremoto. È una memoria privata ma nello stesso tempo condivisa nei suoi elementi centrali, costruita sul senso comunemente attribuito ai luoghi e ai fatti che hanno segnato la storia del Paese. Il secondo è legato all’‘attimo eterno’ della scossa tellurica, che sconvolge la continuità storica dei luoghi. Qui la memoria è rigorosamente soggettiva, dominata dai sentimenti che esplodono in quel minuto e mezzo di terrore. Segue la ‘fase breve’, confusa e intensa, che va dalle prime ore dopo il sisma ai giorni immediatamente successivi. In questa fase la condivisione della presa di coscienza del disastro tra coloro che, alle prime luci dell’alba successiva, si ritrovano a scavare con le mani nelle macerie sollecita un’inconsapevole pratica autoriflessiva; da spettatori individualmente impotenti della catastrofe, si diventa attori che condividono la disperata ricerca del ‘cosa fare’. La memoria si fa collettiva, recupera i ricordi e le sensazioni che vale la pena di trasmettere agli altri, di fissare nel tempo. La fase successiva inizia con l’arrivo dei primi soccorsi e dura pressappoco un anno, fino alla messa in opera dei primi interventi di ricostruzione. In realtà è una ‘fase corta’ ma particolarmente intensa, che vede i sindaci recuperare in pieno il proprio ruolo istituzionale. La narrazione, come vedremo, si muove su un piano diverso, su paradigmi che corrono paralleli a quelli delle narrazioni delle fasi precedenti, dando però fiato a una ‘memoria istituzionale’ che seleziona i ricordi da rendere memorabili e significativi. Di seguito leggeremo ciascuna fase attraverso i passaggi principali della narrazione degli intervistati, privilegiando tre categorie analitiche: il tempo, soggettivamente percepito; lo spazio, socialmente definito; l’azione, regolata dalle priorità percepite. Attraversando il cratere, metteremo in evidenza le similitudini e le differenze che di volta in volta emergono nella rappresentazione dei territori e della loro capacità di resilienza.
Il ricordo del terremoto rimanda immediatamente a tutto ciò che era ‘prima’. È una costante nella narrazione dei sindaci che, seppure parte dall’evento sismico, va immediatamente indietro nel tempo, in una continuità senza soluzione ben resa dall’uso dell’imperfetto nel racconto. Quello che il paese era ‘prima’ emerge con forza e con ricchezza di particolari: i luoghi, gli spazi, le pratiche sociali. Una quieta fissità, un’esatta riproduzione delle poche foto rimaste. Più si va indietro nel tempo, più la memoria è somma di conoscenze indirette e tramandate di generazione in generazione. Le scansioni temporali saltano. Il racconto privilegia i modi di vita locali e, in particolare nel caso dei sindaci irpini, restituisce immagini mitizzate di un passato felice. Alcuni temi sono ricorrenti, come per es. le origini antiche dei comuni, le economie locali e i mestieri tradizionali. Il sindaco di Conza della Campania ricorda le origini romane dell’antica Compsa. Se l’agricoltura rappresentava la principale risorsa economica, la memoria rievoca altresì la vivacità del commercio ed esalta le abilità degli artigiani. A Calabritto, in Irpinia, mediatori locali controllavano il commercio di olio e castagne con i paesi vicini e lontani; a Pescopagano, nel Potentino, sarti, scalpellini e falegnami servivano clienti provenienti da ogni luogo e alimentavano, insieme alle rimesse degli emigranti, ben due istituti bancari. Alcune immagini di vita locale evocano scenari da favola, come quello restituito dal sindaco di Caposele che racconta il fascino dei numerosi mulini ad acqua che sfruttavano le acque del Sele, del via vai dei mugnai, delle farine, dei panificatori dentro e fuori i forni a legna che animavano il paese.
In questo passato senza tempo i vincoli di reciprocità e i rapporti solidaristici organizzavano la vita quotidiana, come efficacemente sintetizza il sindaco del comune irpino di Sorbo Serpico: «A Sorbo era come se il paese fosse una persona sola» (intervista dell’8 ott. 2010, Avellino). Le stesse strutture abitative, in alcuni casi in particolare, sembravano fatte apposta per favorire la continua animazione delle stradine che collegavano i vicoli stretti alla piazza con la chiesa e alimentavano la socialità: il sindaco di San Mango sul Calore (Avellino) ricorda che le abitazioni avevano la cucina in una strada e le stanze in un’altra, e soprattutto non avevano il bagno. Questa rappresentazione idealizzata del passato, che propone una lettura in chiave positiva anche dei disagi, connota particolarmente l’area irpina del cratere.
Immagini di segno opposto, che evocano quadri di arretratezza si materializzano più spesso nella memoria dei sindaci dell’area salernitana e lucana. A Ricigliano, racconta Vito Saracco, nel 1970 non c’erano ancora né strade né fognature; a Balvano, ricorda Ezio Di Carlo, il tenore di vita era bassissimo: pochi avevano la luce elettrica in casa, in campagna l’acqua si prendeva dai pozzi, l’asino rappresentava il principale mezzo di trasporto e le stalle degli animali, generalmente contigue alle abitazioni, sostituivano i servizi igienici. Quando nella foga della memoria le coordinate temporali saltano, ricordi, immagini e miti si confondono in rappresentazioni contrastanti, come avviene nel racconto del sindaco di Santomenna, Pietro Di Maio.
Avevamo un sede comunale bellissima, del Cinquecento, la vicecattedrale di Conza e Santomenna, che aveva una storia molto bella! Un tribunale ecclesiastico, un convento dei cappuccini, un seminario […]. Quando iniziai a fare il sindaco avevo 29 anni, nel ‘59, e ho trovato questo paese nell’immobilità senza acqua, senza luce. Non esisteva il frigorifero, non c’era niente, in tutto il paese vi erano solo due radio! (intervista del 14 nov. 2013, Cava dei Tirreni).
Simile nel repertorio ma in qualche misura più articolata è la visione che emerge dalla memoria degli amministratori dei comuni più grandi, più dotati di servizi e dunque poli attrattivi per i paesi viciniori. Gerardo Mariani, vicesindaco di Muro Lucano nel 1980, ricorda la presenza, da un lato, della diga voluta da Francesco Saverio Nitti (1868-1953) e che diede energia a tutta la Regione Basilicata, dall’altro quella di servizi vari, tra cui la pretura e il catasto che facevano di Muro il centro di riferimento dei comuni del circondario, alimentando anche le attività commerciali. Nell’area irpina emerge, inoltre, una sedimentata specializzazione funzionale che sembra seguire un naturale principio di complementarietà, in grado di soddisfare le diverse esigenze del territorio circostante: Salzarulo, allora consigliere di opposizione, parla della spiccata vocazione commerciale di Lioni; Rosanna Repole, designata sindaco la notte del terremoto, rimarca che Sant’Angelo dei Lombardi è stata sempre sede di pretura, curia arcivescovile, tribunale, e poi ospedale ecc., mentre a confine si andavano sviluppando i primi insediamenti industriali di Grottaminarda-Flumeri da un lato e del circondario di Ariano dall’altro. Tutto ciò accade in un tempo indefinito, continuato, prima del terremoto. Né tantomeno il ricordo concede posto a coordinate spaziali o territoriali: altitudine, estensione, geografia degli spazi e delle loro destinazioni d’uso. Lo spazio è semplicemente definito dalle persone che lo vivono, dai mestieri che vi si praticano, dalle relazioni che lo attraversano. Lo stesso vale per quelle che vengono individuate come le priorità amministrative, diffusamente centrate sulle opere pubbliche: strade, acquedotti, impianti di illuminazione e soprattutto edilizia.
