Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I trasferimenti forzati di popolazione rappresentano un’importante caratteristica della storia del Novecento europeo: i primi casi risalgono alle guerre balcaniche del 1912-1913, gli ultimi alle guerre di successione jugoslava degli anni Novanta. L’acme del fenomeno si ha tuttavia con eventi quali il genocidio armeno, l’espulsione dei Greci dell’Asia Minore, le deportazioni su base sociale ed etnica portate avanti in URSS sotto Stalin, il genocidio nazista degli ebrei europei e infine l’ondata di espulsioni dei Tedeschi residenti in Europa orientale.
Inseguendo l’idea di uno Stato “omogeneo”
Quello dei trasferimenti forzati di popolazione è un fenomeno che ha avuto un’importanza del tutto speciale nella storia del Novecento europeo. Benché la deportazione su larga scala di popolazioni civili fosse già tutt’altro che sconosciuta in epoche remote, il XX secolo ha probabilmente segnato lo zenit di questa pratica e, in particolare, della sua variante contemporanea nota come “pulizia etnica”. Con quest’espressione, traduzione letterale del serbo-croato etnicko ciscenje, si indica “il trasferimento forzoso di una popolazione definita etnicamente da un dato territorio” (secondo la definizione del sociologo americano Terry Martin), un fenomeno comune nella storia europea del XX secolo, caratterizzata dall’estensione all’intero continente dei processi di costruzione statale e nazionale, avviatisi nella sua parte occidentale sin dall’età moderna.
L’adozione del modello dello Stato-nazione da parte di élite politiche operanti in società multietniche porta con sè la difficoltà di accettare la presenza di persone o popolazioni la cui identificazione nazionale sia diversa da quella su cui lo Stato in cui vivono fonda la propria identità politica: questi gruppi di cittadini vengono considerati potenziali “nemici interni”, com’era accaduto precedentemente a quelle minoranze la cui fede religiosa avrebbe potuto entrare in contrasto con la fedeltà allo Stato.
Difatti, nell’epoca in cui la religione era considerata il principio identitario fondante la costruzione di uno Stato “omogeneo”, la formazione dello Stato moderno aveva spesso implicato l’espulsione di popolazioni identificate secondo discriminanti religiose, come nel caso dei musulmani, degli ebrei e dei protestanti scacciati dagli Stati cattolici dell’Europa occidentale tra il XV e il XVII secolo. La storia si è ripetuta nel XIX e nel XX secolo, ed è qui il caso di evidenziare che l’espulsione rappresentava però l’extrema ratio e che veniva in genere offerta la possibilità di evitarla attraverso l’assimilazione al resto della popolazione, cosa ora non più possibile.
È comunque il caso di precisare che il tentativo di creare uno Stato “omogeneo” (dal punto di vista religioso, nazionale ecc.) è solo uno dei possibili moventi di uno spostamento forzato di popolazione, e che anche nel XX secolo non sono mancati casi motivati da logiche diverse: dalla volontà di punire o comunque mettere in condizione di non nuocere una popolazione riottosa, a quella di rimuoverne una che ostacola la colonizzazione del territorio da parte di una potenza imperiale. Inoltre – come dimostrano i casi elencati appresso – le vittime possono essere identificate non su base nazionale, ma secondo criteri diversi. Ciò non toglie che le spaccature sociali e/o politiche e/o religiose e/o nazionali possano coincidere, anzi spesso questo è quanto effettivamente si verifica.
Nei Balcani
I primi casi di pulizia etnica registrati nel Novecento europeo risalgono alle guerre balcaniche del 1912-1913, che completano l’espulsione dell’Impero ottomano dai Balcani, i cui territori sono spartiti tra Grecia, Serbia, Montenegro, Bulgaria e Albania. Questi Stati combattono tra loro per la spartizione del bottino e le operazioni militari sono accompagnate da terribili atrocità; ciascuno tenta, spesso riuscendoci, di espellere i civili stranieri dal territorio che occupa e/o di assimilarli (specie nei casi, tutt’altro che infrequenti, di persone la cui identità nazionale è incerta). Nel 1913, l’Impero ottomano e la Bulgaria concludono addirittura un trattato formale: alcune decine di migliaia di musulmani residenti nella Tracia occidentale (bulgara) vengono scambiati con un numero analogo di Bulgari residenti nella parte orientale (ottomana) della regione.
