Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Descartes è un filosofo tutto speciale, la cui biografia è intimamente legata alla sua filosofia ed è significativa per la teoria: un’esistenza sotto il segno della ricerca di un asilo tranquillo e di una dimora tutta sua in cui consacrarsi e concentrarsi sull’esecuzione del progetto ambizioso della rifondazione del sapere; una filosofia sotto il segno della ricerca della verità che, nel tempo, si scrive come Mathesis universalis, fisica di un mondo copernicano, saggi di scienza, meditazioni sulla filosofia prima, schema di enciclopedia, dialogo di morale e studio di medicina, nell’incompletezza dei trattati mai terminati, nella frammentarietà dei testi di giovinezza come nella realizzazione definitiva dei libri della maturità. Descartes è all’origine della modernità: fin dall’inizio filosofi e storici della filosofia, scienziati e storici della scienza se ne sono occupati e se ne occupano ancora, come se il filosofo del metodo fosse il primo filosofo moderno, se non un vero e proprio oggetto filosofico, a partire dal quale pensare e fare la filosofia e la scienza, allora, ai suoi tempi, ma anche ora.
La filosofia e la “vita ritirata” del filosofo
“Tutta la filosofia è come un albero, le cui radici sono la metafisica, il tronco è la fisica, e i rami che escono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che si riducono a tre principali, e cioè la medicina, la meccanica e la morale, la più alta e la più perfetta morale che, presupponendo una conoscenza intera delle altre scienze, è l’ultimo grado della saggezza”.
Così scriveva Descartes all’abate Claude Picot nella lettera che funge da prefazione all’edizione francese dei Principes (1647), consegnando all’amico una delle ultime immagini del suo pensiero: quella che poneva a esergo della sua opera dopo tanti studi e tanti libri, quando ormai, soddisfatto della solidità e dell’utilità delle sue ricerche, si sentiva di poterne presentare i risultati sotto forma di una filosofia “vera”, rigorosamente dedotta “dalle cause prime”, coronandola con il nome antico di “saggezza”.
Certo, la filosofia cartesiana è più ricca e generosa dello schema che la rappresenta ed è meno rigida del sistema che la struttura. Ma è proprio attraverso un’immagine così tradizionale come quella dell’albero, simbolo della coerenza metodica del sapere, che Descartes riassume il lavoro filosofico di una vita condotto costantemente “secondo la regola della ragione”.
È la forza della sua filosofia, una filosofia di chiarezza ed evidenza, che risiede essenzialmente in quella dichiarazione della responsabilità totale della ragione la quale, in prima persona ma senza arroganza, delimita il suo campo d’indagine per affermare i diritti inalienabili della ricerca e difende il valore essenziale della conoscenza umana fondata sulle proprie operazioni e regolata dalle proprie risorse, certa nella determinazione della verità che istaura e utile negli obiettivi tecnici che autorizza e legittima “per renderci come signori e possessori della natura”. Per Descartes, infatti, la mente umana non è uno specchio piatto, una cera molle o un foglio bianco. È innanzi tutto libertà, un valore e un bene, anzi “il bene supremo”: un potere di intelligenza, di comprensione, di costruzione e di trasformazione che comanda l’impegno della volontà e disciplina l’esercizio del lume naturale, alimentando la speranza di un dominio progressivo della natura attraverso la scienza e rinviando a una nuova definizione del ruolo e dello statuto della filosofia. È la scienza che impone il riferimento razionale delle immagini confuse dei sensi e dell’immaginazione alle idee chiare dell’intelletto e contrae la molteplicità dei fenomeni nelle serie ordinate delle “catene semplici e facili” delle conoscenze certe; è la filosofia che si appella alla potenza fondatrice del soggetto che dice Je pense per garantire il valore e la consistenza della conoscenza vera e decidere dell’insignificanza di ogni altra esperienza che resti anteriore o esteriore alla ragione stessa.
Ed è l’originalità del suo pensiero, che risiede essenzialmente in quelle istanze di ordine che il metodo prescrive come regole, che la scienza applica come strategie diverse della ricerca e che la filosofia prima sovradetermina come esigenza dell’inizio radicale e come scoperta dell’origine, rimandando comunque alla presenza indefettibile e alla vigilanza continua del soggetto individuale che pensa. Ma che risiede anche in quella lealtà all’esperienza filosofica che non nasconde i suoi limiti e sa riconoscere la complessità del sensibile non come ostacolo o come scacco, ma come dovere di un nuovo inizio della filosofia e opportunità di una nuova riflessione sull’ordine più articolato di una conoscenza che avanzi verso l’uomo intero con sobrietà e senza umiliazione, per cogliere in tutta la sua ricchezza l’unità della persona “grazie al ragionamento e all’esperienza che conferma la ragione”.
Del resto, dal primo argomento di un’opera da redigere – “l’histoire de [mon] esprit”, così il ricordo di Guez de Balzac – fino a quello di un dialogo da terminare – La recherche de la vérité par la lumière naturelle, così la denominazione dell’ultimo testo –, i titoli stessi degli scritti di Descartes enunciano la sua filosofia come la storia personale di uno spirito alla ricerca della verità e, insieme, come la trama dello sviluppo teorico di un progetto unitario e costante di ricerca, di scoperta, di costituzione e di trasmissione della verità.
Una biografia significativa, quella di Descartes, per la storia della filosofia cui ha offerto le vicende interessanti di una formazione intellettuale alla filosofia e i gesti decisivi di una posizione nella filosofia, oltre che il vissuto concreto di un uomo che è diventato anche esperienza teoretica di un filosofo.
Descartes è un uomo del suo tempo cosmopolita per temperamento e per filosofia, che ha scelto la libertà da ogni legame come condizione di vita e “la ricerca della verità” come impegno del pensiero, coltivando il progetto ambizioso di una riforma radicale della filosofia, vera nei suoi principi, solida nelle sue dimostrazioni, utile nei suoi risultati. L’ha portato avanti con la pazienza di una condotta sempre discreta, ma anche con la fermezza di una volontà indefettibile, tra successi e delusioni, entusiasmi e critiche, amicizie e ostilità, talora mascherato (Larvatus prodeo, secondo la sua celebre formula di giovinezza), talora nascosto ai più (Bene vixit, bene qui latuit, secondo il motto di Ovidio diventato il suo emblema di vita) ma nella viva familiarità e nell’aperta confidenza con tanti amici (un fort honnête homme et de bonne compagnie, nel ricordo di Saumaise), talora in guerra aperta (à la Bradamante et Roger, secondo la sua espressione battagliera) ma più spesso sereno e contento (tra la “satisfaction intérieure” e il “contentement intime”, secondo il suo lessico della felicità), perseguendo l’ideale di un buon uso della ragione e di un retto esercizio del libero arbitrio: condizioni della stima legittima di sé, ma anche di quella degli altri e dell’apprezzamento adeguato del valore delle cose.