In sintesi, di fronte al ricordo della catastrofe, pur con qualche eccezione, l’oblio tende a sottrarre alla memoria ciò che di negativo poteva esserci ‘prima’: nella rappresentazione del passato c’è poca scena per i conflitti e le stratificazioni sociali che pure dovevano esserci, in quegli agglomerati quasi tutti nati intorno a un castello feudale o a una tenuta ducale, attraversati dalla riforma agraria e appena sfiorati dalle più recenti politiche di sviluppo per il Mezzogiorno (Zaccaria 2008). Emerge una rappresentazione del passato che, in realtà, riproduce la tendenza omologante che connota la percezione diffusa di queste aree, assommate nel quadro dell’arretratezza, dandone però una versione positiva. Ma è proprio quest’ultima ad avvicinarsi di più alle condizioni reali dei territori interessati dal sisma del 1980, a patto che non la si consideri una visione totale. Prendiamo la componente irpina del cratere. Nel ventennio 1961-81 l’andamento demografico mette in evidenza un tendenziale calo della popolazione residente (tab. 2), esito principalmente dei flussi migratori verso il Nord del Paese e verso alcune principali destinazioni europee (Germania, Francia, Belgio, Svizzera). Due eccezioni: Avellino, il capoluogo, e Solofra. Nel primo caso si tratta, in buona misura, dell’esito di un processo di spopolamento delle aree rurali rinvigorito dallo sviluppo, in questi anni, del settore terziario e dei servizi che si concentrano nel capoluogo. Nel caso di Solofra, la crescita della popolazione (costante fino al 2011) si spiega con la sua posizione di punta nel panorama economico provinciale come polo conciario, posizione alimentata, proprio in questi anni, dai finanziamenti messi in campo per lo sviluppo del Mezzogiorno, in primis dalla Cassa per il Mezzogiorno (CASMEZ). Per inciso, nel trentennio successivo la popolazione diminuisce ulteriormente, stavolta anche nel capoluogo, sia pure non nella stessa misura in tutti i comuni. Evidente segnale che le politiche di sviluppo postsisma non sono riuscite ad arrestare l’esodo dalle aree interne.
Più o meno analoga, dal punto di vista demografico, la situazione dei comuni dell’Alto Sele e del Potentino. In particolare, nel primo caso (tab. 3) va notato che nel ventennio 1961-81 l’esodo non è particolarmente massiccio (il comune di Ricigliano non ne soffre per nulla); nel decennio successivo, in cui si colloca la prima fase della ricostruzione postsismica, restituisce dinamiche differenti in zone contigue: Palomonte e Ricigliano registrano un incremento di popolazione; San Gregorio Magno un lieve ristagno; Laviano, dopo il crollo demografico pressoché interamente legato al sisma, registra un incremento di popolazione. Dopo di che, come per i comuni irpini, si innesca l’abbandono.
Stesso andamento nei tre comuni lucani presi in considerazione (tab. 4). Tutti presentano un saldo demografico negativo, la cui intensità si avvicina ai comuni irpini. Va inoltre notato che nel decennio 1981-91 il comune di Balvano, in controtendenza rispetto agli altri due, registra un lieve incremento della popolazione. Come vedremo più avanti, ciò può essere in buona parte spiegato dalla particolare spettacolarizzazione mediatica del dramma balvanese (77 cittadini morti per il crollo della chiesa).
Qual è il quadro economico generale in cui si collocano queste dinamiche? Per quanto riguarda l’area irpina, negli anni Settanta il dato provinciale relativo agli indici statistici sul reddito vedeva l’intera provincia nelle ultime posizioni su base nazionale. L’economia era principalmente legata all’agricoltura, a cui avevano dato impulso da un lato le riforme agrarie del dopoguerra, dall’altro le rimesse degli emigranti (Ventura 2011). Il secondo censimento del 1971 registra la scomparsa di 8605 aziende agricole (Grasso 2011). Negli anni a ridosso del terremoto lievita il settore terziario, con particolare risalto della Pubblica amministrazione e dei servizi, e spuntano i primi insediamenti industriali, assumendo una configurazione a macchia di leopardo: l’area di Pianodardine (a est di Avellino) attrezzata già nel 1962; l’area di Solofra, come visto sopra; l’area tra Grottaminarda e Flumeri, ai margini del cratere. Questa espansione è principalmente legata alla nuova ondata di finanziamenti erogati dalla CASMEZ, opportunamente drenati dal ceto politico locale, ma anche ad alcuni processi di decentramento produttivo attuati dalla FIAT (per es. nel caso della FMA – Fabbrica Motori Automobilistici – a Pratola Serra, come pure del polo Iveco-Irisbus, produzione veicoli industriali, in Valle Ufita), e alle prime politiche di infrastrutturazione, coordinate dal consorzio ASI (Area di Sviluppo Industriale), attivate con l’intervento straordinario postsisma del 1962. Un solo dato per quantizzare il fenomeno: tra il 1971 e il 1981 – decennio storico che segna una crescita economica che, per intensità, non trova riscontro in altre parti del Mezzogiorno – il numero delle imprese passa da 4224 a 5225 con incremento occupazionale del 50% (Grasso 2011).
In questi anni, dunque, si configura un promettente processo di sviluppo industriale che, sebbene non tocchi le aree più interne e, in particolare, quella del cratere, si propone di raggiungerle, sia pure con un’ottica distorta che si rifiuta di leggere la vocazione tradizionalmente agricola del territorio e ridisegna la geografia industriale della provincia.
L’Alta Valle del Sele e l’alto Potentino, in generale, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta vivevano una timida fase di ripresa economica, legata soprattutto alle rimesse dei migranti oltre che al miglioramento delle comunicazioni, esito della generale opera di infrastrutturazione finanziata dalla CASMEZ. Sebbene distanti dalle aree provinciali e regionali più direttamente interessate dalle politiche di industrializzazione di quegli anni (come per es. quella di Melfi in Basilicata), le aree in questione non presentavano particolari e diffuse condizioni di povertà, soprattutto in riferimento ai comuni più grandi. Piuttosto, soffrivano di una spiccata polarizzazione della stratificazione sociale che generava un effetto frenante rispetto alle potenzialità di sviluppo locale; la polarizzazione sociale alimentava rapporti di dipendenza gerarchica e ne era a sua volta alimentata. La fedeltà a questi rapporti, spesso trasmesa di generazione in generazione, inibiva potenziali percorsi di mobilità sociale per i ceti meno abbienti.
Emblematico il caso di Muro Lucano. Questo comune godeva ancora dell’indotto della realizzazione, nel primo decennio del 1910, della diga sul lago Nitti, cui si è fatto cenno prima, con annessa centrale idroelettrica alimentata dagli anni Venti fino agli anni Settanta, quando fu dismessa. Artefice principale dell’iniziativa fu Nitti, deputato di Muro Lucano dal 1904, nel quadro della sua strategia culturale e politica per lo sviluppo del Mezzogiorno (Mennonna 2010). Sul fronte del settore primario, la coltivazione di frumento e vigneti dava buoni risultati, così come la zootecnia; l’unica attività industriale era rivolta alla lavorazione della pietra (67 cave con 413 operai e varie fornaci, nel 1963). Erano soprattutto le rimesse degli emigranti ad alimentare i tre istituti bancari operanti a Muro. Potenzialità finanziarie con scarsa ricaduta economica in un contesto segnato da una netta differenziazione sociale tra un ristretto notabilato locale (anche illuminato) che trovava la sua matrice nella borghesia agraria, pochi artigiani (organizzati in Società di mutuo soccorso) e una massa di contadini che viveva in condizioni precarie, soprattutto dal punto di vista igienico, in ambienti che accoglievano un gran numero di persone insieme agli animali domestici (Mennonna 2010). In generale, tra omogeneità e differenze, tra rappresentazioni e realtà, questo è lo scenario su cui si schianta il terremoto del 23 novembre.
