Depressione
di Alberto Siracusano e Cinzia Niolu
La d. è una condizione psicopatologica caratterizzata da sintomi psichici (tristezza marcata, anedonia, hopelessness, helplessness, sentimenti di colpa e autosvalutazione, disturbi della memoria e deterioramento cognitivo, idee suicidarie) e fisici (astenia, rallentamento o agitazione psicomotoria, disturbi del ritmo circadiano e del ciclo sonno-veglia, disturbi dell'appetito e della sfera sessuale). Nel DSM-iv-TR (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders, Text Revision) e nell'ICD-10 (International Classification of Diseases) la d. viene classificata tra i disturbi dell'umore ed è suddivisa in d. unipolare (Disturbo depressivo maggiore, Disturbo distimico, Disturbo depressivo non altrimenti specificato) e bipolare (Bipolare i, Bipolare ii, Disturbo ciclotimico, Disturbo bipolare non altrimenti specificato).
La prevalenza della d. è alta in tutto il mondo, e la sua gravità può essere tale da produrre disabilità sociale e alti costi nell'assistenza sanitaria. Infatti, secondo stime dell'Organizzazione mondiale della sanità, nel 2020 la d. diventerà la seconda causa di invalidità tra le malattie croniche (WHO 2003). All'inizio del 21° sec. è la prima causa di carico di malattia per le donne di età compresa tra i 15 e i 44 anni, sia nei Paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo, e costituisce la terza causa per gli uomini della medesima fascia di età. La prevalenza lifetime nella popolazione generale è stimata tra il 4,6% e il 17%, con differenze dovute all'area geografica di valutazione (rurale, cittadina) e alla diversa presenza di fattori di rischio che possano incidere sull'espressione della malattia. Il rischio di ammalarsi di d. è maggiore per le donne rispetto agli uomini, con un rapporto stimato di 2:1. La d. si associa tipicamente a un aumento del tasso di morbilità e mortalità per malattie organiche concomitanti, in particolare disturbi cardiovascolari, e per suicidio. L'età media di insorgenza è intorno ai 25 anni, con due picchi, uno tra i 15 e i 19, l'altro tra i 25 e i 29. Il decorso della malattia è generalmente fasico e cronico.
La genesi della d. è stata, di volta in volta, attribuita a diverse cause: psicologiche, biologiche, sociali, bio-psico-sociali. L'approccio più estensivo è considerato quello eco-bio-psico-sociale, per la comprensione del quale è necessario prendere in considerazione fattori provenienti da diversi campi.
L'ipotesi iniziale di S. Freud, secondo cui la d. sarebbe dovuta alla perdita dell'oggetto d'amore introiettato e alla rabbia diretta contro l'oggetto, e perciò contro di sé, è stata successivamente modificata e integrata da altri teorici di scuola psicoanalitica, in particolare da M. Klein, i quali hanno posto l'accento sull'importanza della qualità delle prime relazioni madre-bambino nel fornire una base per lo sviluppo futuro della depressione. Su questa stessa linea è stato il contributo della scuola cognitivista, sostenuta dagli studi di J. Bowlby sull'attaccamento, la separazione e la perdita della madre condotti sui primati non umani e replicati da M. Ainsworth sui bambini. Alcune di queste ipotesi hanno trovato interessanti conferme in studi di neuroscienze: indagini condotte alla fine degli anni Novanta del 20° sec. su bambini che avevano perso un genitore prima dei 4 anni di età (early parental loss) hanno dimostrato come questo sia un fattore predittivo di d. negli anni successivi altamente significativo.