La sua vita “dolce e innocente” è tutta in queste decisioni pratiche che sono anche scelte teoriche: dall’educazione umanistica dell’allievo dei gesuiti, deluso da una cultura verbosa della scuola ma già affascinato dalle certezze delle dimostrazioni matematiche; agli anni di formazione “nel gran libro del mondo”, spettatore della commedia umana ma già impegnato nella ricerca di un chiaro orientamento nelle proprie azioni; all’incontro decisivo a Breda (1618) con Isaac Beeckman (1588-1637), quando, arruolato nell’esercito di Maurizio di Nassau, scopre il piacere e le risorse di una scienza fisico-meccanica della natura e intravede il profondo legame tra tutte le conoscenze; all’esperienza entusiasmante della rivelazione onirica “dei fondamenti di una scienza mirabile” che, una notte d’autunno, trasforma il giovane uomo di spada nel filosofo dell’ordine razionale e lo consacra alla ricerca della verità. Allora, scrive Descartes, “presi la risoluzione di studiare in me stesso, e di impiegare tutte le forze del mio spirito a scegliere le strade che dovevo seguire”, enfermé seul sans un poêle. Se ne ricorderà Durs Grünbein nei versi del suo poema Vom Schnee (2003, trad. it. 2005).
René Descartes
Discorso sul metodo, Parte II
Mi trovavo allora in Germania dove mi avevano portato le guerre che, ancora oggi, non sono finite; e mentre stavo tornando verso l’eserrvito dall’incoronazione dell’Imperatore, l’inizio dell’inverno mi costrinse a fermarmi in un alloggiamento dove, non potendo intrattenere alcuna conversazione che mi distraesse e, d’altra parte, non avendo per fortuna alcuna preoccupazione né passione che mi tutrbasseo, restavo tutto il giorno rinchiuso da solo in una stanza riscaldata da una stufa, nella quale avevo tutto l’agio d’immergermi nei miei pensieri.
Durs Grünbein
Della neve
Vom Schnee
«Quest’era il contenuto del mio sogno.
Io chiuso in una cella. Scintille intorno, e a un tratto
Vedo chgiare cose, come certo le vede il Creatore:
dall’alto, nel chiarore di una fiamma.
Così mi ero assopito». «Il risveglio, Monsieur, non c’è mai stato».
«Com’è possibile? Ero seduto al tavolo
con un libro davanti, un libro aperto. Era un vocabolario.
Li conosco i miei libri. Conteneva l’intero lessico dall’a alla zeta.
«Rammentate, Monsieur: il Dictionnaire diletto
lo lasciaste a Parigi. Qui con voi c’è la fisica ed Euclide».
«Io non chiedo perché, quando domandano
i bambini un perché, rispondono sempre perché sì.
Inoltre però c’era il libro del mio Corpus Poetarum.
Non era un sogno. Io l’aprivo e leggevo questo verso:
“Dove porta la via della mia vita?”
Poi c’era un uomo e lo sentivo dire:
“Est et non”. Mentre cerco il noto passo, ecco che il dizionario mi è sparito».
«Monsieur, siete in Germania, lontano da Parigi».
«Ti sbagli. C’era sotto il tavolino. E’ che la citazione
non c’era più. Cassata dalla stampa».
«E l’uomo?». «Dentro qui, dove stai tu»
«Niente libro né uomo». «Gillot, non era un sogno».
D. Grünbein, Vom Schnee, Torino, Einaudi, 2005
Era il 10 novembre 1619, data epocale nella vita di Descartes. “La ricerca della verità” diventa missione che, nella teoria, prende la forma concreta di una revisione generale e radicale del sapere e che, nella biografia, si configura sempre più nettamente come impegno continuo dell’uomo a trovarne e a consolidarne le condizioni nella libertà, nell’anonimato, nella tranquillità e nella solitudine di una “vita ritirata”: le condizioni, cioè, della libertà nella sua radicale originalità e dell’esercizio pacato della virtù nella sua totale autonomia.
Così, si può scrivere la biografia intellettuale di Descartes come il racconto dell’esistenza di un uomo alla ricerca di un asilo tranquillo e di una dimora tutta sua in cui consacrarsi e concentrarsi sull’esecuzione del progetto ambizioso della rifondazione di tutto il sapere tra lo studio, la meditazione e la scrittura, ma anche le visite e la conversazione con gli amici, l’espansione dell’esperienza e “la soddisfazione dei sensi”. Si era aperta in Germania, nella fredda solitudine di “una stanza ben riscaldata”, si prolunga nelle fasi diverse di “una vita ritirata e solitaria” (1629-1649) nelle città vive e animate dell’Olanda del Secolo d’oro come nei suoi “deserti” più tranquilli che si offrono spontaneamente al gusto e alla teoria di “una libertà totale”, e si chiude in Svezia (1649-1650), nella solitudine glaciale del palazzo della regina Cristina, allorché l’esercizio costante di una libertà esemplare si piega ai doveri del magistero della filosofia e i piaceri della “vita ritirata” cedono agli obblighi della corte. Il genio di Descartes è finalmente riconosciuto. “Ma io non sono qui nel mio elemento – confessa – e non desidero che la tranquillità e il riposo”.
Descartes muore all’alba dell’11 febbraio dopo una una polmonite contratta nel terribile inverno della capitale. Secondo il suo biografo Adrien Baillet (1649-1706), il filosofo si spegne “senza turbamento e senza inquietudine”, manifestando ormai solo con lo sguardo che moriva “contento della vita e degli uomini e confidente nella bontà di Dio”: ultima professione dei principi della sua filosofia ed estrema testimonianza di una vita vissuta selon la règle de la raison. Del resto, “uno dei punti della mia morale – aveva scritto – è di amare la vita senza temere la morte”.
La filosofia “secondo l’ordine della ragione”
La storia della filosofia cartesiana è nota. Forte e discussa è stata la celebrità di Descartes tra gli intellettuali del suo tempo, ampia la sua produzione, sollecitata di volta in volta da amici e studiosi – Guez de Balzac, Marin Mersenne, Constantijn Huygens, Pierre Chanut tra gli altri –, non meno che da personalità in vista e di potere come Elisabetta di Boemia o la regina Cristina di Svezia, e variata consapevolmente nella lingua e nei generi anche in relazione al pubblico cui era destinata: i filosofi, i teologi e gli scienziati, ma anche i curiosi e gli amatori di scienza, le donne, gli artigiani e i tecnici che cominciavano a occupare una posizione di rilievo nella nuova République des Lettres.