Domenica sera. Gli amministratori locali sono comuni cittadini variamente impegnati nelle pratiche consuete di una sera di un giorno festivo: chi al bar della piazza a giocare a carte, chi in macchina di ritorno da una visita ai parenti nel paese vicino, chi di ritorno dallo stadio. Salvo qualche eccezione: il sindaco di Caposele riceve clienti nel suo studio legale, come al solito; il sindaco di San Gregorio Magno è in consiglio comunale perché, come egli stesso afferma, «in una civiltà contadina i consigli comunali si fanno di sabato e di domenica» (intervista del 18 maggio 2013, Salerno). Altrove, il vicesindaco di Muro Lucano è a Potenza per impegni professionali, il sindaco di Santomenna è a Cava dei Tirreni, dove abita, seduto sul divano accanto a sua moglie. La terra trema per 90 secondi che segnano la rottura violenta della quotidianità. Il ricordo di quei secondi ancora strozza la voce in gola di chi cerca – senza trovarle – le parole più adatte a esprimere l’angoscia provata. Per qualcuno l’emozione rievocata – dopo più di trent’anni – riporta le lacrime agli occhi, toglie la voce, imprime al volto la vergogna per un dolore legittimo, percepito come una debolezza. La memoria di quell’attimo ‘eterno’ è assolutamente soggettiva, rimanda a se stessi, alle proprie paure. Angelo Colantuono, sindaco di Lioni, uscito dal buio del garage di casa viene preso da una profonda angoscia di fronte all’immagine che gli appare: la linea dei tetti, illuminata da una bellissima luna, è cambiata; le strade sono invase da nuvole di polvere da cui escono grida di terrore, richieste di aiuto; una voce continua a chiedersi, urlando con cadenza regolare, cosa sia successo. Bartolomeo Mazzei, sindaco di Pescopagano, rimane imbambolato a guardare le pietre della torre dell’orologio che gli cadono ai piedi, ferendolo alle gambe. Talvolta il ricordo, agghiacciante, è preciso nei minimi particolari; l’allora sindaco di Palomonte, Manlio Parisi, racconta:
Quella sera mi trovavo nel Comune con il segretario comunale. Abbiamo sentito questo boato: un rumore terrificante! Abbiamo cercato di raggiungere la porta, ma questa non si apriva, si era bloccata! E intanto sentivo il rumore delle case che crollavano. Il Comune era di recente costruzione, in cemento armato, antisismico, e sentivo proprio un rumore… come se una forza stritolasse questo edificio! Finita la scossa, la porta si è sbloccata e siamo usciti. Uno spettacolo… C’era una persona che gridava: “Siamo finiti! Siamo finiti!”. Era sconvolto! (intervista del 14 nov. 2013, Salerno).
Qualcuno sorride di sé rievocando i comportamenti irrazionali dettati dal panico, come un amministratore di Solofra, Elio Visone, che stava giocando a scopone con gli amici del bar e scappa in aperta campagna, accorgendosi solo dopo un quarto d’ora di avere ancora le carte da gioco in mano. Altri rivivono l’angoscia dello scampato pericolo, come il sindaco di Ricigliano che, rimasto sotto le macerie della sua casa, viene tirato fuori da amici che sentono le sue grida e lo accompagnano alla fontana del paese per lavare la profonda ferita alla testa. Soggettive sono anche le priorità che muovono le prime azioni, tutte volte (naturalmente) alla ricerca di familiari e parenti. Repole si mette in macchina e raggiunge Napoli per tranquillizzare i suoi genitori, ma poi, viaggiando tutta la notte, fa ritorno a Sant’Angelo dei Lombardi alle sei del mattino. Il sindaco di Caposele, Antonio Corona, cerca subito la madre, che trova rannicchiata in un angolo della casa; poi scappa a casa del fratello: crollata, sotto le macerie cognata e nipoti; scoppia in un pianto disperato: come glielo dirà mai al fratello? Chi si trovava altrove fa di tutto per raggiungere nel più breve tempo possibile il proprio comune. Di Maio, che come abbiamo visto si trovava a Cava dei Tirreni, prende la macchina e infila l’autostrada per raggiungere Santomenna; incrocia i falò degli abitanti di Laviano, rasa al suolo; arrivato a destinazione si trova di fronte a una scena apocalittica: tutto distrutto, il paese non può essere attraversato, non c’è più la sua casa paterna. Va verso la casa del suo migliore amico: sparita, un cumulo di macerie enorme; il suo amico sepolto proprio sotto i suoi piedi. Questi ricordi vengono collocati in un tempo esasperante, senza fine. In realtà questi eventi durano soltanto una notte. Alle luci dell’alba del giorno dopo, un lunedì, lo scenario impone ai sindaci altre priorità.
Chi sono gli amministratori dei comuni del cratere presi in considerazione? Avvocati, insegnanti, medici, geometri, commercianti, impiegati pubblici, ma anche politici di professione; mediamente trentacinquenni, tutti maschi tranne una, tutti con pregressa esperienza amministrativa, configurano un ceto piuttosto composito, anche dal punto di vista politico. Il partito più rappresentato è la DC (Democrazia Cristiana), soprattutto in Irpinia dove troviamo anche un sindaco del PCI (Partito Comunista Italiano) e due amministratori di Rifondazione comunista; il PSI (Partito Socialista Italiano) guida i comuni dell’area salernitana dove c’è anche un sindaco socialdemocratico. Nel complesso, i profili che emergono dalle autorappresentazioni sono alquanto diversi mentre il radicamento territoriale è la matrice comune. Tutti gli intervistati sono nati o sono comunque originari dei comuni amministrati; molti vantano una tradizione amministrativa familiare, qualcuno risale alla terza generazione; tutti hanno un profondo legame affettivo con il territorio; conoscono personalmente la maggioranza dei concittadini, se non tutti. Una fitta e sedimentata rete di legami personali, familiari, amicali e anche professionali sottende i rapporti amministrativi; ciò consente, in generale, un’agevole ricomposizione dei conflitti a più livelli; in caso contrario, ma sembra accadere di rado, le spaccature sono radicali e definitive. È proprio questa trama di rapporti a generare competenze e capacità nuove di fronte a un’esperienza anomala: il governo di territori che d’improvviso hanno perso le loro coordinate geografiche, economiche e sociali.
Lo scenario agghiacciante illuminato dall’alba di quel lunedì vede i sindaci scavare a mani nude nelle macerie alla ricerca di tutto ciò che è ancora salvabile, tentare sopralluoghi, procurarsi beni di prima necessità. La fredda notte del disastro si illumina, in tutti i racconti, dei falò accesi dai superstiti con il legname recuperato dalle macerie. Ogni persona trovata viva e portata al più vicino ospedale è un trionfo collettivo. Qualcuno, già da quella mattina, prova a riaccendere la vita: la giovane Repole, sindaco di Sant’Angelo dei Lombardi, designata praticamente sul campo dopo la morte del sindaco reggente sotto le macerie del sisma, ricorda di aver recuperato la frutta predisposta il giorno prima per il mercato del lunedì e di averla distribuita tra i bivacchi. Particolarmente pregnante l’esperienza del sindaco di Balvano, il comune potentino segnato dalle morti per il crollo della chiesa madre. Amministratore ma anche medico, Di Carlo si trova a dover rispondere a una doppia aspettativa da parte dei suoi concittadini: guidarli in attimi di totale smarrimento e, soprattutto, salvare tutte le vite salvabili, talvolta anche quelle già spente:
Appena uscito in strada incontro il parroco che mi grida: “scappa, scappa lì (alla chiesa) che ci sono tanti morti!”. E io scappai come stavo, con gli zoccoli ai piedi e solo dopo molte ore mi accorsi di sentire dolore ai piedi, per le ferite procurate dai calcinacci. E dove sentivo un lamento scavavo, almeno fino alle quattro del mattino. I morti tutti da una parte, i feriti ammucchiati su un camion e spediti all’ospedale di Potenza. […] E così avanti e indietro per tutta la notte, inseguendo i lamenti. E poi dovevo soddisfare i desideri dei familiari che tutt’intorno piangevano i loro cari, che li muovevano, li schiaffeggiavano disperatamente […]. Ed allora ripigliavo con la solita scena: il massaggio cardiaco, la respirazione artificiale… Qualcuno l’ho dovuto mandare all’ospedale anche se era già morto! (intervista del 13 genn. 2014, Balvano).
La memoria, dunque, ricostruisce una fase di prima emergenza collocandola in un arco temporale che può variare da un minimo di una settimana al massimo di un mese a seconda dello spazio dentro cui ciascuno di loro situa le prime azioni, le prime decisioni significative. In ogni caso, due componenti sono ben individuabili nella narrazione comune: la presa di coscienza che il territorio ‘non è più’ e il passaggio dalla memoria individuale a quella collettiva. A tradurre il primo elemento è il profondo senso di sconforto, di confusione e solitudine che nutre la narrazione concitata dei sindaci che ricordano i tratti della distruzione: non più case, non più scuole, il tessuto sociale irrimediabilmente frantumato. Il territorio, che rappresentava la ragione del loro mandato istituzionale, non c’era più: spariti i confini, le vie di collegamento, le stesse sedi comunali. Consigli e giunte scompaginate, archivi comunali distrutti danno il senso di un governo senza più fondamento.
