Depressione
La depressione è una condizione psicopatologica molto grave che colpisce gli aspetti cognitivi, emotivi e comportamentali della vita delle persone che ne sono affette. Essa è caratterizzata da sintomi psichici come profondo senso di tristezza, incapacità di provare piacere e interessi, disperazione e senso di inettitudine personale, oltre a sentimenti di colpa e autosvalutazione, disturbi della memoria e della concentrazione e idee suicide; accanto a questi si presentano anche sintomi fisici, come senso di debolezza generalizzata, rallentamento o agitazione psicomotoria, alterazioni del ritmo circadiano e del ciclo sonno-veglia, disturbi dell'appetito e della sfera sessuale. Nei sistemi internazionali di classificazione delle malattie la depressione viene inclusa tra i cosiddetti 'disturbi dell'umore' e suddivisa in depressione unipolare (disturbo depressivo maggiore, disturbo distimico, disturbo depressivo non altrimenti specificato) e bipolare (disturbo bipolare I, disturbo bipolare II, disturbo ciclotimico, disturbo bipolare non altrimenti specificato).
La sua prevalenza è piuttosto alta in tutto il mondo e la sua gravità può essere tale da produrre disabilità sociale (quando non addirittura il suicidio) e alti costi sociali e sanitari. Infatti, secondo stime recenti dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2020 la depressione sarà la seconda causa di invalidità tra le malattie croniche. Attualmente è la prima causa di malattia per le donne di età compresa tra i 15 e i 44 anni, sia nei Paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo, e la terza per gli uomini della stessa fascia di età. La prevalenza nella popolazione generale nell'arco della vita è stimata tra il 4,6 e il 17%, con differenze dovute all'area geografica (rurale o urbana) e alla diversa presenza di fattori di rischio che possono incidere sull'espressione della malattia. Per motivi che restano ancora da chiarire, le donne presentano un maggiore rischio di venire colpite rispetto agli uomini, con un rapporto stimato di 2:1. La depressione si associa tipicamente a un aumento del tasso di morbilità e mortalità per malattie organiche concomitanti, in particolare disturbi cardiovascolari, e per suicidio. L'età media di insorgenza si situa intorno ai 25 anni e presenta due picchi, uno tra i 15 e i 19 e l'altro tra i 25 e i 29. Il decorso della malattia è generalmente fasico e cronico, ovvero caratterizzato da un certo numero di ricadute nel corso degli anni, che possono essere intervallate da periodi di remissione completa o parziale.
La genesi della depressione è stata nel corso degli studi attribuita a diverse cause, di ordine psicologico, biologico e sociale. Attualmente, la tendenza dei ricercatori è quella di considerarla una malattia a genesi multifattoriale: secondo il cosiddetto 'modello bio-psico-sociale', nello studio della depressione quale evento di confine tra mente, cervello e corpo devono essere considerati e soppesati fattori causali multipli, che riguardano sia la struttura psicologica del paziente, sia la sua costituzione genetica e fisiologica, sia infine l'ambiente famigliare e sociale in cui egli ha vissuto i primi anni di vita. Secondo questo modello, la depressione è la risultante di eventi di vita stressanti che di per sé potrebbero avere effetti trascurabili, ma che invece, qualora colpiscano un individuo caratterizzato da determinati tratti psicologici possono portare allo sviluppo di sintomi depressivi.
Sigmund Freud e i suoi seguaci furono tra i primi a proporre per la genesi della depressione una spiegazione interamente psicologica, secondo cui tale condizione consisterebbe nelle reazioni soggettive di lutto per la perdita dell'oggetto d'amore, cui si sommerebbe la rabbia, che viene diretta dapprima contro l'oggetto e poi contro sé stessi. Tale ipotesi è stata successivamente modificata e integrata da altri teorici di scuola psicoanalitica, in particolare dai sostenitori della , che sottolineano come la vita interiore delle persone sia profondamente influenzata dai rapporti precoci intercorsi tra il bambino e le figure genitoriali. A partire da Melanie Klein, Otto Kernberg, Heinz Kohut e altri, gli psicoanalisti hanno posto sempre più l'accento sul ruolo che, nello sviluppo futuro della depressione, hanno la qualità delle prime interazioni madre-bambino e l'immagine di sé che l'individuo sviluppa a partire da esse; in quest'ottica, la depressione può essere interpretata come reazione luttuosa non soltanto alla perdita di una persona cara, ma anche alla perdita o alla trasformazione negativa di un aspetto di sé ritenuto importante, o a una mancata realizzazione esistenziale.