La sua opera, notissima e celebrata nella scienza e nella filosofia tanto da datare l’inizio stesso della filosofia moderna, è tuttavia molto meno sistematica e più articolata della sua stilizzazione nell’immagine storiografica tradizionale di un razionalismo chiuso, autoritario e riduttivo: fatta di progetti non realizzati, di testi incompiuti, di libri dalla struttura complessa e dalla configurazione originale. Si pensi all’unità editoriale del Discours de la Méthode e dei tre Essais di scienza, e all’edizione delle Meditationes, in cui le pagine di obiezioni e risposte che accompagnano il testo mettono in scena i protagonisti della filosofia del tempo e li fanno discutere tra di loro in una sorta di blog avant la lettre o di forum seicentesco di metafisica.
René Descartes
Descartes a Balzac, Amsterdam, 5 maggio 1631
Lettere
Passeggio tutti i giorni tra la confusione di una gran folla con la stessa calma e libertà dei vostri viali e non guardo gli uomini che vedo diversamente dagli alberi che s’incontrano nei vostri boschi o dagli animali che vi brucano. Il rumore stesso delle loro attività affannose non interrompe le mie fantasticherie più di quello di un ruscello. E se faccio qualche riflessione sulle loro azioni, ne traggo lo stesso vostro piacere alla vista dei contadini che coltivano la campagna: perché vedo che tutto il loro lavoro serve ad abbellire il luogo della mia dimora e a far sì che non vi manchi nulla. […] Quale altro luogo scegliere in tutto il resto del mondo in cui si possa godere di una libertà così intera, in cui si possa dormire con meno inquietudine, in cui ci siano tante armate vigili pronte a proteggerci, in cui i veleni, le calunnie e i tradimenti siano meno conosciuti e in cui sia restata più viva l’innocenza dei nostri avi?
R. Descartes, Tutte le lettere (1619-1650), a cura di G. Belgioioso, Milano, Bompiani, 2005
René Descartes
Il mondo o trattato della luce
Il mondo, Cap. VI
Vorrei proporre una parte [del mio discorso] sotto la forma dell’invenzione di una favola attraverso la quale spero che la verità traspaia comunque […]. Permettete dunque al vostro pensiero di uscire per un po’ da questo Mondo per venire a vederne un altro nuovo che farò nascere alla sua presenza negli spazi immaginari. […] Dopo esservi fermati in qualche luogo, supponiamo che Dio crei tutt’attorno a noi tanta materia che, dovunque la nostra immaginazione si estenda, non si trovi alcun luogo che sia vuoto. […] Supponiamo inoltre che Dio divida la materia in più parti, le une più grandi, le altre più piccole, le une di una tale figura, le altre di un’altra, come potremo immaginare a piacere”. Così, in virtù delle leggi ordinarie della natura, “le parti di questo caos si disporrebbero in ordine e assumerebbero la forma di un Mondo perfetto, nel quale non si potrà vedere solo la luce, ma anche tutte le altre cose, generali e particolari, che appaiono nel nostro vero Mondo.
René Descartes
Traité de l’homme
Suppongo che il corpo umano non sia che una statua o macchina di terra, che Dio forma in modo tale da renderla il più possibile simile a noi: non solo le dà il colore e la figura esterna di tutte le nostre membra, ma le mette dentro anche tutti i pezzi che sono necessari perché essa cammini, mangi, respiri, perché imiti, insomma, tutte le funzioni che si possono immaginare procedere dalla sola materia e dalla sola disposizione degli organi. Vediamo degli orologi, delle fontane artificiali, dei mulini e altre macchine simili che, pur essendo fatte dall’uomo, hanno la forza di muoversi da sole in diversi modi: mi sembra allora che non potrei immaginare tanti movimenti diversi [nella macchina del corpo umano], che suppongo fatta da Dio, che anche voi non possiate immaginare che ce ne possano essere tanti altri.
Da giovane, Descartes lavora su tante materie – la fisica, la meccanica, l’idraulica, la geometria, il metodo, la metafisica – e redige prevalentemente per sé numerosi quaderni di note e appunti. Scrive un Compendium Musicæ (31 dicembre 1618); compone un “piccolo trattato di metafisica” (1629), andato perduto; elabora un testo di metodo incompiuto, le Regulæ ad directionem ingenii (1628-1629?), testo difficile dalla scrittura stratificata, ma testo fondamentale di un genere del tutto sperimentale tra il diario di lavoro, l’enunciazione della teoria dell’ordine e il cimento con la tradizione. Nella maturità filosofica, scandita anch’essa da una produzione varia e articolata, tra ideazioni di testi mai composti, montaggi di stralci, redazioni incompiute e finalmente terminate, caratterizzate comunque da una profonda originalità di scrittura e di genere – discorsi, saggi, meditazioni –, Descartes compone le opere che l’hanno reso celebre: dal trattato sulla luce Le Monde (1632-1634; edizione postuma 1664), ampia esposizione di una fisica meccanica e di una cosmogonia copernicana che Descartes, tuttavia, preferisce non stampare, sgomento e meravigliato per la condanna di Galilei (1633); al Traité de l’Homme (edizione postuma francese 1642, latina 1664), continuazione metodica di quello precedente di cui estende la “grande meccanica” della natura alla spiegazione del corpo umano, passibile, dunque, di essere conosciuto razionalmente attraverso i soli principi della fisica, l’estensione e il movimento locale; al Discours de la Méthode e agli Essais (1637), destinati il primo a tutti coloro che fossero in grado di fare uso della sola ragione naturale e sapessero fare a meno “dei libri antichi”, i secondi a scienziati ede artigiani; alle Meditationes de prima philosophia (1641, 1642) dedicate al Decano e ai Dottori della Sorbona e scritte in latino per il lettore attento, disposto a seguire l’autore nell’itinerario esemplare di una mente pura alla ricerca della verità e dei suoi fondamenti; alla summa filosofica latina dei Principia Philosophiæ (1643, 1647), dedicati ad Elisabetta di Boemia, che Descartes scrive “da filosofo” per coloro, studenti o professori, che avessero voluto imparare o insegnare la sua filosofia. Questi ultimi si chiudono ribadendo l’esigenza di un’applicazione anche pratica delle conoscenze umane e di una morale intesa come medicina della mente, cui è consacrato il Traité des Passions (1649), che, assumendo le passioni umane come fenomeno dell’unione dell’anima e del corpo, salda l’enciclopedia cartesiana e raccoglie dall’albero della filosofia i suoi frutti più maturi.