Un’ondata di trasferimenti di popolazione accompagna quindi lo scoppio, nel 1914, della prima guerra mondiale. Tutti gli Stati belligeranti internano gli stranieri nemici, ma l’Impero zarista e quello ottomano vanno oltre, volgendosi contro i propri stessi sudditi e prendendo di mira alcune minoranze in maniera particolare. Nel caso zarista, la persecuzione colpisce i Tedeschi (nemici nel conflitto) e gli ebrei residenti nelle regioni sotto governo militare: ne viene ordinata la deportazione in base al presupposto che rappresentino una minaccia per la sicurezza delle retrovie. In pochi mesi un milione e più di persone vengono sradicate dalle loro case; mentre però la persecuzione antiebraica cessa ben presto a causa delle proteste internazionali, quella contro i Tedeschi è interrotta nel 1917 con lo scoppio della rivoluzione di febbraio.
Nel caso ottomano, la persecuzione si rivolge contro gli Armeni, partendo da simili, infondate motivazioni. Viene condotta con modalità tali da sfociare in un genocidio: l’intera popolazione armena (anche quella residente al di fuori della zona di guerra) viene disarmata e privata della sua leadership (attraverso il massacro dei membri più in vista della comunità, e in genere degli uomini atti alle armi), viene poi costretta a marce forzate attraverso il deserto, in condizioni tali da rendere estremamente probabile un’elevata mortalità per gli stenti e le malattie, e resa oggetto di massacri da parte di paramilitari e criminali. Quanti sopravvivono sono rinchiusi in campi di concentramento situati in Siria e Mesopotamia, dove molti altri muoiono prima che, nel 1917, la regione cada in mani britanniche. Entro quella data non meno di 600 mila armeni sono deceduti: solo le comunità di Costantinopoli, Aleppo e Smirne, le più “visibili” all’opinione pubblica internazionale, vengono risparmiate, mentre larghi tratti di territorio dell’Anatolia orientale, storicamente abitati da Armeni, sono completamente “ripuliti”.
Similmente, nelle fasi finali della guerra greco-turca del 1919-1922 l’esercito guidato da Mustafà Kemal (1881-1938), futuro “padre” della Turchia repubblicana, non si contenta di respingere gli invasori sbarcati in Asia Minore, ma “ripulisce” etnicamente l’intera regione dai secolari insediamenti greci, minacciando l’annessione dello Stato greco. I morti sono decine di migliaia e, nel 1923, la pace di Losanna sancisce ancora uno scambio di popolazione tra Grecia e Turchia in base al credo professato: 1,2 milioni di cristiani ortodossi residenti in Anatolia vengono espulsi e reinsediati in territorio greco, mentre circa 350 mila musulmani seguono il percorso opposto: si viene a creare da un lato uno Stato con una popolazione turca per lingua e per cultura, e musulmana per confessione, e dall’altro uno con popolazione di lingua greca e di religione ortodossa. È tragicamente constatabile che la distruzione dell’ellenismo dell’Asia Minore attraverso la pulizia etnica e la cancellazione della presenza turca nei Balcani pongono le basi per la creazione della Turchia e della Grecia moderne, intese come entità statali sostanzialmente “omogenee” dal punto di vista nazionale.
In Unione Sovietica
Durante il ventennio che separa le due guerre mondiali, trasferimenti forzati di popolazione hanno luogo nella sola Unione Sovietica, principalmente nel quadro della guerra combattuta contro la classe contadina tra il 1918 e il 1933. Durante la guerra civile russa, la deportazione in massa rientra fra i metodi applicati allo scopo di reprimere le rivolte contadine; quando la guerra dello Stato sovietico contro i contadini riprende con la collettivizzazione forzata delle campagne, ricominciano su vastissima scala anche le deportazioni.