Più recentemente, su questa stessa linea di ricerca, lo psicoanalista inglese John Bowlby ha sintetizzato dati e metodi della psicoanalisi, dell'etologia e della psicologia cognitiva che hanno portato allo sviluppo della . Studi empirici sulle relazioni madre-figlio, sulla separazione e sulla perdita della madre, condotti inizialmente sui Primati non umani e in seguito replicati da Mary Ainsworth su bambini molto piccoli, hanno reso possibile la definizione di alcuni modelli di esperienze precoci di accudimento che, qualora insufficienti sul piano pratico oppure su quello emotivo, possono predisporre il bambino a vivere in modo catastrofico esperienze di abbandono o fallimento nella vita adulta. Alcune di queste ipotesi hanno trovato interessanti conferme nei recenti studi di neuroscienze: per esempio, ricerche condotte alla fine degli anni Novanta del XX sec. su bambini che avevano perso un genitore prima dei 4 anni di età, hanno dimostrato come tale fattore possieda un elevato valore predittivo della comparsa di depressione negli anni successivi.
Infine vanno menzionati i modelli elaborati da Aaron T. Beck e dalla sua scuola (1987), che interpretano la depressione come il risultato di un preciso stile di pensiero dell'individuo, consistente in un'immagine stabilmente negativa di sé, del proprio futuro e del proprio ambiente. Tale immagine viene mantenuta nella coscienza a dispetto delle prove oggettivamente contrarie, a causa di una serie di difetti di pensiero logico (i cd. bias cognitivi) che influenzano in senso depressivo il modo in cui l'individuo osserva la realtà e si pone in relazione con essa. Da questa teoria deriva la cosiddetta, che attualmente, secondo la maggior parte dei trial clinici internazionali, è il trattamento psicologico d'elezione per i disturbi depressivi. Essa mira in primo luogo a correggere lo stile di pensiero disfunzionale del soggetto, poi a migliorare i comportamenti con cui egli fronteggia la realtà e, infine, a potenziare la sua capacità di provare piacere e gratificazione nelle attività quotidiane.
La depressione si accompagna anche ad alcune alterazioni della fisiologia cerebrale, rilevabili con metodiche obiettive. A correggere tali disfunzioni mirano le attuali terapie farmacologiche, che possono in determinati casi riscuotere un discreto successo. L'evidenza empirica che trattamenti di diversissima natura ‒ come quelli farmacologici, quelli psicoterapeutici e, secondo alcuni studi, anche quelli elettroconvulsivanti ‒ possano, da soli o in maniera congiunta, stimolare il paziente alla guarigione si presenta come uno spunto promettente per lo sviluppo di concettualizzazioni cliniche e terapeutiche integrate che possano spiegare la depressione e curarne i numerosi sottotipi clinici.
Un'ipotesi interessante, e in qualche modo integrativa delle complesse teorie biologiche e psicologiche della depressione, è quella che la descrive come una malattia multifattoriale, nella cui genesi intervengono fattori predisponenti di diversa natura. Le varie combinazioni possibili di tali fattori di rischio possono dare origine a differenti esiti di sviluppo verso la depressione, con il peso dei diversi fattori che varia a seconda delle età evolutive. Studi recenti hanno individuato tre possibili esiti principali: quello internalizzante, quello esternalizzante e quello delle avversità. L'esito internalizzante è ancorato a due variabili: il nevroticismo e i disturbi d'ansia a esordio precoce; quello esternalizzante porta ai disturbi della condotta e all'abuso di sostanze; infine, l'esito delle avversità è quello più articolato e complesso, che comprende alcuni fattori ambientali di rischio nella prima infanzia, come un ambiente familiare disturbato, un abuso sessuale o la perdita di un genitore; altri fattori di rischio più duraturi possono andare, in questo quadro, da un basso livello scolastico o uno scarso supporto sociale fino al divorzio o a difficoltà relazionali ad ampio spettro.