René Descartes
Regole
Discorso sul metodo, Parte II, vol. I
La prima [regola] era di non accogliere mai nulla per vero che non conoscessi esser tale con evidenza: di evitare, cioè, accuratamente la precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei miei giudizi nulla di più di quello che si presentava così chiaramente e distintamente alla mia intelligenza da escludere ogni possibilità di dubbio. La seconda era di dividere ogni problema preso a studiare in tante parti minori, quante fosse possibile e necessario per meglio risolverlo. La terza, di condurre con ordine i miei pensieri, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscere, per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla conoscenza dei più complessi; e supponendo un ordine anche tra quelli di cui gli uni non precedono naturalmente gli altri.’ultima, di far dovunque enumerazioni così complete e revisioni così generali da esser sicuro di non aver omesso nulla.
R. Descartes, Opere, a cura di E. Garin, Roma-Bari, Laterza, 1967
Mathesis universalis
“È un vizio comune dei mortali trovare più belle le cose che sembrano più difficili”, ma la filosofia che cerca la verità bandisce lo stupore per giungere a quella trasparenza dell’idea che il metodo razionale costruisce e che “gli occhi della mente” colgono nell’evidenza. Così Descartes affermava nelle Regulæ. Ma sarà anche la realizzazione di tutta la sua filosofia, che è una filosofia di chiarezza, fondata unicamente sulle risorse di una ragione ordinata e operosa, e sostenuta dagli atti di una volontà libera.
Fin dall’inizio, Descartes si ribella, infatti, al consenso della moltitudine, al peso della tradizione, all’autorità dei maestri e all’importanza dei libri – “carta piena d’inchiostro”, aveva scritto nelle note di giovinezza –, e si dichiara apertamente contro gli Antichi, elaborando la teoria “cartesianissima” del valore essenziale dell’invenzione contro la dottrina dell’imitazione. Così, con un rifiuto netto dell’ontologia classica e di tutte le sue istanze delle cause prime e dei fini ultimi, ma anche in un’opposizione radicale al naturalismo rinascimentale e ai suoi richiami al senso delle cose, fin dall’inizio Descartes abbandona il primato dell’essere o della natura, per affermare perentoriamente quello della ragione umana, che definisce criterio universale di verità, operatore unico di evidenza e sanzione fondamentale di ogni scienza.
Giacché, scrive Descartes, “tutta la scienza è una conoscenza certa ed evidente” (Regula I): una nei suoi diversi oggetti, e generale nella sua struttura formale. Testo di posizione e di enunciazione di una filosofia del “lume naturale della ragione”, secondo quel lessico della luce che cararatterizza la “potenza metaforica” di Descartes, le Regulæ lo scrivono come una definizione formale ma anche come un imperativo pratico, appellandosi alle operazioni proprie e legittime dell’intelletto: l’intuizione che coglie gli elementi più semplici nell’evidenza istantanea dell’idea chiara e distinta; la deduzione che lega le conoscenze vere nell’evidenza prolungata delle connessioni necessarie; l’induzione (o enumerazione) che tiene la molteplicità e la varietà confusa dei casi dell’esperienza nell’evidenza e nell’unità della classe di congruenza concettuale.
In virtù delle operazioni dell’intelletto, del tutto naturali e disponibili alla mente umana anche senza cultura di libri, la ragione detta le condizioni della visibilità della verità, controlla e conferma il vero, distinguendolo da ogni altra modalità e non ammettendo nessun altro grado intermedio tra la certezza assoluta e l’ignoranza: il falso, ma anche l’incerto e il probabile, che il dubbio assimila al falso. Il rapporto del dubbio con l’evidenza è ormai costitutivo della ricerca filosofica, configurandosi come dubbio metodico al servizio della verità. Ed è ancora la ragione che elabora le strategie di scoperta, di istituzione e di verifica della verità stessa, ne prescrive i limiti e ne disegna le figure – la serie, la connessione e la catena –, definendo così i termini di una teoria della Mathesis universalis come “scienza universale dell’ordine e della misura”, una e universale nella sua applicazione, ma plurale nelle sue tecniche di riduzione all’ordine. La Mathesis universalis procede infatti per “catene di ragioni” istituite secondo le regole di un metodo industrioso che realizza la discorsività della scienza. Esemplari le matematiche che, ben visibili “allo sguardo della mente” nel loro oggetto senza tempo e necessarie nelle loro dimostrazioni, sono esenti dal falso e dall’incerto, e resistono alle ragioni naturali del dubbio.
René Descartes
Difendendosi dalla falsità
Meditazioni metafisiche
Io supporrò, che vi sia, non già un vero Dio, che è fonte sovrana di verità, ma un certo cattivo genio (genium aliquem malignum), non meno astuto e ingannatore che possente, che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo, l’aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che illusioni e inganni, di cui egli si serve per sorprendere la mia credulità. Considererò me stesso come privo affatto di mani, di occhi, di carne, di sangue, come non avente alcun senso, pur credendo falsamente di aver tutte queste cose. Io resterò ostinatamente attaccato a questo pensiero; se, con questo mezzo, non è in mio potere di pervenire alla conoscenza di verità alcuna, almeno è in mio potere di sospendere il mio giudizio. Ecco perché baderò accuratamente a non accogliere alcuna falsità, e preparerò così bene il mio spirito a tutte le astuzie di questo grande ingannatore, che, per potente ed astuto ch’egli sia, non mi potrà mai imporre nulla.
R. Descartes, Opere, a cura di E. Garin, Roma-Bari, Laterza, 1967
“Quattro precetti” di metodo, tre saggi di scienza e “qualche cosa di metafisica, di fisica e di medicina”
Giacché il metodo non è una dottrina o una meta-scienza, una tecnica o un’esegesi: è un cammino di ricerca della verità che la legittima nel momento stesso in cui la scopre, un esercizio di certezza fondato su regole chiare, semplici e facili che rendono esplicito l’ordine naturale della conoscenza. Non bisogna dimenticarlo: il metodo cartesiano “consiste più in pratica che in teoria”, come afferma Descartes stesso nel Discours. Il suo valore non deve essere valutato, quindi, dalle definizioni che lo espongono o dalle regole che l’articolano, ma dai risultati che ne conseguono: dalla verità, cioè, e dall’ampiezza della scienza degli Essais – saggi-esperimento di metodo e, insieme, saggi-testimonianza della sua validità – che l’applicano come strategie di ricerca nei diversi campi dell’ottica, della filosofia naturale e della geometria, non meno che negli altri “esempi” che sono inseriti nel Discours per mostrarne l’efficacia e la generalità: la metafisica nella quarta parte, la fisica copernicana di un mondo di favola e la medicina della macchina del corpo umano nella quinta.
