DERIVATI FINANZIARI.
– Significato e uso dei derivati finanziari. La gestione dei derivati in Italia
Significato e uso dei derivati finanziari. – I d. f. sono contratti la cui promessa di prestazione monetaria deriva dall’andamento del prezzo di un’altra attività (detta sottostante) costituita da: un’attività finanziaria (strumento finanziario, tasso di interesse, valuta), un’attività reale (oro, petrolio, legname, commodity derivatives), un evento complesso (solvibilità di un insieme di debitori, anche Stati), un evento atmosferico (weather derivatives). I derivati non raccolgono risorse sul mercato in cambio di un rendimento (come azioni e obbligazioni), ma rappresentano una forma di gestione finanziaria per la copertura o il lucro rispetto al rischio (volatilità di cambi e tassi di interesse). La varietà delle tipologie, utilizzate su mercati regolamentati o fuori borsa (OTC, Over The Counter), l’elasticità delle caratteristiche contrattuali, i bassi costi di transazione hanno favorito tuttavia sui mercati una diffusione crescente e incontrollata delle forme più rischiose di derivati. Con tali strumenti gli operatori della finanza internazionale hanno potuto scaricare le conseguenze della loro gestione sconsiderata sul settore produttivo imprenditoriale, sui bilanci pubblici e, di fatto, sulla comunità internazionale. Questo comportamento è stato all’origine della grande crisi finanziaria esplosa il 15 settembre 2008 con il fallimento della banca d’affari Lehman Brothers. Le conseguenze globali dell’uso dei d. f. sono dovute alla loro capacità di generare il cosiddetto effetto leva: i derivati consentono infatti di essere utilizzati anche con un impiego contenuto di capitali perché una posizione contrattuale può essere aperta con l’acquisto di una piccola quota (dal 2% al 7%) del valore complessivo dell’attività sottostante, moltiplicando gli effetti finanziari che possono diventare sistemici.
La gestione dei derivati in Italia. – Utilizzati inizialmente come strumenti utili a mitigare rischi di cambio e di tasso di interesse del mercato, i d. f. si sono rivelati pericolosissimi nella gestione finanziaria pubblica italiana nel corso della crisi degli ultimi anni. Il ricorso ai derivati in Italia è stato regolamentato più volte nel corso del tempo: autorizzati dalla l. 22 dic. 1984 nr. 887 (legge finanziaria 1985) per ristrutturare i debiti esteri, successivamente ne fu consentito l’uso anche per la ristrutturazione di prestiti in lire e, in generale, del debito pubblico, sia interno sia estero (decreto del ministero del Tesoro 10 nov. 1995; l. 23 dic. 1996 nr. 662; d. legisl. 3 febbr. 1993 nr. 29; d. legisl. 30 marzo nr. 165; Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di debito pubblico, d.p.r. 30 dic. 2003 nr. 398; decreto del ministro dell’Economia e delle Finanze del 22 apr. 2005, decreto cornice per il 2005; d.l. 25 giugno 2008 nr. 112 come da ultimo modificato dalla legge di stabilità per il 2014). Nell’intenzione del legislatore, la gestione dei derivati e degli altrettanto importanti contratti quadro ISDA (International Swaps and Derivatives Association) aveva la funzione di perseguire l’interesse pubblico, contribuendo a ristrutturare il debito e ridurre l’impatto di bruschi rialzi della spesa per interessi, grazie anche a specifiche cautele: non era infatti possibile stipularli con controparti che avessero un livello di affidabilità, sancito dalle società di rating, inferiore a quello dello stesso Stato italiano. L’uso dei d. f. mirava a rimodulare i flussi d’interesse per contenere il deficit soprattutto attraverso l’allungamento delle scadenze del debito (la cosiddetta duration) che, in presenza di elevati livelli di debito pubblico, consente di far fronte ai costi di eventuali impennate dei tassi di interesse ‘spalmandoli’ su un periodo più lungo. Questo meccanismo di protezione ha una sua logica in fasi in cui i tassi di interesse sono a livelli bassissimi e si ipotizza il rischio di un loro rialzo improvviso.
Tuttavia, le caratteristiche della crisi del 2007, contraddistinta da un andamento dei tassi di mercato di segno opposto a quello previsto, hanno fatto emergere quanto fosse erronea tale valutazione spiazzando tutte le previsioni. Con la crisi si è creato un meccanismo che ha quasi prostrato finanziariamente l’Italia: l’aumento delle quotazioni dei d. f. (in particolare i CDS, Credit Default Swaps), ha infatti provocato un aumento del costo sostenuto dallo Stato per tutelarsi dei rischi di mercato (soltanto nel 2013 la spesa per interessi collegata ai d. f. è stata di circa 3 miliardi di euro); ciò a sua volta ha innescato un peggioramento della percezione degli operatori finanziari sul rischio di credito dello Stato italiano attivando una spirale perversa che ha complicato lo stesso collocamento dei titoli del debito pubblico presso le banche (sovraesposte con i d. f.) e ha spinto ulteriormente al rialzo le quotazioni dei CDS. Attraverso difficili equilibri finanziari (rimodulazione delle scadenze, ricomposizione dei portafogli ecc.) l’Italia ha evitato il rischio default e posto nuovi vincoli, come per es.: la sospensione (legge finanziaria per il 2008) dell’attività in derivati di regioni ed enti locali e la fissazione a trent’anni della durata massima per tutte le loro forme di indebitamento; l’esclusione ai fini della procedura dei disavanzi eccessivi della spesa per interessi del saldo dei flussi derivanti da swaps (secondo il nuovo schema contabile armonizzato a livello europeo SEC 2010). Si deve osservare che i derivati non rappresentano un rischio in sé, ma possono portare a perdite potenziali e al pericolo di insolvenza per i soggetti (come l’Italia) che risultano molto esposti quando si ha una chiusura anticipata dei contratti. Tale rischio ha imposto al Tesoro costosi interventi di rinegoziazione con le banche d’affari internazionali. Alla fine del 2014, la gestione del debito statale italiano collegato ai derivati ammontava a circa 159,6 miliardi di euro di valore (detto nozionale). La scarsa trasparenza con cui sono stati utilizzati questi strumenti nella gestione della finanza statale alimenta in Italia ancora dubbi e perplessità sull’entità delle conseguenze sociali, economiche e finanziarie della crisi legata ai derivati.