Il sindaco di Caposele ricorda di aver trovato per caso, tra le macerie, un timbro e di averlo infilato subito in tasca per non perderlo. L’assessore alla cultura di Torella dei Lombardi si preoccupa di recuperare, tra le macerie del Comune, i registri dell’anagrafe civile. Altri ricordano le prime, precarie riunioni consiliari in quel che restava del bar della piazza. Ma al senso di impotenza – tradotto dal continuo intercalare, nella narrazione, dell’espressione «che potevamo fare?!» – fa da contrasto il tentativo di salvare tutto il salvabile. In questo passaggio della narrazione il ricordo si colloca in un «quadro sociale» (Halbwachs 1997, pp. 113-14), cioè in un sistema di date e di luoghi comune ai membri di un gruppo, ben preciso: quello della catastrofe vissuta dall’intera comunità, situata in uno spazio e in un tempo ben definiti. La memoria diventa collettiva e rimanda a un’identità che aveva perduto i suoi punti di riferimento, appena prima cercati in un passato lontano che ora scompare nella memoria.
C’è dunque bisogno di un nuovo ‘riconoscimento’ che per i sindaci è facilitato – paradossalmente – proprio dal recupero di ruolo e funzioni istituzionali. Così si danno da fare agendo le risorse più immediatamente disponibili in ciò che rimane del proprio tessuto relazionale: parenti, amici, compaesani, chiunque abbia un’auto o un baracchino da radioamatore. A Solofra i vigili del fuoco di Avellino arrivano nel giro di poche ore grazie all’assessore Elio Visone che riesce ad avvisare suo fratello, comandante dei vigili; Felice Imbriani contatta i carabinieri del comune vicino, con cui aveva conservato buoni rapporti grazie a un periodo di servizio nell’Arma; inoltre, riesce ad alloggiare i primi superstiti nei capannoni della Ferrocementi, l’impresa che sta lavorando, nel comune di Conza della Campania, per la costruzione della diga sull’Ofanto e che, trovandosi a valle, non é stata danneggiata dal sisma. Il sindaco di Santomenna sveglia il suo amico Gennaro, consigliere comunale che abita a Salerno, perché si metta immediatamente in contatto con la regione e la prefettura per attivare i soccorsi. I più disperati se la cavano da soli; è il caso, rievocato spesso anche nel racconto di altri amministratori, del sindaco di Caposele che ricorda:
Eravamo ancora isolati. Mi misi sulla strada, intercettai un camion di aiuti che andava a San Martino e lo dirottai su Caposele […]. Mi misi nella macchina di un compaesano e come un pazzo andai in Prefettura ad Avellino e saltai sul tavolo del carabiniere di guardia alla stanza del Prefetto gridandogli addosso per farmi ricevere. I miei cittadini avevano bisogno di aiuti! (intervista del 7 ott. 2010, Avellino).
Scarna ed essenziale, la rete di relazioni attivata dai sindaci nelle prime ore dopo il sisma aggrega le risorse immediatamente disponibili, attingendo principalmente a legami forti. Secondo quanto emerge dai loro racconti, questa rete risulta efficace nel fornire i primi soccorsi, da un lato, e nel porre le fondamenta del processo di nuovo ‘riconoscimento’ della collettività, dall’altro. In qualche caso, il nuovo riconoscimento passa anche attraverso la registrazione delle assenze in questa rete della ‘prima ora’; l’allora vicesindaco di Muro Lucano, per es., rimarca la ‘fuga’ di quasi tutte le autorità politiche, di amministratori di opposizione ma anche alcuni di maggioranza, rappresentanti di partito e di associazioni: proprio coloro che, sottolinea Mariani, avrebbero dovuto fare coesione in un momento così grave. Poi, con tempi diversi in luoghi diversi, arrivano i soccorsi esterni: volontari, tende, indumenti, beni di prima necessità. L’assenza di coordinamento è un elemento che connota, nella memoria pubblica così come in quella degli amministratori locali, questa parte finale della ‘fase breve’ che fa da ponte con quella successiva della gestione dell’emergenza. Tuttavia, nella memoria dei sindaci la sensazione di disordine non si presenta in maniera omogenea. Forme di coordinamento delle attività, seppure autogestite, emergono con chiarezza anticipando pratiche di vera e propria partecipazione che, come vedremo, connoteranno la fase successiva.
Il sindaco di Lioni ricorda che i primi soccorsi erano del tutto inadeguati, ma nei giorni seguenti le cose andarono meglio. Il coordinamento istituzionale mancava anche ad Avellino dove, racconta Enzo Venezia, la necessità di organizzare i soccorsi spinse gli amministratori a fare incontri continui in una delle poche scuole rimaste in piedi. A Muro Lucano in un primo momento tutti i medici del posto si concentrarono, spontaneamente, nel campo sportivo per curare i feriti; qualche giorno dopo, d’accordo con la Marina militare, e con l’aiuto dei volontari, fu realizzato un ospedale da campo zonale, che serviva anche i comuni vicini. Con l’impianto delle tendopoli iniziò la vera e propria fase di gestione dell’emergenza e si fece strada la consapevolezza che, per un tempo indefinito, la vita si sarebbe fermata. Nei paesi non c’erano più i negozi, ogni attività commerciale era spenta: l’improvvisa presa di coscienza che il denaro non veniva più usato colse di sorpresa tutti gli amministratori.
Il terremoto piomba del tutto inatteso su amministrazioni in perfetto equilibrio, come su altre in crisi; tuttavia, nella primissima fase di emergenza ricompatta i consigli comunali, livella le gerarchie politiche e di ruolo, impone tutta la sinergia possibile in un regime di privazione di risorse materiali in territori dai confini amministrativi squarciati. A Lioni il sisma colpisce un’amministrazione (maggioranza di sinistra con la DC all’opposizione) in piena crisi, impegnata nelle trattative per un nuovo esecutivo; il terremoto congela i conflitti ma decima anche la compagine amministrativa: alcuni consiglieri ricoverati in ospedale, uno di questi morirà dopo poco; il sindaco dimissionario, al quale il terremoto aveva tolto la moglie e lasciato due bambini da accudire, potrà garantire un impegno molto limitato. Ma ciò che resta del consiglio comunale non ha scelta e, come ricorda Salzarulo:
Lì abbiamo detto: va bene, non c’è più maggioranza non c’è più opposizione, siamo tutti vicesindaco! per cui adoperiamoci, lavoriamo. Ci vedevamo ogni sera, facevamo il punto in quei dieci, undici, dodici che eravamo riusciti a restare (intervista del 16 genn. 2013, Lioni).
Di fronte a un’emergenza senza misure, i sindaci serrano le fila e infrangono le formalità istituzionali: a Balvano il consiglio in carica si allarga ai vecchi amministratori e il sindaco Di Carlo va a casa del suo rivale per chiedergli, ottenendola, collaborazione su tutti i fronti. Il ricordo di questa solidarietà operativa, che mette in primo piano le esigenze della comunità rispetto ai conflitti politici, apre nella memoria dei sindaci un nuovo tempo narrativo che comprende l’arrivo delle roulottes e la realizzazione dei prefabbricati e si conclude con la definizione dei Piani di recupero, che danno l’avvio alla ricostruzione.
Le dinamiche che prendono corpo nella ‘fase corta’ vengono collocate tra dicembre del 1980 e la primavera del 1981, quando viene promulgata la l. 219. È la fase che la memoria rievoca con i toni più entusiastici, in cui i sindaci assumono il ruolo di attori principali dotati di un’autonomia e un potere mai avuti prima (e in molti casi neanche dopo). La memoria diventa istituzionale: tutta la narrazione è ancorata all’esercizio del ruolo di amministratore e si nutre del ricordo di ciò che, esercitando le stesse funzioni, hanno fatto gli altri. I parenti, gli amici, la famiglia, la propria casa scompaiono dal racconto.
Al loro posto, l’assunzione di responsabilità, l’immediatezza delle decisioni, la disposizione ad acquisire nuove competenze tecniche, amministrative e soprattutto relazionali nutrono la memoria collettiva dei sindaci. Decisioni prese e messe in opera seduta stante, consigli comunali riuniti nel primo luogo disponibile: una tenda, una scuola, una piazza coperta di neve sono gli elementi ricorrenti nella memoria degli amministratori, che colloca sempre tali particolari sullo sfondo di una grande fiducia reciproca. Più in generale, gli amministratori locali assumono un profilo ‘nuovo’ che li avvicina molto ai sindaci eletti con i criteri introdotti dalla legge di riforma nr. 81 del 1993. Le spinte alla sovralocalità e ai gemellaggi, pratiche di partecipazione e senso di responsabilità sono i fondamenti di questi profili innovatori, sia pure con pesi diversi nelle tre aree comprese nel cratere. Centrale, dovunque, un rapporto stretto e diretto con i concittadini che, in questa fase, abbandona qualunque criterio personalistico e di scambio per lasciare spazio al disagio collettivo e alla ricerca di soluzioni. La comunità è centrale in tutte le narrazioni, con le sue perdite totali, la sua amarezza, la sua esasperazione talvolta anche violenta. I sindaci, vincendo il senso di impotenza, si appellano alle risorse immediatamente disponibili e a operazioni simboliche: a Ricigliano, ricorda Vito Saracco, si fa l’impianto di illuminazione nel campo sportivo, sperando che ciò incoraggi la popolazione ad andare avanti e a lasciarsi alle spalle la tragedia di quella notte. L’uso della prima persona plurale («noi non avevamo niente, facemmo, cercavamo») nella narrazione è un segno evidente della coralità della memoria.