Testo discorsivo d’introduzione agli Essais, che nella storia ha acquisito un’autonomia filosofica illegittima, il Discours ripete in francese le condizioni della scienza già enunciate e illustrate nelle Regulæ, ma in una forma concisa che rinvia più all’operatività della conoscenza vera che alla sua teoria. I “quattro precetti” del metodo, esposti in prima persona come una sorta di riflessione personale di una ricerca in corso, introducono infatti una sorta di logica pratica della scoperta scientifica. Il primo dichiara l’evidenza come il carattere proprio della conoscenza vera, enumerandone le condizioni epistemologiche necessarie e sufficienti – la chiarezza e la distinzione – e offrendo il dubbio come strumento di controllo; il secondo indica le condizioni effettive della messa in evidenza, ovvero la riduzione del complesso al semplice e la scomposizione dei problemi nelle loro parti essenziali; il terzo stabilisce l’ordine della conoscenza come disposizione delle verità istituite sul criterio della semplicità e strutturate per deduzione in serie lineari; “l’ultimo”, infine, prescrive di verificare la catena delle inferenze attraverso “un’enumerazione” completa delle nozioni evidenti e “una rassegna generale” dei termini noti ricondotti all’unità chiara e distinta dell’idea. “Più in pratica che in teoria”, questi “quattro precetti” sono indicazioni operative destinate a orientare la ricerca in corso, istituite da una risoluzione “ferma e costante” dello scienziato alla verità e dettate dalla preoccupazione del filosofo di governare l’uso spontaneo del lume naturale e di evitare le situazioni di rischio della ricerca.
Gli Essais del 1637 ne sono l’applicazione e la prova. Se il futuro li separerà dal Discours, non leggendoli più o leggendoli spesso solo come testi scientifici segnati irrimediabilmente dal tempo, è in essi, invece, che Descartes traduce la sua filosofia “secondo la regola della ragione”, esponendo finalmente al pubblico i risultati del metodo ottenuti in tanti anni di lavoro silenzioso.
Nel saggio La Dioptrique, testo di natura mista tra l’ottica geometrica, l’ottica fisiologica, la semiotica e la filosofia della mente, Descartes, riprendendo gli studi precedenti, propone una teoria completa della luce come trasmissione istantanea del movimento in un mezzo fluido – è in essa che formula la celebre legge di rifrazione – ed elabora una dottrina della visione nei termini originali e “cartesiani” di opposizione concettuale tra il soggetto che percepisce e l’oggetto percepito, non essendo l’occhio che un complesso di lenti “che non vede”, là dove “è l’anima che vede” secondo una “geometria naturale” che è, insieme, sistema di leggi della natura e sistema di codificazione del sensibile.
Nel saggio Les Météores, testo di fisica – o “di filosofia naturale”, secondo la denominazione del tempo –, Descartes, stralciando dal suo trattato copernicano sul mondo le parti più neutre, affronta l’argomento classico della scolastica dei fenomeni “sublunari”, che il metodo dell’ordine trasforma in una scienza rigorosa dei fenomeni atmosferici, con uno studio particolarmente importante sull’arcobaleno. Saggio strategico di confronto, di sfida e di attacco dei vecchi maestri a cui Descartes teneva particolarmente, in esso la fisica dei corpi terrestri è completamente trasformata ed è diventata finalmente cartesiana: una fisica geometrica di materia e movimento.
René Descartes
Discorso sul metodo, Parte II
Così, al posto del gran numero di regole di cui la logica si compone, pensai che mi sarebbero bastate le quattro seguenti, purcché prendessi la ferma e costante risoluzione di non mancare di rispettarle neanche una volta.
La prima era di non accettare mai per vera nessuna cosa che io non conoscessi con evidenza come tale: ovvero, evitare accuratamente la precipitazione e la prevenzione, e non accogliere nei miei giudizi niente che non si presentasse alla mente in modo così chiaro e distinto da esculdere ogni motivo di metterlo in dubbio.
La seconda era di dividere ciascuna delle difficoltà che avrei esaminato in quante più parti fosse possibile e richiesto per risolverle al meglio.
La terza era di svolgere con ordine i miei pensieri cominciando dagli oggetti più semplici e facili da conosce per risalire a poco a poco, come per gradi, fino alla conoscenza dei più complessi, ammettendo l’esistenza di un ordine anche tra quelli che non si dispongono naturalmente gli uni prima degli altri.
E l’ultima era di fare dappetutto enumerazioni così complete e rassegne così generali da essere certo di non omettere nulla.
René Descartes
Le meteore, Discorso I
Per natura siamo più disposti ad ammirare le cose che sono sopra di noi che quelle che si trovano alla nostra altezza o sotto di noi. Nonostante che le nubi superino appena le cime di qualche montagna e per quanto, anche spesso, se ne vedano alcune più basse delle guglie dei nostri campanili, tuttavia, per il solo fatto che per guardarle bisogna volgere gli occhi al cielo, le immaginiamo tanto alte che persino i poeti e i pittori ne fanno materia per costruire il trono di Dio e fingono che lassù Egli usi le sue mani per aprire e chiudere le porte dei venti, per versare la rugiada sui fiori e per scagliare folgori sulle rocce. Ciò mi fa sperare che, se riuscirò qui a spiegare la natura delle nubi in tal modo che non rimanga più nessun motivo di stupore né per quello che vi si vede né per quello che ne consegue, si crederà più facilmente che sia possibile, nello stesso modo, scoprire le cause di tutto ciò che vi è di più ammirevole al di sopra della Terra.
Testo esemplare di metodo, e, anzi, metodo tradotto in discorso, nelle Météores gli imperativi dell’ordine sottraggono “le cose celesti” all’ammirazione delle arti e le propongono alla spiegazione della filosofia che “ne trova le cause”: l’instaurazione dell’ordine classifica i fenomeni naturali secondo la loro generalità e li lega in serie continue secondo connessioni di derivazione necessaria, essendo tutti i fenomeni meteorologici – i venti, le nubi, la pioggia, la grandine, la neve, le tempeste, il tuono, i fulmini ecc. – derivati dai movimenti di condensazione o di rarefazione delle esalazioni della materia riscaldata dal sole. E, finalmente, la tecnica che consente di riprodurre infinitamente i vari fenomeni naturali, come i giochi d’acqua delle fontane che disegnano infiniti arcobaleni destando ammirazione in chi non ne conosce le cause. Nell’età barocca, in cui la scienza dissipa lo stupore legato all’ignoranza, l’immaginazione è a disposizione del sapere che l’ha sottomessa alla ragione tecnologica: geniale.