In campo biologico, diverse teorie, proposte negli anni in cui venivano scoperti i primi psicofarmaci, hanno subito modifiche successive con l'accumularsi di prove favorevoli o contrarie. L', per esempio, ha focalizzato l'attenzione sul possibile ruolo eziopatogenetico di eventuali disfunzioni nella fisiologia dei sistemi neurotrasmettitoriali noradrenergico, serotoninergico e dopamminergico, portando tra l'altro anche a una migliore conoscenza del funzionamento generale dei sistemi stessi. La genesi e il mantenimento dei sintomi psichici e fisici della depressione venivano attribuiti soprattutto a una diminuzione del tasso cerebrale di , e ciò ha portato alla produzione di grandi famiglie di farmaci antidepressivi basati sul potenziamento della trasmissione serotoninergica. Tale ipotesi ha subito, negli ultimi anni, diverse revisioni, con un sostanziale spostamento dell'attenzione dalle anomalie dei neurotrasmettitori monoamminergici alle alterazioni dei loro recettori. In uno studio condotto con la metodica SPECT (Single photon emission computerized tomography) è stata dimostrata una riduzione del legame al trasportatore della serotonina nei pazienti depressi rispetto a quelli sani. Anche per quanto riguarda la dopammina, le tecniche di mostrato un minor legame e una riduzione di densità del trasportatore. Tuttavia, poiché il cervello è composto da un'intricata rete neuronale, in cui gruppi di cellule e intere aree funzionali si mantengono in stretta connessione tra loro mediante l'azione di numerosi neurotrasmettitori, l'ipotesi attualmente più accreditata è che l'eziologia dei disturbi depressivi non dipenda tanto dalla disregolazione di un singolo sistema neurotrasmettitoriale quanto piuttosto da un disequilibrio di più sistemi correlati morfologicamente e funzionalmente tra loro.
In quest'ottica, le neuroscienze hanno indagato il ruolo che nella depressione potrebbero avere anche altri neurostrasmettitori e molecole neuroattive. Il , per esempio, un amminoacido che media la neurotrasmissione eccitatoria e che gioca un ruolo importante nei fenomeni di apprendimento e memoria, sembra essere coinvolto tramite mutazioni o polimorfismi del gene che codifica il recettore NMDA (N-metil-d-aspartato) soprattutto a livello dell'ippocampo. In particolare, si è visto che l'infusione nel cervello del fattore trofico BDNF (Brain-derived neurotrophic factor) produce un effetto antidepressivo in alcuni modelli sperimentali di depressione basati sull'analisi del comportamento di ratti posti di fronte a compiti irrisolvibili: ciò suggerisce il coinvolgimento dei fattori di crescita nervosa e quindi di un'alterata plasticità nella sintomatologia depressiva. In condizioni di stress, il gene del BDNF è represso e pertanto la sua sintesi è ridotta; di conseguenza, i neuroni dell'ippocampo vanno incontro ad atrofia e apoptosi. Studi di neuroimaging condotti su pazienti depressi mostrano una riduzione del volume delle strutture cerebrali correlate all'ippocampo, confermando l'ipotesi che in corso di depressione i neuroni ippocampali siano ridotti in numero, volume e funzionalità. Si è infine osservato che un trattamento prolungato con antidepressivi può aumentare l'espressione del BDNF e del suo recettore Trk-β nelle strutture del cervello limbico.