In campo biologico diverse teorie iniziali hanno subito modifiche successive. L'ipotesi monoaminergica, focalizzando l'attenzione sul sistema noradrenergico, serotoninergico e dopaminergico, ha permesso una migliore conoscenza del ruolo di questi tre sistemi nell'eziopatogenesi della depressione. Tale ipotesi iniziale ha subito, negli anni, diverse revisioni, con un sostanziale spostamento dell'ipotesi neurobiologica della d. dalle anomalie dei neurotrasmettitori monoaminergici alle alterazioni dei loro recettori. L'ipotesi più accreditata è che l'eziologia del disturbo depressivo non dipenda dalla disregolazione di un solo sistema, ma sia invece legato a un disequilibrio concernente più sistemi, correlati morfofunzionalmente tra loro. Il glutammato, neurotrasmettitore che media la neurotrasmissione eccitatoria, sembra essere coinvolto tramite mutazioni o polimorfismi del gene che codifica il recettore NMDA, N-metil-d-aspartato (Schiffer 2002). L'infusione del fattore neurotrofico di derivazione cerebrale (BDNF) nel cervello determina un effetto simil-antidepressivo in due modelli comportamentali di d., la learned helplessness e il forced swin test, suggerendo così il coinvolgimento di questa sostanza nella sintomatologia depressiva (Shirayama, Chen, Nakagawa et al. 2002). In condizioni di stress, il gene del BDNF è represso e pertanto la sua sintesi è ridotta; in conseguenza di ciò i neuroni dell'ippocampo vanno incontro ad atrofia e apoptosi. Studi di visualizzazione cerebrale (neuroimaging) condotti su pazienti depressi hanno mostrato una riduzione del volume delle strutture cerebrali correlate all'ippocampo, confermando così l'ipotesi che i neuroni ippocampali siano ridotti di numero, volume e funzionalità in corso di depressione. Oltre a ciò, si è anche osservato che il trattamento antidepressivo prolungato può aumentare l'espressione del BDNF e del suo recettore TrkB nelle strutture limbiche. In uno studio condotto con tomografia a emissione di fotone singolo (SPECT) è stata messa in evidenza una riduzione del legame al trasportatore della serotonina nei pazienti depressi rispetto a quelli sani (Malison, Pelton, Carpenter et al. 1997). Anche per quanto riguarda la dopamina, le tecniche di neuroimaging hanno mostrato un minor legame e una riduzione di densità del trasportatore della dopamina (Meyer, Kruger, Wilson et al. 2001). Altro filone all'interno dell'ipotesi 'chimica' della d. è quello che postula alterazioni a livello delle molecole preposte alla trasduzione dei segnali dal recettore alla cellula (secondo messaggero). La maggior parte dei recettori della serotonina è associato alla proteina G, la quale modula l'attivazione del secondo messaggero cAMP (adenosin monofosfato ciclico), da cui deriva l'attivazione cellulare. Il coinvolgimento della proteina G nei disturbi dell'umore è stato provato da ricerche farmacologiche condotte su animali di laboratorio: gli antidepressivi regolano le differenti subunità α e la loro espressione genica in differenti zone cerebrali. Anche il litio e la lamotrigina agirebbero attraverso una regolazione dell'attività della proteina G (Gould, Manji 2002). In generale ai neuropeptidi viene riconosciuto un ruolo chiave nella neurobiologia della depressione. In differenti sottotipi di d. è stato possibile individuare un diverso substrato neurochimico nell'azione del CRH (Corticotrophin Releasing Hormone) e nell'increzione di cortisolo a esso correlata: nel sottotipo con melanconia si osserva un incremento della secrezione centrale di CRH, e pertanto un incremento dei livelli di cortisolo circolante; nella d. atipica, al contrario, si può riscontrare una diminuzione dell'attività del CRH e, conseguentemente, una riduzione dei livelli di cortisolo. Pertanto due differenti situazioni endocrine sarebbero correlate a due diversi quadri clinici: l'una (melanconia) caratterizzata da rallentamento/agitazione psicomotoria, insonnia, diminuzione dell'appetito, l'altra (atipica) caratterizzata da astenia, ipersonnia, iperfagia. Altro neuropeptide probabilmente coinvolto nell'eziopatogenesi della d. è la sostanza P, mediatrice neurobiologica della risposta al dolore e coinvolta nella reazione allo stress, prodotta in alcune zone del Sistema Nervoso Centrale (SNC) preposte alla regolazione dell'affettività. L'azione antagonista alla sostanza P sta cominciando a essere utilizzata, con qualche effetto positivo, nel trattamento della depressione. L'impiego dell'ormone tiroideo come trattamento aggiuntivo all'antidepressivo nelle forme resistenti è inoltre divenuto pratica comune, a conferma del coinvolgimento dell'asse tiroideo nella patologia depressiva.
