deresponsabilizzazione
deresponsabilizzazióne s. f. – Comportamento diffuso nella società contemporanea che porta a evitare l’assunzione di responsabilità e a tutelare solo la propria convenienza e il proprio interesse come se fossero un diritto, senza tener conto di un bene collettivo. Si vanno perdendo i punti di riferimento, il senso della storia e del passato, in una società dove ognuno rivendica solo i propri diritti dimenticando i doveri che il vivere sociale prevede, in una sorta di totale irresponsabilità. Si propugna un modello di interesse individuale rispetto a quello collettivo, un predominio del presente piuttosto che una preoccupazione del futuro, uno smarrimento di valori che vadano al di là dell’appagamento degli interessi individuali. Quel che sembra avere importanza è la tutela di sé e dei privilegi raggiunti, non importa con quali mezzi, né se a scapito della comunità, della crescita sociale e di un bene condiviso. Un riflesso del disinteresse rispetto al futuro è rappresentato in modo chiaro dall’emergenza ecologica, dall’interrogativo ignorato di che mondo lasciare a chi verrà dopo di noi. La stessa istituzione scolastica sembra avere rinunciato al suo ruolo primario di formazione degli individui, di laboratorio culturale inter- e intra-generazionale, di luogo dove crescere, esercitare il proprio senso di responsabilità e apprendere la cultura che forma l’identità di un popolo e la sua storia. Invece di essere consapevole e orgogliosa del suo ruolo nella formazione degli adulti di domani, la scuola tutela i ragazzi da ogni tipo di richiesta che possa in qualche modo configurarsi come traumatica. Anche rispetto alla salute è in atto un processo di d.: la prospettiva è negare la malattia e l’invecchiamento. Il termine salute, con tutte le sue implicazioni, è sostituito dal termine benessere, concetto che non evoca sofferenze né responsabilità e che consente all’individuo di eludere il senso del suo destino umano. Ovunque nella società attuale vi è una riduzione progressiva dei legami affettivi che prevedono responsabilità reciproche e quindi, a volte, rinunce, e diventa sempre più difficile dare alla relazione con i nostri simili un valore che non sia riconducibile all’interesse personale o alla paura della solitudine. Anche il legame tra genitori e figli, educatori e bambini, ha perso il suo carattere normativo nella falsa convinzione che l’esercizio della norma sia antitetico alla profusione dell’amore, e che dare limiti e divieti possa rappresentare una stonatura nella relazione adulto/bambino. La definizione delle regole e delle eventuali restrizioni è così diventata una contrattazione aperta alle parti: se una regola deve esserci, è una regola negoziata, non saldata a un principio o a un valore, niente più che un orientamento proveniente dagli adulti, una proposta valida nel qui e ora, adattabile nei tempi e nei modi alle circostanze. È come se la norma non dovesse necessariamente avere una ragione d’essere più antica e non traesse nutrimento da qualche istanza di tipo civile o culturale e, potendo alleggerirsi del suo connotato universale, si fosse particolareggiata, specializzata, per rispondere alle esigenze personali dei suoi utenti. Utenti che, contrariamente a quanto si può immaginare, non sono solo i bambini o gli adolescenti ma anche gli adulti, i quali evitano la conflittualità insita nei legami intergenerazionali e la loro messa in discussione da parte dei giovani cui dovrebbero cedere il posto. Un adulto che si allea con il figlio nella discussione dei limiti di cui dovrebbe invece essere garante, con il pretesto di aderire ai desideri reali o presunti del figlio e con l’alibi di essergli alleato e di non nuocergli in alcun modo, ha scelto di evitare la responsabilità insita nella filiazione e di rinunciare all’autorità condannando il figlio alla solitudine più terribile, quella di non avere nemmeno un punto di riferimento, qualcuno con il quale confrontarsi e scontrarsi esprimendo anche un senso di rivalità, sentimento inevitabile per accedere alla condizione di adulto. L’infanzia è infatti il tempo in cui l’individuo, all’interno di relazioni di forte dipendenza nelle quali apprende il senso della rinuncia e del limite, costruisce la propria individualità e crea le basi per la propria emancipazione. Per fare questo ha però bisogno di incontrare sul suo percorso individui in carne e ossa che si frappongano come ostacoli alla realizzazione dei suoi desideri e che quindi sia importante ‘levarsi di torno’. Non si può pensare che la crescita sia un percorso senza sofferenza né conflitti. I genitori allevano un figlio per perderlo, la loro autentica responsabilità è farlo crescere in modo tale che egli maturi le competenze per separarsi dalla famiglia di origine e accedere in modo responsabile alla realtà esterna. La d. sembra essere un modo per evitare i conflitti intergenerazionali, l’assunzione di responsabilità interpersonali e civili, la trasmissione di valori e identità tra una generazione e l’altra, la fatica che il vivere comporta. Il paradosso è che se si riesce a vivere nell’illusione di un’eterna giovinezza, sempre più svincolati gli uni dagli altri, si sta però formando una nuova dipendenza, questa volta dagli oggetti e dal mercato, le cui regole impongono l’esaltazione delle merci e l’unicità di chi le possiede.