Il saggio La Géométrie, infine, capolavoro di Descartes scienziato, testo celebre e celebrato come opera di fondazione della geometria analitica moderna, è un saggio di scienza che non si presenta come l’esposizione di un corso di geometria analitica, ma come una trama di manipolazioni algebriche e un cantiere di costruzioni e composizioni di figure. Ma è anche un saggio di metodo, sottratto al peso delle continuità storiche e caratterizzato dalle sole istanze della ricerca dell’unità, della perennità e dell’universalità della verità. È in virtù del metodo che Descartes opera la traslazione fondamentale dell’intelligibilità matematica dal dominio della memoria e dell’immaginazione a quello dell’intelletto: riducendo le rappresentazioni figurate della geometria degli Antichi a linee ed eliminando dall’algebra dei Moderni le nomenclature variabili e oscure, ricondotte alla forma astratta e generale della cifra “sotto una forma pura e nuda”. Traduzione simbolica e algebrizzazione della geometria; conoscenza per intuizione geometrica delle linee; conoscenza per costruzione delle catene deduttive: il futuro non mancherà di riconoscere l’importanza della teoria cartesiana che chiamerà “costruzione delle equazioni”.
Nel corpo del Discours, Descartes aggiungeva anche “qualche cosa di fisica e di medicina” come ulteriori saggi del metodo, incompleti, certo, ma significativi per la chiarezza delle ragioni e l’importanza dei risultati. Il Discours presenta queste discipline nella quinta parte e le espone come scienze dei corpi attraverso l’idea chiara e distinta di estensione che la metafisica della quarta ha chiarito: una fisica geometrica della natura, in cui le leggi matematiche, in virtù della creazione e dei decreti immutabili di Dio, assumono la realtà fisica di “leggi ordinarie della natura”, secondo le dichiarazioni di Descartes che, attraverso la favola di “un nuovo Mondo”, trasforma il vecchio mondo aristotelico delle forme e delle qualità nella “grande meccanica” della fisica moderna e scrive la prima genesi non religiosa dell’universo; una medicina meccanica che considera il corpo umano come “una statua o una macchina di terra”, “un automa”, insomma, suscettibile di una conoscenza razionale attraverso la figura, la grandezza e i movimenti della materia, secondo una logica pratica che si presta all’azione produttrice, riproduttrice e, finalmente, riparatrice. Per quanto riduttivo per la comprensione del vivente e paradossale per il senso comune in certe sue conseguenze teoriche che il futuro non mancherà di rilevare e di criticare – si pensi alla tesi dell’automatismo animale e alla famosa querelle dell’anima delle bestie che ne è derivata –, il modello del corpo-macchina si rivela, infatti, molto duttile per l’azione tecnica, confermando il primato della razionalità e legittimando le possibilità illimitate dell’industria umana nella sua applicazione operativa a tutti i corpi, organici e inorganici. Come se fosse nell’orizzonte della ragione pratica e della ragione tecnica che la celebre questione degli animali si decidesse e acquisisse il suo significato più vero, a coronare così il progetto cartesiano di un dominio razionale dell’uomo sulla natura.
“I fondamenti della fisica”
Malgrado il rilievo e l’ampiezza dei risultati conseguiti negli Essais, restava aperto tuttavia il problema dei principi, e Descartes ne era perfettamente consapevole. La scienza degli Essais è una scienza ipotetico-deduttiva assolutamente coerente, confermata dall’esperienza e suscettibile di varie applicazioni: la sua “certezza morale” è sufficiente per autorizzare il lavoro dello scienziato immerso nel lavoro di ricerca. Ma il filosofo non si accontenta e chiede di più: pur senza discutere o violare l’ordine delle ragioni imposto dal metodo, avanza la questione dei fondamenti di questo stesso sapere che, per quanto rigoroso, potrebbe non essere, in fondo, che la favola di un’intelligenza brillante che racconta le illusioni di un universo misterioso.
La “questione della verità” e della sua adeguazione alla cosa vera è d’importanza centrale per Descartes teorico di un mondo copernicano dalla struttura rigorosamente geometrica ma dalla natura forzatamente ipotetica. Tanto più centrale all’alba della “rivoluzione scientifica” allorché, malgrado le disposizioni tridentine raccomandate da Bellarmino a Galilei di mantenere la ricerca fisica nei limiti della neutralità della congettura – “ex supposizione e non assolutamente” –, la nuova scienza, con il suo progetto di matematizzazione dell’universo, aveva fatto appello al rigore e all’esattezza delle matematiche per sostenere la dottrina della verità e della realtà del suo oggetto attraverso la posizione dell’unità radicale della razionalità divina e umana. Con risultati scientifici d’importanza capitale, ma non senza le aporie concettuali di un sapere ancora aperto alla prova e alla ricerca dei fondamenti.
Ma la “questione della verità” non è meno cruciale per Descartes teorico della Mathesis universis e filosofo della “ricerca della verità”. Tanto più cruciale da che la “crisi scettica” dell’epoca aveva contribuito a scuotere la tenuta delle teorie tradizionali della ragione e a smentire l’accessibilità agli ideali stoici del dominio razionale di sé. L’età segna, infatti, la rinascita dello scetticismo classico che, sovradeterminato dagli argomenti estremi dello scetticismo cristiano, alimentato dalle recenti traduzioni dei testi antichi e ispirato da tante fonti nuove, si era profondamente rinnovato delle istanze di critica teorica e di sovversione sociale in un periodo storico lacerato da forti contraddizioni sociali e gravi conflitti politici. Montaigne testimone e interprete d’elezione del rilievo filosofico di questa cultura della prima modernità.
Difficoltà di una ragione troppo fragile, da un lato, senza criterio a causa della dialettica circolare del criterio della verità; difficoltà di una ragione troppo forte, dall’altro, senza limiti a causa di un realismo enfatico della verità, fondato, secondo Descartes, sulle confusioni di un trattamento ambiguo dell’infinito. La questione dello statuto della verità e del suo accesso è in fondo “la questione delle questioni” della filosofia cartesiana nella sua forma più astratta, generale e radicale. Perché, dopo la sua trascrizione epistemologica nelle Regulæ e la sua riduzione “al livello della ragione” nel Discours, la verità sfugge ai criteri tradizionali dell’adeguazione ontologica, ed emerge problematica la questione della realtà della cosa vera in quanto oggetto vero del pensiero: che sia la verità della matematica, degli assiomi della quantità o dei principi logici; che sia l’evidenza dei valori morali e delle verità metafisiche o la realtà dei principi fisici.