È soprattutto relativamente a questa fase che i sindaci restituiscono, con il loro racconto, dinamiche, pratiche e situazioni distanti dalla memoria storica. Quest’ultima organizza e divide i tempi in maniera ordinata, ricomponendo tutto in un unico quadro in cui la lunga storia pubblica della ricostruzione schiaccia i tempi plurali e fluidi della collettività, la loro continuità dinamica. La memoria che nutre la narrazione dei sindaci, invece, riporta a galla un passato ancora vissuto, ancora abitato da coloro che hanno condiviso il drammatico quadro postsismico e delle prime, immediate esigenze. È un passato ancora non scritto, che non trova riscontro nella memoria storica. Seguiamo il filo del racconto. Con l’arrivo degli aiuti esterni le maglie della rete dell’emergenza si allargano nutrendosi di nuovi attori e nuovi legami: sul piano verticale con figure centrali, in particolare i prefetti e il Commissario straordinario per l’emergenza Zamberletti, percepiti come facilitatori istituzionali; sul piano orizzontale, attraverso rapporti più sistematici tra amministratori di comuni diversi, anche extraprovinciali, con i comitati cittadini, con i gruppi di volontari e con i comuni gemellati. Nel primo caso, i sindaci recuperano in pieno il ruolo di ponte tra il livello locale di governo e quello centrale, senza sostanziali differenze tra le aree provinciali comprese nel cratere. Il modello operativo messo in campo da Zamberletti, come è noto, si incardina su due principi fondamentali: poteri commissariali ai sindaci e coordinamento sul territorio affidato alle prefetture. La prassi consueta, lo ricorda con chiarezza Repole, è quella di risolvere con poteri di ordinanza i problemi che si presentano di volta in volta. Nel racconto di tutti i sindaci campeggiano il rapporto diretto con Zamberletti, gli incontri settimanali per fare il punto della situazione che si tengono a Napoli, nei pressi del Jolly Hotel di via Medina, la collegialità delle decisioni e le figure dei prefetti. In particolare, gli amministratori irpini evocano ripetutamente il prefetto Carmelo Caruso, «alto funzionario di grandi capacità», nominato in sostituzione del suo predecessore rimosso su due piedi per aver sottovalutato imperdonabilmente la gravità del sisma. Il livello di governo regionale non trova spazio in questa fase se non attraverso rapporti pregressi, di natura politica, con gli amministratori locali o in occasioni formali di visita ai luoghi del sisma. Il vicesindaco di Muro Lucano, Mariani, per es., ricorda:
Dopo una settimana avemmo la visita dell’allora presidente della Regione Basilicata, Carmelo Azzarà: una persona squisita. Ma posso dire che la Regione allora non c’entrava nulla; ha poi cominciato ad entrarci molto tempo dopo, nel 2001, con la ripartizione dei fondi (intervista del 13 genn. 2014, Muro Lucano).
In linea di massima, i rapporti con il governo centrale sono diretti, per nulla mediati dai politici locali; nei confronti di questi, piuttosto, emergono diverse posizioni critiche. Nella memoria, infatti, questi compaiono alcuni giorni dopo il sisma per la visita di routine politica, facendo anche a gara a chi arrivava prima e con maggiore seguito. A Santomenna, racconta Pietro Di Maio, un giorno i ministri sono arrivati tutti insieme in pullman, ma lui non ne ricorda neanche i nomi! Sul piano orizzontale della nuova rete di relazioni, gli amministratori locali assumono un chiaro ruolo di leadership: coordinano gli aiuti, definiscono l’allocazione delle prime strutture abitative (roulottes e poi prefabbricati) e dei relativi servizi, il più delle volte confrontandosi tra di loro e con i compaesani organizzati in comitati civici. Nell’area irpina le dinamiche emergono in modo particolarmente chiaro e coinvolgono tutti gli amministratori. Antonio Vassallo, sindaco di Salza Irpina, rievoca riunioni quotidiane con i cittadini per decidere l’allocazione e la distribuzione di tende e roulottes, e di come i sindaci di altri comuni si rivolgessero a lui, che aveva una buona esperienza della burocrazia, per confrontarsi e avere consigli. Ma soprattutto, i comitati popolari, nati spontaneamente o su sollecitazione degli stessi sindaci, e il confronto quotidiano con essi nutrono la memoria di quasi tutti i sindaci irpini: da Conza della Campania a Sant’Angelo dei Lombardi, da Lioni a Caposele. Particolarmente emblematiche del ruolo svolto dai comitati cittadini sono le parole di Salzarulo:
I comitati popolari di fatto sono stati l’ossatura della ripresa del tessuto civile, hanno costituito il supporto logistico per tutti i volontari che arrivavano […] facevano da punto di unione tra le istituzioni comunali e la gente; questa organizzazione a Lioni è stata produttiva per la riorganizzazione del tessuto sociale anche se poi questo è stato devastato di nuovo (intervista del 16 genn. 2013, Lioni).
La pratica della partecipazione, dunque, diviene consueta e regola democraticamente l’allocazione delle risorse, generando anche strumenti operativi condivisi sul territorio; è il caso, per es., di una scheda di rilevazione delle priorità messa a punto dagli amministratori di Caposele insieme ai cittadini ai fini di stilare le graduatorie per l’assegnazione di roulottes e prefabbricati. La scheda, ricorda il sindaco, fece poi il giro di tutti i comuni. Nell’area lucana e in quella salernitana del cratere, invece, la memoria restituisce dinamiche diverse. Anche qui i sindaci sono centrali nella rete che si attiva sul territorio, ma emergono leadership più decisioniste e una certa solitudine nelle scelte, che talvolta innescano situazioni conflittuali. A Palomonte, nel salernitano, Parisi ricorda di aver fatto da solo i primi accertamenti per sistemare e attribuire tende e roulottes, e poi prefabbricati, così come da solo si assunse la responsabilità di affidare i lavori di demolizione alle ditte del posto, senza avere ancora, tra l’altro, la copertura economica delle spese. Di Maio, sindaco di Santomenna, ricorda buoni rapporti con i comuni vicini ma anche un suo desiderio di collaborazione rimasto insoddisfatto. A Balvano, Di Carlo decide di punto in bianco di sospendere la distribuzione dei pasti forniti dal volontariato, scatenando la ribellione della popolazione; egli stesso parla di una decisione presa «con forza» per combattere l’assistenzialismo che, a suo parere, metteva a sopire la voglia di riprendere a vivere.
