derrata
La voce ricorre tre volte nel Fiore. Nel significato letterale, ancor oggi comune, di " merce " per l'alimentazione, " prodotto agricolo ", è usata in CXVIII 7 Ancor borghesi sopra i cavalieri / son oggi tutti quanti, venditori / di lor derrate e atterminatori, a proposito dell'iniziativa commerciale dei borghesi sui frutti della proprietà fondiaria (ancora in larga parte in mani aristocratiche). In LVIII 3 Le giovane e le vecchie e le mezzane / son tutte quante a prender sì 'incarnate, / che nessun puote aver di lor derrate / per cortesia, tanto son villane, connota le prestazioni amorose della donna, degradate a valore economico di scambio (cfr. l'uso analogo di Francesco da Barberino " Vendi le tue cose: ma non tua persona, / che, s'hai bellezza alcuna, / non la voler contar nelle derrate ", Reggimento, ediz. Sansone, 203).
Infine in CCIX 8 I' vo' ben che ciaschedun caccia / ched i' te pagherò di tue derrate, l'espressione vale " ti pagherò della tua merce ", " ti darò quello che ti meriti " (cfr. in analogo senso figurato " ne harebbero hauto de' Panciatichi quella derrata che loro havessino voluto ", citato dal Tommaseo). Il vocabolo fa parte del largo filone di terminologia economica del poemetto.