Tra il 1930 e il 1931, con un atto criminale, quasi 2 milioni di contadini “riottosi” vengono deportati, e di fatto abbandonati a se stessi per trascuratezza e per effettiva impossibilità di provvedere ai loro bisogni. I morti sono centinaia di migliaia e ben presto si aggiungono quelli delle carestie scatenate dalle politiche governative in Asia centrale e poi in Ucraina, allorché Stalin decide di fatto di impiegare la scarsità di cibo (la “fame sterminatrice”, Holodomor) come arma per piegare la resistenza della classe contadina e di fatto dell’intera nazione ucraina. La successiva metà del decennio vede una serie di deportazioni in massa organizzate su base etnica, ristrette dapprima ai cittadini sovietici di diversa nazionalità abitanti in prossimità dei confini; successivamente, nell’ambito del cosiddetto “grande terrore”, la polizia politica conduce campagne di arresti mirate espressamente a colpire le nazionalità che fanno riferimento agli Stati confinanti: i Coreani residenti in Estremo Oriente sono addirittura deportati in blocco in Asia centrale (in quello che è forse il primo vero e proprio caso di completa “pulizia etnica” verificatosi in URSS) per timore che fra di essi si annidino spie e sabotatori al servizio del Giappone.
All’inizio della seconda guerra mondiale, l’URSS alleata con la Germania nazista occupa molti territori in Europa orientale, annettendo tra l’altro buona parte della Polonia e i tre Stati baltici di Lituania, Lettonia ed Estonia. In queste regioni le deportazioni di tutti gli oppositori, effettivi o anche solo potenziali, del regime sovietico hanno inizio quasi immediatamente. Il criterio con cui vengono scelte le vittime è prevalentemente politico, non etnico; i deportati sono centinaia di migliaia e non pochi muoiono negli interminabili viaggi in treno verso la Siberia e l’Asia centrale, senza contare le vittime delle esecuzioni in massa. La maggior parte dei sopravvissuti è comunque “amnistiata” e autorizzata a lasciare l’URSS allorché quest’ultima, nel 1941, viene attaccata dalla Germania nazista.
Anche nel pieno della guerra, le autorità sovietiche continuano a deportare frotte di “nemici interni” identificati su base etnica: le prime vittime sono i Tedeschi residenti nella regione del Volga (e non solo), deportati tra il 1941 e il 1942 in Asia centrale. Successivamente, la loro sorte è condivisa da esponenti di varie nazionalità accusate collettivamente di aver collaborato con gli invasori: i contingenti di deportati più numerosi sono quelli dei Ceceni e dei Tatari (o Tartari) di Crimea, la cui mortalità raggiunge (e talora supera) un quinto del totale. Il movente di queste azioni, al di là di quanto ufficialmente dichiarato dalle autorità sovietiche, è probabilmente la volontà di rimuovere popolazioni ritenute “inaffidabili” da regioni di confine strategicamente importanti, e al tempo stesso di risolvere “una volta per tutte”, soprattutto nel Caucaso settentrionale, questioni nazionali risalenti all’epoca zarista destinate a riemergere, talvolta dando nuovamente luogo a conflitti violenti, dopo il crollo dell’Unione Sovietica.
Da ultimo, allorché riprendono il controllo dei territori annessi tra il 1939 e il 1941, i Sovietici si trovano a fronteggiare l’opposizione, anche armata, dei nazionalisti locali (ucraini e lituani soprattutto). Per schiacciare la resistenza, che non cessa del tutto fino alla morte di Stalin nel 1953, non solo i guerriglieri vengono inviati ai lavori forzati allorché catturati, ma i loro familiari (e talvolta interi villaggi) sono deportati in Siberia o in Asia centrale. Inoltre, vengono deportati i contadini che si oppongono alla collettivizzazione delle terre da ultimi quelli della Bielorussia occidentale nel 1952. Solo la morte di Stalin, nel marzo 1953, mette fine a tutto questo.
I crimini nazisti e le reazioni degli Stati vincitori nel dopoguerra
Fuori dai confini sovietici, il decennio che ha inizio con lo scoppio della seconda guerra mondiale è caratterizzato dai più vasti spostamenti di popolazione mai visti nella storia europea. Essi includono le deportazioni di milioni di ebrei europei verso i campi di sterminio nazisti, che vanno esaminate nel contesto della Shoah, un fenomeno per certi versi affine a quelli qui presi in considerazione ma, al tempo stesso, così estremo da essere irrimediabilmente diverso, e quindi bisognoso di una trattazione separata. I nazisti deportano anche milioni di persone per impiegarle come lavoratori forzati e organizzano altri trasferimenti di popolazione volti a salvaguardare minoranze tedesche in pericolo oppure a promuovere la germanizzazione di determinate regioni; intendono, in caso di vittoria, trasformare tutta l’Europa fino agli Urali in un impero coloniale organizzato secondo principi razzisti: questo folle progetto avrebbe comportato l’espulsione in Siberia di milioni di Slavi (gli altri sarebbero stati schiavizzati o lasciati morire di fame) per “far posto” ai coloni germanici.