Le esperienze di comitati cittadini risultano poco significative nel salernitano e del tutto assenti nella memoria dei sindaci lucani, in cui più spesso le poche assemblee cittadine assumono il significato di provocazioni a sfondo politico. In questo clima, che comincia a registrare delle disomogeneità nelle risposte dei territori, la solidarietà delle altre regioni italiane sostiene forti spinte alla sovralocalità. I sindaci concordano gemellaggi, si spostano per continui confronti, aprono un dialogo costante con i rappresentanti istituzionali extralocali, costruiscono legami che, in alcuni casi, si manterranno a lungo nel tempo assumendo anche una valenza espressiva: il sindaco di Calabritto, Antonio Zecca, conserva ancora le foto dei volontari della Provincia di Milano, insieme al ricordo delle amicizie durate a lungo; due tecnici della Provincia autonoma di Trento diventano padrini dei figli del sindaco di Balvano e sono molti quelli che rimarranno a lungo nel paese. La rete dei gemellaggi supera i confini nazionali, non di rado attivata da connazionali emigrati: Germania, Belgio, Svizzera ma anche Stati Uniti ne costituiscono i nodi principali. Singolare il caso di Balvano, dove il settimanale «Oggi» dà vita a una particolare spettacolarizzazione della tragedia. È l’allora vicedirettore del settimanale, Dino Satriano, originario del vicino comune di Baragiano, a darne una sintesi efficace nella prefazione a un volume di memorie pubblicato nel 1990 dal sindaco Di Carlo, di cui riportiamo uno stralcio:
A far sapere tutto di Balvano ci pensano gli inviati di «Oggi», che nel paese diventano una presenza fissa. […] E il primo contatto con il resto del mondo i balvanesi l’hanno attraverso una linea telefonica messa a loro disposizione per chiamare gratuitamente parenti, amici e conoscenti in Italia e all’estero. Numerose le personalità del mondo della cultura e dello spettacolo che rispondono all’appello e inviano contributi economici a Balvano. In America la comunità italoamericana crea un Comitato pro Balvano per raccolta fondi e offre una vacanza di tre settimane negli USA a 19 bambini di Balvano, che vi andranno, accompagnati dal sindaco Di Carlo. La catastrofe del 23 novembre ha per gli statunitensi un solo nome: Balvano. «Oggi» rimane un punto di riferimento e una cassa di risonanza. Balvano continua ad essere raccontato per un anno intero, nel ‘pezzo’ più lungo e impegnativo mai firmato dalla redazione di un giornale: complessivamente 55 servizi, con 216 foto e 175 colonne di testo, equivalente a un libro di 260 pagine (E. Di Carlo, introduzione a Balvano. Sussulti improvvisi di terra impazzita, 1990, pp III-IV).
Per inciso, questo costituisce uno dei temi centrali intorno a cui si sviluppa la narrazione del sindaco Di Carlo, che attribuisce alla vicenda un forte valore simbolico in termini di apertura della comunità balvanese, fino ad allora chiusa e autoreferenziale, a contesti relazionali più ampi. Il racconto lascia invece sul retroscena l’ingente flusso di risorse finanziarie innescato dal rapporto con gli Stati Uniti, che trapela nella sua decisione di interrompere – come abbiamo visto poco prima – le altre forme di assistenza e nella narrazione di una ripresa economica e sociale particolarmente rapida.
Tornando al quadro generale, emergono dunque profili di sindaci mediatori-innovatori, svincolati dalla politica e autonomi nel governo del territorio; centrali nella rete di relazioni che prende corpo in questa fase, si configurano anche come attori collettivi funzionali alla sua efficienza. Le priorità che orientano le loro azioni sono ora principalmente riconducibili all’etica della responsabilità e al recupero della normalità. La percezione diffusa è che le comunità siano già pronte – a pochi mesi dal sisma – a riprendere le coordinate della quotidianità.
L’intensa attività amministrativa è testimoniata dalla notevole produzione deliberativa di quei mesi (conservata in diversi archivi comunali): mediamente, tre delibere al giorno che vanno dall’affidamento dei lavori di rimozione delle macerie e di prime riparazioni a ditte locali, alle variazioni nei bilanci di previsione, alla concessione dei primi contributi economici ai cittadini. Con una delibera del 10 gennaio 1981, per es., l’amministrazione comunale di Muro Lucano concede un contribuito economico ai cittadini che sono rimasti privi di abitazione a causa degli eventi sismici del novembre 1980 e che abbiano reperito autonomamente una sistemazione logistica per il proprio nucleo familiare; il contributo, mensile e per sei mesi a partire dal gennaio 1981, varia da un minimo di 80.000 lire per nuclei familiari formati da una sola persona, a un massimo di 300.000 lire per nuclei con quattro o più componenti; il tetto reddituale per l’accesso al contributo è fissato a 14.000.000 di lire annue. Nella stessa giornata seguono altre due delibere che riguardano l’individuazione delle aree per la sistemazione dei prefabbricati e l’affidamento di alcuni lavori di riparazione di strutture danneggiate (Archivio comunale Muro Lucano, fondo: Delibere originali di Giunta Municipale e indice, dal n. 501 al n. 580/1980 e anni segg.). L’intensa attività amministrativa si traduce anche in domanda occupazionale: inservienti e cuoche; idraulici, elettricisti e addetti ai magazzini; uscieri e addetti agli impianti igienici delle tendopoli sono i profili di personale straordinario più spesso assunto per far fronte alle esigenze sopravvenute con il sisma. In questa fase che precede quella ‘lunga’ della ricostruzione, emerge anche la rappresentazione del rapporto dei governi locali con quello centrale: è un rapporto ambiguo, più che conflittuale. Nell’immediato doposisma, quando ancora la misura del disastro non ha coordinate, nessuno pensa allo Stato. Quando la consapevolezza del dramma prende corpo, i sindaci in prima linea ne invocano con forza l’intervento. Arrivano l’esercito, le forze dell’ordine, qualche esponente politico locale, assessori e presidenti delle regioni in visita. A Sant’Angelo dei Lombardi, pretore e giudici del tribunale arrivano già il 24 mattina a segnare la presenza dello Stato. In linea di massima, finché sono i sindaci in prima persona a occuparsi dell’emergenza, in contatto costante con la comunità, le azioni risultano efficaci, pur passando attraverso conflitti e contraddizioni.
Quando invece scende in campo lo Stato, nei suoi livelli centrali e sovralocali, il meccanismo si inceppa, generando difetti di democrazia. E qui, anche con forza, i territori rivendicano i loro spazi di autonomia. Emblematico l’episodio della ‘difesa’ del tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi: profondamente lesionato, i vigili del fuoco ne dichiarano l’inagibilità e il procuratore generale di Avellino, Roberto Angelone, ne ordina il trasferimento provvisorio nel capoluogo. Un gruppo di cittadini sbarra l’accesso alla strada della colonna di camion militari impiegati nel trasferimento. Il procuratore generale è costretto ad annullare il provvedimento. A Lioni si conserva memoria di una delibera-diffida del Consiglio comunale nei confronti del prefetto di Avellino che impediva l’accesso dei volontari al luogo dopo il tramonto: «Questo Consiglio Comunale non intende delegare a chiunque la sovranità e il governo del proprio territorio» (R. Salzarulo, introduzione a Comune di Lioni, Ventennale: 23.11.1980-23.11.2000, 2000, p. 8). Anche la vicenda del trasferimento-sistemazione di terremotati sulle coste, o comunque lontano dal proprio comune, mette in luce una capacità di risposta autonoma alle decisioni centralizzate: furono di fatto pochissimi coloro che accettarono il trasferimento, percepito subito e diffusamente come consiglio più che come disposizione. Tutto ciò, in sintesi, traduce una generale situazione di equilibrio precario in cui, a circa due mesi dal sisma, prendono corpo le spinte alla competizione, si palesano contrasti tra cittadini e amministratori, emergono linee di frattura dentro e tra i livelli di governo. La rivendicazione della primazia nella sistemazione dei cittadini nei prefabbricati, per es., diventa il cavallo di battaglia nel confronto con gli altri: tutti (o quasi) sono stati i primi, tutti in tempi da record. A San Gregorio Magno furono installati 1064 prefabbricati a tempo di record, ricorda il sindaco Frunzi; Muro Lucano, racconta il vicesindaco, fu definito da Zamberletti il fiore all’occhiello dei paesi del cratere per essere stato il primo a sistemare i senza tetto nei prefabbricati; a Lioni il più grande agglomerato fu assegnato tutto tra Natale del 1980 e gennaio del 1981, come prova Salzarulo con tanto di documentazione. I contrasti tra cittadini e amministratori vedono, in alcuni casi, questi ultimi esposti a duri giudizi che amareggiano la memoria. Di Carlo, per es., ricorda che a un certo punto cominciò a essere accusato di tutto, anche di proteggere il parroco della chiesa madre di Balvano, crollata uccidendo 77 persone, e quindi di essere un assassino come lui; il sindaco di Santomenna, Di Maio, racconta la cattiveria di cui a un certo punto fu oggetto da parte di alcuni cittadini che lo accusavano di ingiustizie e illeciti profitti.
Sul piano politico, alle soglie della nuova consultazione elettorale del giugno 1981, che interesserà diversi comuni del cratere, gli equilibri amministrativi fino ad allora tenuti da una coesione operativa, si incrinano: qualche sindaco si dimette, qualche altro cambia schieramento politico, altri restano alla guida della lenta ripresa. Ma in generale, l’idillio istituzionale svanisce, maggioranze e opposizioni rientrano nei propri ruoli, le gerarchie interne alle amministrazioni si riaffermano.