Un altro filone di ricerca è quello che postula la presenza di alterazioni a livello delle molecole che sono preposte alla trasduzione dei segnali dal recettore alla cellula (secondi messaggeri). La maggior parte dei recettori della serotonina è associata alla , che modula l'attivazione del secondo messaggero cAMP (adenosin-monofosfato ciclico), il quale provoca a sua volta l'attivazione cellulare. Il coinvolgimento di tale proteina nei disturbi dell'umore è stato evidenziato da diverse ricerche farmacologiche condotte su animali di laboratorio: gli antidepressivi regolano le sue differenti subunità α‚ e la loro espressione genica, in diverse zone cerebrali; anche il litio e la lamotrigina agirebbero modulando l'attività della proteina G. In generale, ai neuropeptidi viene riconosciuto un ruolo chiave nella neurobiologia della depressione.
Per quanto riguarda infine il ruolo del sistema endocrino, in differenti sottotipi di depressione è stato possibile individuare un diverso substrato neurochimico di azione del CRH (Corticotropin releasing hormone) e dell'increzione di esso correlata: nel sottotipo con melanconia si osserva infatti un incremento della secrezione centrale di CRH e pertanto un incremento del cortisolo circolante; nella depressione atipica, al contrario, si può riscontrare una riduzione dell'attività del CRH e, conseguentemente, una riduzione dei livelli di cortisolo. Due differenti situazioni endocrine sembrerebbero dunque correlate ai due distinti quadri clinici: l'una (melanconia) caratterizzata da rallentamento/agitazione psicomotoria, insonnia e diminuzione dell'appetito, l'altra (atipica) da astenia, ipersonnia e iperfagia.
Un altro neuropeptide probabilmente coinvolto nella eziopatogenesi della depressione è la , che funge da mediatrice neurobiologica della risposta al dolore; essa è coinvolta nella reazione allo stress ed è prodotta in zone del sistema nervoso centrale (SNC) che sono preposte alla regolazione dell'affettività. L'azione antagonista alla sostanza P sta cominciando a venire utilizzata, con qualche effetto positivo, nel trattamento della depressione. Infine, l'impiego dell'ormone tiroideo (che ha l'effetto di stimolare il metabolismo generale e l'attivazione psicofisiologica), come trattamento aggiuntivo all'antidepressivo nelle forme resistenti, è ormai divenuto pratica comune, a conferma del coinvolgimento di tale asse endocrino nella patologia depressiva.
Attualmente, la terapia farmacologica d'elezione per la depressione è in ogni caso quella basata su una categoria di farmaci serotoninergici che favorisce l'accumulo di neurotrasmettitore nella doccia sinaptica grazie al blocco selettivo della ricaptazione da parte del terminale presinaptico. Tali farmaci, tra cui si annoverano la fluoxetina, la paroxetina, il citalopram e altri, sono chiamati SSRI (Serotonin selective reuptake inhibitors), possiedono un'elevata specificità per il sistema serotoninergico, e sono quasi privi degli effetti collaterali fastidiosi che venivano indotti dai farmaci di vecchia generazione, come i cosiddetti 'triciclici' o gli inibitori delle monoamminossidasi (IMAO).
Va a questo punto sottolinato un fatto importante, e cioè che gli SSRI sono utilizzati anche nel trattamento di altri disturbi mentali assai diversi dalla depressione, come il disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo di panico, o la bulimia. Così, purtroppo, da un lato l'estrema diffusione della diagnosi di disturbo depressivo, anche in caso di lievi condizioni di disagio esistenziale, e dall'altro l'apparente facilità d'uso degli SSRI, anche nella medicina di base e per un'ampia gamma di disturbi, stanno portando a un'incontrollata somministrazione di massa di antidepressivi che, secondo alcune statistiche, si trovano ai primi posti tra i prodotti farmaceutici più venduti in assoluto.