Complementare all'ipotesi chimica si affianca l'ipotesi che chiama in causa le reti neurali, le network hypothesis (Hua, Smith 2004). Secondo quest'ultima la d., come anche altre malattie del SNC, sarebbe da ricondurre ad alterazioni morfo-funzionali delle reti neurali che si formano attraverso l'interazione con l'ambiente durante lo sviluppo del cervello (activity dependent synaptic plasticity), e che svolgono la funzione di processazione dell'informazione. La sintesi e il rilascio dei neurotrasmettitori, come pure delle molecole di trasporto del segnale, essendo funzioni del grado di attività della rete, sono anch'esse, perciò, dipendenti dalla qualità e quantità dell'interazione con l'ambiente. L'azione degli antidepressivi, inizialmente di tipo chimico sui neurotrasmettitori e sui trasportatori di membrana, indurrebbe successivamente, con la prosecuzione del trattamento, un'azione a monte stimolando la plasticità della rete neurale e inducendo un processo di 'auto riparazione' strutturale. Tale ipotesi presenta il limite di non avere a suo supporto dati sperimentali significativi, ma soltanto evidenze indirette. Alcuni dati derivano dagli studi di neuroimaging condotti su bambini sottoposti a traumi (oppure a gravi deprivazioni) in fasi precoci dello sviluppo psicologico e neurologico, osservati attraverso tecniche di neuroimaging in tempi diversi, dopo il trauma e dopo l'allontanamento dall'ambiente traumatico (Chugani, Behen, Muzik et al. 2001); altri dati derivano dagli studi di neuroimaging condotti su pazienti depressi, che mostrano una riduzione di volume della corteccia prefrontale e dell'ippocampo, verosimilmente legata a una riduzione della complessità e della connettività neuronale: in alcuni studi si è osservata una reversibilità di questo quadro morfologico in seguito alla terapia antidepressiva. Alcuni lavori condotti su animali hanno dimostrato che gli antidepressivi possono indurre un incremento della crescita neuronale, per es., nel cervello dei ratti. Anche l'evidenza della latenza d'azione degli antidepressivi, non spiegata dall'ipotesi monoaminergica, sembra trovare in questo processo di ristrutturazione plastica della rete neurale una sua ragion d'essere. I neuroni si sviluppano, crescono e si differenziano in un determinato periodo di tempo e solamente dopo diverse settimane viene raggiunto un grado di maturazione tale da consentire ai neuroni stessi di partecipare alla processazione dell'informazione.
Le tecniche di neuroimaging forniscono uno strumento prezioso al fine di individuare le strutture cerebrali coinvolte nella d. (come anche in altre patologie psichiatriche), e di valutarne, in vivo, l'evoluzione nelle diverse fasi del decorso e in relazione ai diversi trattamenti impiegati, psicofarmacologici e psicoterapeutici. Questo ha permesso di fornire alle ipotesi etiopatogenetiche alcuni supporti richiesti dall'approccio evidence based della medicina moderna, in un ambito, quello della psichiatria, considerato senza base organica dimostrabile. Dati significativi sono stati ottenuti con l'impiego della SPECT, della tomografia a emissione di positroni (PET), della risonanza magnetica nucleare funzionale (fRMN). Gli studi più avanzati sono stati condotti sia sul metabolismo cerebrale sia sulla funzionalità neurorecettoriale, con l'obiettivo di identificare le aree potenzialmente compromesse in modo specifico durante la malattia. La maggior parte di questi studi ha evidenziato anomalie nelle strutture della corteccia prefrontale (porzione ventrolaterale), nella porzione anteriore della circonvoluzione del cingolo, nel lobo temporale, nei gangli della base, nel talamo e nell'amigdala. In particolare, è stato riscontrato un difetto selettivo della perfusione cerebrale bilaterale a livello paralimbico.
Ulteriori ricerche hanno portato alla conclusione che le aree suddette siano coinvolte nella patologia depressiva mediante un aumento relativo del metabolismo, che si riduce in maniera consistente dopo il trattamento e la risoluzione sintomatologica. Discusso è invece il ruolo della porzione dorsolaterale della corteccia prefrontale. Studi comparativi condotti con la PET su pazienti depressi che avevano risposto alla psicoterapia cognitivo comportamentale (CBT) e alla paroxetina, hanno mostrato che la risposta al trattamento era associata a variazioni metaboliche significative in alcune aree cerebrali, con una successione temporale inversa nei due gruppi. Nel campione rispondente alla CBT si osservava una riduzione del metabolismo del glucosio a partire dalla corteccia prefrontale dorsale, ventrale e mediale verso l'ippocampo (top-down); nel secondo gruppo (paroxetina) la riduzione del metabolismo glucidico avveniva con una progressione contraria, dall'ippocampo verso le aree corticali (bottom-up; Goldapple, Segal, Garson et al. 2004). A questo corrispondeva, sul piano clinico, una diversa tipologia di risposta, a partire dai sintomi cognitivi per arrivare a quelli vegetativi e motivazionali per il gruppo CBT, il