La risposta di Descartes è metafisica: una meditazione sul fondamento della verità che prende la figura di un appello della ragione all’interiorità originaria di ogni conoscenza vera e di una scoperta filosofica del vero significato della creazione divina. Attraverso la metafisica, la ragione cartesiana si afferma, infatti, come la sola esperienza che non possa essere messa in dubbio, ma anche come una ragione leale nei confronti della verità creata da un Dio infinito e infinitamente perfetto ed esercitata da un soggetto che è capace di distinguerne i caratteri indubitabili nella totale chiarezza dell’idea all’intelletto, ma che sa riconoscere anche il proprio statuto di creatura finita che sa sottomettersi al suo Creatore, riconoscendo i limiti che impone al finito l’accesso all’infinito. Per Descartes pensare la verità della scienza non è solo esercitare e convalidare le procedure metodiche della Mathesis universalis, ma è anche coglierne l’avvento speculativo e performativo nella dichiarazione originaria dell’“Ego” immateriale che l’enuncia nell’evidenza, e ritrovarne la fonte e l’autorizzazione nell’azione divina creatrice della verità stessa e della ragione umana.
Descartes, autore nel 1629 di “un piccolo trattato di metafisica”, teorico nel 1630 degli a priori della scienza con la tesi della libera creazione delle verità eterne e narratore negli stessi anni Trenta della “favola” di un universo in cui quelle stesse verità assumono la realtà fisica delle leggi naturali, pensa fin dall’inizio dei suoi studi a questa metafisica dell’anima e di Dio che invera la scienza dei corpi. Nel Discours l’abbozza nella quarta parte, come a evocare i limiti della scienza nel momento stesso in cui ne espone le risorse. Una metafisica non completamente elaborata, a dire di Descartes stesso, e relativamente prudente, scritta in francese per un pubblico non specialista a cui il filosofo risparmia le ragioni più vertiginose del dubbio. Piuttosto, una metafisica-saggio del metodo, in cui l’istanza dell’ordine costruisce la catena del falso, fatta di dubbi sempre più potenti sulla confusione delle conoscenze sensibili, l’incertezza dei ragionamenti matematici e le illusioni dei sogni, fino all’evidenza fondatrice della prima verità “Je pense, donc je suis ”, prototipo di ogni conoscenza chiara e distinta, che consente di stabilizzare la scienza sul soggetto attraverso “la regola generale” della verità – “le cose che concepiamo chiaramente e distintamente sono tutte vere” –, rivelandosi l’anima umana, di natura immateriale, capace di una scienza vera indipendente dai sensi. Una metafisica in cui è ancora l’istanza dell’ordine che lega la catena del vero, dal primo anello – “Je pense, donc je suis” – alle verità sempre più complesse delle idee del soggetto. A partire, infatti, dall’idea innata dell’infinito, la mente dimostra l’esistenza di un Dio infinito e infinitamente perfetto, il quale ha creato la realtà e la mantiene nell’essere in virtù della sua potenza infinita, stabilizzando così l’oggetto della scienza con il suo atto immutabile di creazione continua che ne assicura lo statuto di “cosa reale” nella misura in cui è concepito dall’idea vera.
René Descartes
Prima meditazione
Meditazioni sulla filosofia prima, Prima meditazione
Tuttavia, è radicata nella mia mente una vecchia opinione, e cioè che ci sia un Dio che può ogni cosa e che mi abbia creato così come esisto. Donde so però che egli non abbia fatto sì che non esista assolutamente terra alcuna, cielo alcuno, nessuna cosa estesa, nessuna figura, nessuna grandezza, nessun luogo, e tuttavia che tutte queste cose mi sembrino esistere non altrimenti da come ora le vedo? […] Non potrei ingannarmi ogni qualvolta sommo due più tre o conto i lati del quadrato […]?
René Descartes
Seconda meditazione
Meditazioni sulla filosofia prima, Seconda meditazione
C’è però non so quale ingannatore, sommamente potente e di grandissima astuzia, che opera per ingannarmi continuamente. Senza dubbio, dunque, anch’io sono se mi inganna e mi inganni pure quanto potrà, mai tuttavia farà sì che io non sia nulla finché penserò di essere qualcosa. Pertanto, dopo aver ben meditato, si deve infine stabilire che questa proposizione: “Io sono, io esisto”, è necessariamente vera ogniqualvolta la proferisco o la concepisco con la mia mente.
René Descartes
Descartes a Jean de Silhon, aprile 1648
Lettere
Così, siete meno certo della presenza degli oggetti che vedete della verità di questa proposizione: Penso, dunque sono. Ora, questa conoscenza non è opera del ragionamento, né un insegnamento dei maestri. È lo spirito che la vede, la sente e l’utilizza.
R. Descartes, Tutte le lettere (1619-1650), a cura di G. Belgioioso, Bompiani, Milano, 2005
Fin qui il Discours. Ma Descartes non è soddisfatto di questa metafisica ancora “oscura” a causa della concisione degli argomenti non completamente sviluppati e delle semplificazioni e delle preterizioni delle ragioni dovute all’esposizione in francese della metafisica come uno dei saggi del metodo. Del resto, i suoi avversari a Leida e a Utrecht non risparmiano critiche e attacchi a una metafisica concepita all’insegna della chiarezza, che ha abbandonato l’ontologia e la teologia per affermare il primato del soggetto pensante: una metafisica che ai loro occhi non è che una nuova forma di ateismo e di scetticismo.