Complementarmente alle ipotesi biochimiche, gli studiosi propongono oggi una teoria che chiama in causa la plasticità sinaptica indotta dall'attività delle reti neuronali. La depressione, come anche altre malattie del sistema nervoso centrale, sarebbe da ricondurre ad alterazioni morfo-funzionali delle reti di neuroni che si formano durante lo sviluppo del cervello attraverso l'interazione con l'ambiente e che svolgono la funzione di elaborazione delle informazioni cognitive ed emotive. Essendo funzioni del grado di attività della rete, la sintesi e il rilascio dei neurotrasmettitori e delle molecole di trasporto del segnale dipenderebbero anch'essi dalla qualità e dalla quantità dell'interazione con l'ambiente: per esempio, particolari esperienze in età evolutiva potrebbero indirizzare in senso disfunzionale la costruzione delle reti neuronali dell'adolescente prima e dell'adulto poi. L'azione degli antidepressivi, esercitata in un primo momento chimicamente sui neurotrasmettitori e sui trasportatori di membrana, stimolerebbe successivamente, con la prosecuzione del trattamento, la plasticità generale dell'intera rete, innescando un processo di 'autoriparazione' strutturale.
Tale ipotesi presenta purtroppo il limite di non avere a suo supporto dati sperimentali forti, ma solo evidenze indirette. Alcuni elementi derivano da ricerche svolte su bambini sottoposti a traumi (o a gravi deprivazioni) in fasi precoci dello sviluppo psicologico e neurologico, e in seguito osservati in tempi diversi, dopo il trauma e dopo l'allontanamento dall'ambiente traumatico. Altri dati provengono dagli studi di neuroimaging condotti su pazienti depressi, che mostrano una riduzione di volume della corteccia prefrontale e dell'ippocampo, verosimilmente legata a una riduzione della complessità e della connettività neuronale: in alcuni casi si è osservata una reversibilità di questo quadro morfologico in seguito a terapia antidepressiva. Esperimenti di laboratorio hanno dimostrato, avvalendosi di modelli animali e in particolare del ratto, che gli antidepressivi possono indurre un incremento della crescita neuronale nel cervello. Anche l'evidenza della latenza d'azione degli antidepressivi, che l'ipotesi monoamminergica non è stata in grado di spiegare, sembra trovare in questo processo di ristrutturazione plastica della rete neuronale una sua ragion d'essere. Infatti, i neuroni si sviluppano, crescono e si differenziano in un determinato lasso di tempo e solo dopo diverse settimane raggiungono il grado di maturazione che gli consente di partecipare alla processazione dell'informazione.
Le tecniche di neuroimaging forniscono, al momento attuale, uno strumento prezioso al fine di individuare le strutture cerebrali coinvolte nella depressione (come anche in altre patologie psichiatriche) e di valutarne, in vivo, l'evoluzione nelle diverse fasi del decorso e in relazione ai diversi trattamenti psicofarmacologici e psicoterapeutici impiegati. Ciò ha permesso anche alla psichiatria, ovvero a una branca della medicina che è stata a lungo considerata priva di basi organiche dimostrabili, di convalidare alcune delle proprie ipotesi eziopatogenetiche mediante la metodologia della moderna EBM (Evidence-based medicine). Dati significativi sono stati ottenuti con l'impiego della tomografia a emissione di positroni (PET), della tomografia computerizzata a emissione di singolo fotone (SPECT) e della risonanza magnetica nucleare funzionale (fRMN). Gli studi più recenti sono stati condotti sia sul metabolismo cerebrale sia sulla funzionalità neurorecettoriale, con l'obiettivo di identificare le aree potenzialmente compromesse in modo specifico durante la malattia. La maggior parte di queste ricerche ha evidenziato anomalie nelle strutture della corteccia prefrontale (porzione ventrolaterale), nella porzione anteriore della circonvoluzione del cingolo, nel lobo temporale, nei gangli della base, nel talamo e nell'amigdala. Tali aree risultano coinvolte nella patologia depressiva mediante un aumento relativo del metabolismo, che si riduce in maniera consistente dopo il trattamento e la risoluzione sintomatologica.