Allorché la Germania viene sconfitta, sono invece i Tedeschi a subire l’espulsione dall’intera Europa orientale, ma specialmente da Polonia e Cecoslovacchia. La minoranza tedesca residente nella regione dei Sudeti, che era stata una delle cause del crollo della Repubblica cecoslovacca nel 1938, viene collettivamente accusata di tradimento (con l’esclusione di un ristretto numero di antifascisti) e sottoposta a una violenta pulizia etnica: gli espulsi sono più di due milioni e i morti non meno di ventimila.
Lo stesso accade non solo ai Tedeschi residenti nella Polonia prebellica, ma anche a quelli che abitano in regioni tedesche che gli alleati hanno deciso di assegnare alla Polonia per compensarla delle perdite subite a est in seguito al mantenimento (con minime modifiche) del confine sovietico del 1941, che includeva metà della Polonia del 1939. I Polacchi che abitano in quell’area vengono “scambiati”, tra il 1944 e il 1946, con gli Ucraini rimasti in Polonia; molti comunque erano già fuggiti in precedenza per scampare alla campagna di massacri intrapresa nel 1943 dai nazionalisti ucraini in Volinia. Vengono perlopiù reinsediati nei territori tolti alla Germania (dove nel 1947 sono deportati anche gli Ucraini che non erano stati “scambiati” nei due anni precedenti) la cui popolazione è in parte fuggita di fronte all’avanzata dell’esercito sovietico, e per il resto viene espulsa in maniera più o meno selvaggia dall’amministrazione di occupazione polacca. Gli esuli sono milioni e i decessi non meno di 500 mila.
Nello stesso periodo gli Italiani residenti in Istria e in Dalmazia emigrano sotto la pressione delle autorità jugoslave, in un “esodo” che si prolunga per un decennio. In tutto decine di milioni di europei sono sradicati dalle proprie terre natali e reinsediati altrove; le più importanti minoranze nazionali europee scompaiono, mentre per la prima volta nella storia i confini politici coincidono grosso modo con quelli linguistici, facendo sì che la maggior parte degli Stati europei possano dirsi “omogenei” dal punto di vista nazionale.
Anni Novanta: ancora “pulizia etnica”
A questa regola continuano a fare eccezione le repubbliche costituenti la federazione jugoslava e quella sovietica, e non a caso il crollo di queste due entità fa sì che la pulizia etnica, scomparsa per decenni dall’Europa dopo la morte di Stalin, ricompaia sulla scena nei primi anni Novanta.
In particolare, il contrasto tra i nazionalismi degli Stati che si formano dopo la fine della federazione jugoslava causa le guerre di successione nel cui ambito hanno luogo spostamenti forzati di popolazione su larga scala. Il tentativo di creare una “grande Serbia” porta alle campagne militari con cui vengono conquistati un quarto della Croazia e due terzi della Bosnia, e alle quali si accompagna il tentativo di “purificare” le aree conquistate dagli individui di nazionalità non serba. Allo scopo di raggiungere quest’obiettivo vengono perpetrate atrocità che nei casi di Vukovar e Srebrenica giungono fino all’omicidio in massa di migliaia di persone. Allorché possono, i nemici dei serbi adottano gli stessi metodi violenti e sanguinari: quando nel 1995 riconquistano la Slavonia, i Croati uccidono centinaia di civili serbi, spingendo gli altri a rifugiarsi entro i confini serbi. Analogamente, alla pulizia etnica contro gli Albanesi del Kosovo – che nei primi mesi del 1999 coinvolge forse 800 mila civili causando migliaia di vittime – seguono, dopo la sconfitta serba a opera della NATO, violenze che inducono a emigrare i due terzi dei Serbi residenti sul posto. In totale, in meno di dieci anni si registrano 300 mila morti (per due terzi civili o prigionieri di guerra) e 4 milioni di profughi e, alla fine, nessuna delle parti in causa consegue i propri obiettivi: Bosnia e Kosovo sono tuttora sotto amministrazione internazionale e i confini sono rimasti quelli esistenti in precedenza – anche se ora si registra una maggiore coincidenza tra le divisioni politiche e quelle nazionali, specie in Croazia e in Kosovo.