Il colpo di grazia per gli equilibri locali è segnato dalla necessità di definire i Piani di recupero, in vista dell’applicazione della l. 219. Una nuova frattura che spezza la narrazione dei sindaci tra ‘prima’ e ‘dopo’. I comuni disastrati, in gran numero, non hanno mai avuto un Piano regolatore e ora si ritrovano anche con la popolazione decimata, un territorio dai confini confusi e in cui proprietà demaniale e proprietà privata conservano solo una traccia imprecisa nella memoria collettiva. Questi comuni devono ora entrare nelle mappe di architetti e urbanisti che, venendo in maggior parte da Napoli ma anche da Roma, portano visioni dei luoghi e delle loro funzioni poco aderenti alla realtà locale. Ma le prime linee di frattura – che saranno portanti – si disegnano dentro le comunità: tra cittadini, tra questi e i sindaci, dentro i consigli comunali. Oggetto del conflitto é una scelta fondamentale: ricostruire il paese tal quale come era prima o modernizzarne la struttura? Tra il partito dei conservatori e quello degli innovatori si apre un confronto dai toni spesso aspri. I sindaci si collocano tra gli innovatori, animati dal desiderio di imprimere cambiamenti (più o meno) significativi a quel passato in cui – solo pochi mesi prima – avevano disperatamente affondato le àncore identitarie, e che all’improvviso appare pesante. Il ricordo di Colantuono restituisce, pur nella sua soggettività, un’esperienza condivisa da molti sindaci del cratere:
Sul Piano di recupero la popolazione di Lioni, e con essa il consiglio, si divise. Si formò il partito di quelli che volevano il paese ricostruito come era prima e il partito di quelli che preferivano un paese ridisegnato secondo esigenze moderne. Io ero tra gli innovatori. La mia proposta non passò e diedi le dimissioni (Archivio personale di A. Colantuono, Lioni 2010).
A Caposele, il sindaco Corona viene accusato di avvenirismo per il suo progetto di infrastrutturazione del paese, ma egli non si dimette. Per San Gregorio Magno, invece, Antonio Frunzi ha pensato un Piano di recupero conservativo, ma i progettisti romani avanzano proposte più affascinanti per i suoi concittadini e l’idea non passa. La difficile gestione del conflitto, dunque, genera gli esiti più disparati: alcuni sindaci si dimettono, altri restano e mediano in direzione di cambiamenti ‘leggeri’, altri ancora afferrano al volo l’occasione e imprimono svolte radicali. Quest’ultimo è il caso del sindaco di Conza della Campania che condurrà in porto il progetto di ricostruire il comune, originariamente posto in cima a una collina, nella vallata che si distende alle pendici del colle. Sarà una Conza che del passato ripropone solo vaghe somiglianze. Il comune di San Mango verrà ricostruito in situ, in cima alla collina, ma dopo una complessa operazione di abbassamento ed estensione della cima, che molti cittadini ricorderanno come ‘il taglio della collina’. Laviano cambierà completamente i suoi connotati: ricostruita altrove, con una pianta diversa, senza identità. La frattura del sisma, in ogni caso, materializza la possibilità di imprimere un cambiamento percepito come necessario dai sindaci. Le motivazioni sono le più svariate: innovare il profilo economico dei territori, generare occupazione, potenziare i collegamenti con i capoluoghi delle regioni vicine, allacciare le comunità locali alla modernità dei contesti urbani e molto altro. Una spinta alla modernizzazione alimentata dalla prospettiva dei notevoli investimenti previsti – sempre dalla l. 219 – in infrastrutture e piani produttivi e dai finanziamenti affidati alla gestione diretta dei comuni. Ma dai Piani di recupero in poi, le visioni dei sindaci e quelle dei cittadini si distanziano. La separazione emerge con evidenza nei nuovi repertori narrativi. Da qui in avanti, infatti, i sindaci cominciano a parlare in prima persona; l’«io» prevale nettamente sul «noi»; il campo privilegiato delle relazioni si sposta dai contesti locali agli studi degli architetti napoletani; mappe, progetti e rilevazioni fotografiche sono i principali punti di riferimento della narrazione. I cittadini finiscono nel retroscena.
Da quanto detto fin qui emergono elementi utili a ricostruire, in maniera più puntuale, le dinamiche generate a livello locale dal sisma del 1980. Innanzitutto, la capacità di risposta immediata delle comunità alla catastrofe; in secondo luogo, un certo dinamismo del tessuto sociale e, in alcuni casi, anche di quello economico nei mesi che seguono i primi riassestamenti delle popolazioni colpite; infine, una notevole vitalità amministrativa che chiama in gioco nuove competenze e nuovi stili di governo locale. In merito al primo punto, le comunità locali rivelano, a dispetto della vulnerabilità delle loro strutture, una notevole resilienza dinamica che si materializza soprattutto in termini di solidarietà diffusa e di espressione di bisogni collettivi più che individuali. Il tessuto relazionale che attraversa questi territori smembrati ne riallaccia i brandelli, nutrito da una fitta rete di rapporti di reciprocità che livella differenze di ruolo e di status e aggancia le maglie del multiforme, e per certi versi disarticolato, universo del volontariato. Sottese da questo tessuto, pian piano riprendono anche le piccole attività commerciali al dettaglio, sostenute soprattutto dalle donazioni in denaro provenienti dalle comunità di emigranti all’estero e dai comuni gemellati, e alimentate dai flussi di persone che in quei mesi si muovono sui territori. Particolarmente intensa è, infine, l’attività amministrativa che in questo periodo registra notevoli rendimenti istituzionali, misurati dalla produzione di delibere e provvedimenti e dalla capacità di spesa registrata in bilancio.
Più in generale, nei primi mesi dopo il sisma gli amministratori locali, in una situazione di grande autonomia, nutrono di ulteriori significati il proprio ruolo e assumono pratiche nuove di governo locale. La funzione di ponte tra governo centrale e società locali scivola sul retroscena, così come la competizione politica; emergono figure propulsive, per certi versi innovative, che si autorappresentano come parte integrante della comunità, i cui bisogni affollano le agende amministrative; ragionano per priorità, spesso attraverso il confronto con i comitati cittadini e seguendo logiche di programmazione, sia pure sul breve periodo. Inoltre, i sindaci ‘della prima ora’ drenano risorse finanziarie da più fonti e si aprono al confronto con la comunità scientifica (geofisici, ingegneri, geologi ecc.). In questo quadro, le spinte alla sovralocalità, agite dal modello commissariale di Zamberletti, e quindi dalle prefetture, trova dovunque una puntuale risposta: più sostanziale nei comuni del cratere irpino, più formale nell’area salernitana e in quella lucana. Il risultato dell’intreccio di tutte queste dinamiche è l’attivazione di nuove risorse di capitale sociale: un fitto tessuto di relazioni che veicola supporti espressivi, economici e organizzativi in un territorio stravolto dal sisma.
Ma arriva il momento di predisporre i Piani di recupero: un nuovo spartiacque tra ciò che è stato prima e ciò che sarà dopo. A questo punto la memoria compie un salto di circa due anni e rimanda a un tempo non meglio definito: la lunga e conflittuale fase di definizione dei Piani si mescola, in generale, con quella successiva, interminabile della ricostruzione. Il conflitto che prima, se affiorava nella memoria, veniva immediatamente risolto, oscurato o collocato ai margini delle rappresentazioni, d’ora in avanti diventa l’elemento ordinatore della memoria stessa, sia pure con pesi diversi in esperienze diverse, comprese quelle più virtuose di ricostruzione; Repole, per es., ricorda:
A Sant’Angelo dei Lombardi c’era già allora il tribunale, il pretore e all’epoca c’era un gruppo di magistrati bravi che davano anche una mano, senza forme di protagonismo eccessive, una mano seria. Indubbiamente qualche lite è cominciata ad esserci con la ricostruzione, qualche problema è comparso.