contrario per il gruppo in trattamento con paroxetina. Si tratta di un aspetto molto interessante e promettente della ricerca futura. La trasmissione familiare della depressione (circa il 70% negli studi longitudinali) ha fatto sì che si sviluppassero negli ultimi anni studi di genetica (su famiglie, bambini adottivi, gemelli, studi di linkage), i quali hanno messo in evidenza come i fattori genetici svolgano un ruolo fondamentale sia nella patogenesi sia nella risposta al trattamento. Interessanti dati riguardano la genetica della trasmissione serotoninergica, e ipotizzano che mutazioni a livello dei geni coinvolti in questo sistema trasmettitoriale possano essere correlati con la risposta clinica agli antidepressivi serotoninergici. Tra questi geni rivestono particolare importanza il gene che codifica il trasportatore della serotonina (5-HTT) e il gene per la triptofano idrossilasi (TPH), e in particolare ad alto rischio viene considerata una variazione nella regione del gene trasportatore della serotonina 5-HTTLPR (linked polymorphic region) nelle sue varianti (l, long) e (s, short). L'allele (s) si associa a una ridotta disponibilità di serotonina rispetto all'allele (l). Studi di genetica abbinati a fRMN hanno mostrato una tendenza, nei portatori sani della variante (s), di esprimere risposte emotive negative in presenza di stimoli specifici, mentre i portatori della variante (l) mostrano, a livello dell'amigdala, risposte attenuate in seguito all'esposizione a scene a contenuto emozionale negativo o a facce caratterizzate da espressioni di paura (Heinz, Braus, Smolka 2005). Un'interessante prospettiva aperta da questi riscontri potrebbe essere quella accennata negli studi di farmacogenetica miranti a isolare genotipi che rispondano a specifici trattamenti. Un aspetto che spicca, in questo tipo di studi, è la particolare rilevanza assunta dall'interazione gene-ambiente, sia per l'evidenziazione del rischio genetico, sia per lo sviluppo vero e proprio della malattia depressiva. In questo senso, più che di carico genetico, nella trasmissione della depressione è corretto parlare di vulnerabilità genetica, che può trovare la sua espressione in relazione a stimoli ambientali stressanti per il soggetto portatore di tale vulnerabilità. Altri studi, per quanto molto dibattuti, suggeriscono come anche i soggetti portatori dell'allele ad alto rischio potrebbero non sviluppare mai una d., a meno che non vengano sottoposti a eventi stressanti oppure a traumi, in particolare durante la prima infanzia. Quest'ultimo aspetto si riconduce in qualche modo anche alle ipotesi della plasticità neuronale e alla teoria della rete neurale, nel senso che importanti avvenimenti ambientali accaduti nelle prime fasi della vita, in soggetti geneticamente predisposti, potrebbero incidere sullo sviluppo morfofunzionale del SNC (in una fase molto delicata), determinando anomalie di stato e/o di tratto le quali, a loro volta, costituirebbero una ulteriore vulnerabilità per lo sviluppo successivo della malattia depressiva. In particolare, questo aspetto 'complesso' dell'eziopatogenesi della d. è uno stimolo per tutta una serie di studi diretti a ricercarne utilità nel campo della terapia. L'evidenza che diversi trattamenti, farmacologici, psicoterapeutici e, secondo alcuni studi, elettroconvulsivanti, possano stimolare una plasticità neuronale riparativa che, gradualmente, generi un ripristino delle connessioni nei circuiti neurali lesionati dal disturbo, si presenta come un substrato promettente per lo sviluppo di vie terapeutiche integrate e mirate ai sottotipi clinici (Castrén 2005). Un'ipotesi interessante, e in qualche modo integrativa delle complesse ipotesi biologiche e psicologiche della d., è quella che la propone come una malattia multifattoriale, nella cui genesi intervengono fattori predisponenti di diversa origine. Le varie possibili combinazioni di tali fattori di rischio possono dare origine ad alcune linee di sviluppo verso la depressione, con prevalenza di fattori diversi a seconda delle diverse età evolutive. Sono state individuate tre modalità principali: internalizzante, esternalizzante, delle avversità. La modalità internalizzante è ancorata a due variabili, il nevroticismo e i disturbi d'ansia a esordio precoce; la modalità esternalizzante ai disturbi della condotta e all'abuso di sostanze; la modalità delle avversità è più articolata, coinvolgendo gli eventi esistenziali (life events) allo stesso modo dello stile relazionale del soggetto, e comprende alcuni fattori di rischio riscontrabili nella prima infanzia, come l'ambiente familiare disturbato, l'abuso sessuale e la perdita di un genitore, nonchè altri fattori di rischio individuabili nel corso della vita, come il basso livello scolastico, il trauma, lo scarso supporto sociale, per arrivare ad alcuni fattori di rischio dell'età adulta, come il divorzio e le difficoltà relazionali ad ampio spettro (Kendler, Gardner, Prescott 2002).
Bibliografia
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