Studi comparativi, condotti con la PET su pazienti depressi che avevano risposto positivamente alla psicoterapia cognitivo-comportamentale o alla somministrazione di paroxetina, hanno mostrato che la risposta a entrambi i trattamenti era associata a variazioni metaboliche significative in alcune aree cerebrali, con una successione temporale inversa nei due gruppi: nel soggetti rispondenti alla psicoterapia si osservava una riduzione del metabolismo del glucosio a partire dalla corteccia prefrontale dorsale, ventrale e mediale verso l'ippocampo (azione top-down); nel gruppo rispondente alla paroxetina la riduzione del metabolismo glucidico avveniva secondo una progressione contraria, ovvero dall'ippocampo verso le aree corticali (azione bottom-up). A ciò corrispondeva, sul piano clinico, una diversa tipologia di risposta: a partire dai sintomi cognitivi per arrivare a quelli vegetativi e motivazionali per il gruppo in psicoterapia, il contrario per quello in trattamento con paroxetina. Si tratta evidentemente di un aspetto molto interessante e promettente della ricerca futura che riguarda i modelli di plasticità neuronale indotta da trattamenti sia funzionali (psicoterapia) sia biologici (farmaci), anche se ancora non è possibile delineare con certezza gli specifici meccanismi nervosi che caratterizzano ciascuna modalità di trattamento.
La trasmissione familiare della depressione (che corrisponde circa al 70% nelle ricerche longitudinali) ha fatto sì che si sviluppassero negli ultimi anni studi di genetica (condotti su famiglie, bambini adottivi, gemelli, e studi di linkage) che hanno messo in evidenza come i fattori ereditari svolgano un ruolo fondamentale sia nella patogenesi sia nella risposta al trattamento. I più recenti riguardano la trasmissione serotoninergica e ipotizzano che mutazioni e polimorfismi dei geni coinvolti nel funzionamento di tale sistema possano essere correlati con la risposta clinica agli antidepressivi serotoninergici. Tra questi geni rivestono particolare importanza quello che codifica il trasportatore della serotonina (5-HTT) e quello per la triptofano idrossilasi (TPH); in particolare, ad alto rischio viene considerata una variazione nella regione del primo chiamata 5-HTTLPR (Linked polymorphic region), la quale presenta le due varianti l (long) e s (short). L'allele (s) è infatti associato a una ridotta disponibilità di serotonina, e alcuni studi di genetica abbinati a fRMN hanno scoperto che i portatori sani di tale variante mostrano, a livello dell'amigdala, risposte intensificate in seguito all'esposizione a scene a contenuto emozionale negativo o a facce che esprimono paura; nella stessa situazione, i portatori della variante (l) tendono a dare invece risposte emotive attenuate.
Un'interessante possibilità prospettata da questi dati è quella indagata dalle ricerche di farmacogenetica che mirano a isolare genotipi che rispondano a specifici trattamenti. Un aspetto che spicca, in questo tipo di studi, è la particolare rilevanza assunta dall'interazione genotipo-ambiente sia per l'espressione del rischio genetico sia per lo sviluppo vero e proprio della malattia depressiva. In tal senso, più che di carico genetico, nella trasmissione della depressione è corretto parlare di una vulnerabilità genetica, la quale può trovare o meno la propria espressione in relazione alla presenza o all'assenza di stimoli ambientali stressanti. Studi recenti ispirati al modello bio-psico-sociale, benché molto dibattuti, indicano infatti che anche i soggetti portatori dell'allele ad alto rischio possono non sviluppare mai una depressione, a meno che non vengano sottoposti a eventi stressanti o a traumi, in particolare nella prima infanzia. Ciò ci riconduce in qualche modo anche all'ipotesi della plasticità e alla teoria della rete neuronale: importanti avvenimenti ambientali verificatisi nelle prime fasi della vita in soggetti geneticamente predisposti potrebbero infatti incidere sullo sviluppo morfofunzionale del SNC (molto delicato in questa fase), determinando anomalie strutturali o contingenti che, a loro volta, costituirebbero un ulteriore fattore di vulnerabilità per lo sviluppo successivo della malattia depressiva. Questo aspetto 'complesso' della eziopatogenesi della depressione sta attualmente stimolando tutta una serie di studi volti a ricercarne un'utilità nel campo della terapia.
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