Il repertorio narrativo cambia notevolmente. Il tono entusiasta sfuma in un nostalgico racconto di ‘occasioni mancate’, di perdita di autonomia. Gran parte dei sindaci che restano in carica si attribuiscono, in questa fase, un faticoso bagaglio di compromessi, mediazioni, rinunce. Tutti, nella rappresentazione di se stessi, non sono più tanto primi cittadini che guidano la ripresa ma, a secondo anche del profilo personale, ora tecnici, ora politici che seguono la messa in opera di decisioni non sempre condivise. La comunità locale assume un ruolo passivo, in posizione di attesa di ciò che sarà, di nuovo smembrata nel suo tessuto connettivo: il vicinato, la parentela, la condivisione degli spazi produttivi vengono collocati decisamente nel passato. Più in generale, la memoria pubblica prende il sopravvento su quella individuale e collettiva e livella le esperienze. Queste ricompongono un quadro unico in cui si materializza l’immagine di una rete di relazioni densa, chiusa su se stessa, in cui prevalgono gli attori politici e quelli istituzionali. In questo reticolo il sindaco occupa ancora una posizione centrale, legittimata dal controllo delle risorse finanziarie elargite dalla l. 219, ma registra una minore autonomia. A governare le dinamiche che prendono corpo in questo quadro è il conflitto, articolato su due piani principali: dentro la comunità e tra livelli di governo diversi. Nel primo caso la memoria degli amministratori colloca soprattutto la complessa contrattazione con le comunità in merito alla delocalizzazione, totale o parziale, dei centri abitati. Felice Imbriani ricorda i numerosi incontri fatti con i cittadini per ricostruire Conza della Campania a valle, lontano dalla faglia sismica su cui poggiava il vecchio centro abitato; alla fine il progetto per la riedificazione del nuovo centro viene definito, ma non sana le lacerazioni generate dentro la comunità e nei rapporti all’interno dell’amministrazione comunale. Il conflitto incrina quella fiducia istituzionale che fino ad allora aveva generato efficaci sinergie. Nella memoria di alcuni sindaci emergono le denunce, i processi, le accuse, quasi fossero stati loro i responsabili del terremoto. I rapporti tra cittadini e amministratori si inaspriscono anche di fronte a progetti di opere pubbliche considerate smisurate e fuori luogo: piscine in alta quota, impianti sportivi di grandi dimensioni, palazzetti dello sport e alberghi a cinque stelle sono gli esempi più ricorrenti. Queste opere sembrano trovare fondamento in una sorta di sindrome del riscatto che solo a distanza di anni perde senso. Emblematiche le parole della sindaco di Sant’Angelo dei Lombardi:
Quando tu non hai avuto niente per tanti anni ed hai perso anche tutto quello che avevi, quando hai avuto la possibilità di avere risorse, ti sei data anche da fare, non so: la scuola più grande di quello che avevi bisogno, il comune più grande… oggi invece hai la difficoltà della gestione. Ovviamente, ma questo lo puoi dire con il senno di poi, in quel momento ti trovi ad avere una cosa cerchi di averla nel miglior modo possibile, non ti poni il problema della gestione (intervista dell’8 ott. 2010, Avellino).
Sul piano dei rapporti interistituzionali, a catalizzare il conflitto è la l. 219, percepita come un ‘terremoto legislativo’. Virtuosa nelle intenzioni del legislatore, genera esiti distorti nel momento in cui si presta a manipolazioni politiche. Variamente definita dagli amministratori come una legge compromesso, di equilibrio politico, sciagurata, esposta a continue modifiche, estensioni, revisioni per interessi di gruppi politici, la legge per la ricostruzione e lo sviluppo postsisma coagula valutazioni non proprio positive, che entrano nel merito sia dello strumento in sé che delle sue applicazioni. I rapporti con l’ente Regione vengono spesso chiamati in causa in queste valutazioni. Fino allo spartiacque dei Piani di recupero, questi rapporti erano definiti sostanzialmente pacifici. Di fatto, le competenze regionali erano molto limitate in questa fase, il che consentiva un’efficace mediazione dei legami personali; il vicesindaco di Pescopagano, Mazzeo, ricorda una sostanziale disponibilità della Regione Basilicata, che passava attraverso i rapporti diretti di amicizia e conoscenza con gli esponenti locali di partito. Ma successivamente i rapporti si complicano, allorquando – come ricorda in particolare Salzarulo, amministratore di Lioni – tra il 1982 e il 1983 la Regione eredita tutta la struttura commissariale e per un po’ la tiene in piedi, fino alla ripresa dell’attività ordinaria. Dopo di che la memoria degli amministratori del cratere irpino corre veloce al 1988 quando, con la riforma del Titolo VIII la Regione Campania carica sui fondi della ricostruzione anche il bisogno ordinario di Napoli: il concetto di ‘metro scomposto’ utilizzato d’allora in avanti dalla Regione diventa ancoraggio condiviso delle narrazioni dei sindaci irpini che contestano all’ente di aver inopportunamente privilegiato i bisogni del capoluogo. La distanza tra i due livelli di governo si misura anche sul piano dei rapporti diretti tra funzionari, politici e amministratori locali. Significative le parole dell’allora sindaco di Calitri, Nazareno Beltrami:
Perché poi c’era una commissione fatta da me come sindaco, poi c’erano tre o quattro professori universitari, poi c’erano tutti sti funzionari della Regione: erano una ventina […]. Venivano qua, questi componenti sia della commissione che politici, comunisti, socialisti, democristiani e altri che erano a Napoli; là si mettevano sotto braccio, qua venivano a fare i sopralluoghi e mettevano zizzania uno contro l’altro! (intervista del 7 febbr. 2013, Calitri).
Più in generale, la memoria riporta a galla diversi casi in cui vuoti procedurali e/o normativi generano condizioni favorevoli alle logiche personalistiche e clientelari. Per es., Gerardo Mariani racconta di una parentesi complicata nella gestione, da parte dei comuni, dell’art. 22 della l. 219 che concedeva contributi ad artigiani e commercianti. Per la gestione di quei fondi venne istituita una commissione dalla Regione Basilicata. Ma mentre sindaco e amministratori conoscevano bene l’artigiano di Muro Lucano, le sue condizioni prima e dopo il terremoto, e potevano esprimere un giudizio adeguato in merito alla concessione del contributo, quando le stesse pratiche arrivavano in commissione regionale per la valutazione della concessione, in quasi tutti i casi non incontravano parere favorevole. «Alla fine o ti aiuta una conoscenza diretta, oppure queste pratiche diventano una cosa veramente difficile da approvare» ricorda Mariani.
In sintesi, con i Piani di recupero matura il disincanto dei sindaci. Questo si misura da un lato sulle aspettative indotte dalla ricostruzione e solo in parte soddisfatte; dall’altro sull’ autonomia goduta nella fase immediatamente postsismica e poi perduta; inoltre sul clima di consenso e partecipazione costruito nella prima fase che lascia poi il posto ad aspri conflitti. Questo disincanto è il filo rosso della memoria, più recente, della ricostruzione. In generale, questa fase viene fatta coincidere con la progressiva, ma rapida, riappropriazione del controllo del territorio da parte dei politici locali. Le lobbies, che si contendono progetti, ricostruzioni, riallocazione di risorse; la riemergenza dei rapporti clientelari; i tentativi di intrusione della criminalità organizzata ne sono gli inevitabili corollari. La ‘fase corta’ immediatamente postsismica che li ha visti protagonisti attivi e positivi, viene collocata in un passato non più vissuto, quasi negata. Nella narrazione, il passato prossimo prende il posto dell’imperfetto e restituisce una rappresentazione in cui la percezione di coloro che sono rimasti in carica si discosta poco da quella di chi ha rinunciato al mandato dopo la prima emergenza. La narrazione dei primi fornisce anche elementi positivi dell’esperienza della ricostruzione: la condivisione dei progetti con i cittadini, la ricostituzione del tessuto sociale ed economico, la gestione trasparente dei finanziamenti. Quelli che hanno lasciato assumono spesso posizioni critiche nei confronti dell’operato dei loro successori, senza risparmiare espressioni forti di condanna: «hanno disastrato il paese più di quanto avesse fatto il terremoto, hanno lucrato sulla miseria di povera gente, non hanno fatto un bel niente!». L’opinione più condivisa è però che il tenore di vita sia generalmente migliorato: abitazioni più sicure e dotate di servizi, acqua e luce anche nelle case di campagna, strutture e infrastrutture. Ma «si poteva fare di più e meglio». Nessuno dei sindaci, infine, prende in considerazione che questi miglioramenti sarebbero potuti essere il frutto di un naturale processo di sviluppo che magari è stato rallentato o deviato, piuttosto che accelerato, dal terremoto.
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Dati, informazioni e testimonianze raccolti in questo saggio sono il risultato di un’indagine di campo e di una campagna di interviste condotte dall’Autrice direttamente sul territorio fra l’ottobre 2010 e il febbraio 2014.