René Descartes
Il calore del cuore è il principio di ogni movimento del corpo
Descrizione del corpo umano
E affinché si abbia dapprima una nozione generale di tutta la macchina che ho da descrivere, dirò qui che è il calore che essa ha nel cuore, che è come la grande molla, e il principio di tutti i movimenti che sono in essa; e che le vene sono dei tubi che conducono il sangue da tutte le parti del corpo verso questo cuore, ove serve di nutrimento al calore che vi è, come anche lo stomaco e le budella sono un altro tubo più grande, disseminato di parecchi piccoli fori, per dove il succo dei cibi scorre nelle vene che lo portano diritto al cuore. E le arterie sono ancora altri tubi, per dove il sangue, scaldato e rarefatto nel cuore, passa di lì in tutte le altri parti del corpo alle quali porta il calore e della materia per nutrirli. E infine le parti più vive e più agitate di questo sangue, essendo portate al cervello attraverso le arterie che vengono dal cuore più in linea retta di tutte, compongono come un’aria o un vento molto sottile, che viene chiamato gli spiriti animali; questi, dilatando il cervello, lo rendono proprio a ricevere le impressioni degli oggetti esterni e anche quelle dell’anima, vale a dire, a essere l’organo o la dimora del senso comune, dell’immaginazione e della memoria. Poi questa medesima aria, o questi medesimi spiriti scorrono dal cervello attraverso i nervi in tutti i muscoli e per mezzo di ciò dispongono questi nervi a servire di organo ai sensi esterni; e gonfiando diversamente i muscoli, danno il movimento a tutte le membra.
R. Descartes, Opere scientifiche, a cura di G. Micheli, Torino, UTET, 1966
Sei meditazioni di metafisica
La questione è molto importante per Descartes scienziato e filosofo, che decide di consacrarle un testo latino eleggendo la meditazione come stile adeguato alla metafisica: forma di un pensiero attento e concentrato, severo da enunciare ma certo nei suoi movimenti necessari, e genere di una scrittura riflessiva, ardua da seguire ma convincente in forza delle sue dimostrazioni. Pedagogiche di una ragione senza erudizione, le Meditationes saranno così un’opera del tutto nuova di educazione intellettuale e di rifondazione scientifica: meditazioni di sei giorni, scritte in un inverno di neve, che scandiscono le tappe di una ricerca della verità in cui l’arte di persuadere ritrova la logica della scoperta scientifica e il vissuto individuale si offre spontaneamente all’esperimento teorico: un fuoco che arde, una candela che brucia, una finestra che dà su una piazza popolata da uomini in mantello e cappello.
L’opera, destinata a “persuadere gli infedeli e gli empi”, corregge in latino la debolezza della metafisica francese del Discours, troppo timida nei confronti dello scetticismo, non esitando a esporre fino all’iperbole tutti gli argomenti di un dubbio volontario, “verosimile” e fittizio e anzi eccessivo in quella ricerca dei primi fondamenti indubitabili della filosofia e della scienza che costituisce il progetto stesso delle Meditationes de prima philosophia. Da qui una rassegna degli argomenti del dubbio naturale che investe le conoscenze delle cose sensibili, ma anche le condizioni stesse della presunta normalità della conoscenza, generalizzando la diffidenza critica ai dati materiali della spontaneità naturale e suscitando un’inquietudine filosofica sul senso stesso del reale: come la pazzia, argomento che mira a introdurre la possibilità di un’alterazione radicale della relazione tra conoscenza e oggetto, che Descartes avanza nelle Meditationes per la sua efficacia ma che poi ritira per la sua “stravaganza”, senza rinunciare tuttavia all’inchiesta sulla normalità attraverso l’introduzione dell’esperienza più comune ma non meno inquietante del sogno che mima la vita quotidiana. Ma proprio perché esperienza così comune, ancora più allarmante per la ricerca della verità, comportando quasi una possibile generalizzazione e un’esasperazione iperbolica dell’argomento della follia. L’ipotesi di una vita di sogno – “sogno o son desto?” – non è forse la cifra di tanto teatro barocco mirante a destare stupore e a suscitare un’inquietudine filosofica sul senso stesso del reale?
Fin qui, in questa frattura possibile tra soggetto e oggetto, anche se l’oggetto è il proprio corpo, il dubbio delle Meditationes e del Discours. Però le Meditationes vanno oltre e aprono un’analisi critica originale che supera il livello dell’esistenza dei corpi – il livello del sensoriale e dell’immaginativo – per accedere a quello delle essenze intellettuali, fino all’esperimento estremo del dubbio che introduce la figura del Dio ingannatore come ipotesi iperbolica di un’imperfezione naturale della mente umana e come argomento d’insicurezza radicale della ragione: e la questione dell’origine del nostro essere è questione metafisica. Esperimento che si amplifica nella supposizione di un “genio maligno, astuto e potente”, capace di sottomettere l’uomo agli inganni di un mondo in cui verità e apparenze si confondono in una fantasmagoria di apparenze immaginarie. Personaggio d’illusionismo del teatro barocco, Descartes l’introduce come finzione volontaria dell’irrazionale e come artificio metodologico per ribadire e rafforzare le incertezze sull’esistenza e sulla natura dell’universo materiale, tra cui “le mie mani, i miei occhi, il mio sangue, i miei stessi sensi”. Dall’a corpo a corpo con il quale tuttavia emerge vittoriosa e immutabile la prima verità performativa dell’“ Ego sum, Ego existo” che il pensiero pronuncia alla prima persona, e a cui si lega in modo necessario la verità dell’esistenza di un Dio creatore che “non può essere ingannatore”, ma che è la “fonte della verità” e da cui deriva il lume naturale, adeguato, quindi, alla verità dalla creazione divina. Sono questi, infatti, i principi primi immateriali di una metafisica indubitabile in virtù “della certezza ed evidenza delle sue ragioni” che Descartes può opporre legittimamente all’“empietà” e agli “errori” filosofici del suo tempo: l’ateismo, il materialismo, l’empirismo, lo scetticismo, la scolastica stessa. Ma tali principi metafisici sono anche i “primi principi” di una filosofia prima che offre alla fisica i suoi fondamenti: quegli argomenti d’intelligibilità, stabilità e verità che la rendono possibile, necessaria e vera. Possibile nel suo modello – “la mia fisica non è che geometria” –, da cui s’inferisce la sua necessità confrontabile, appunto, alla necessità della geometria; vera nel suo oggetto, l’estensione, che è concepito dall’intelletto puro come “una natura immutabile ed eterna”, distinta essenzialmente dallo spirito, da cui si inferisce la sua realtà di oggetto di scienza. Con uno stesso gesto per la gloria di Dio e il progresso della scienza.
Così, tutta la filosofia è come un albero
Descartes porterà a termine il suo programma di “una scienza perfetta” della natura solo nei Principia Philosophiæ, là dove una potente teoria dei principi ancorata alla metafisica è presentata come la condizione del passaggio dalla matematica degli enti possibili alla fisica degli esseri necessari e reali. In questa opera del 1644, tutta la fisica generale e particolare, articolata ai principi a priori della metafisica, prende la figura di un vero sistema razionale del mondo, vero della verità obiettiva dell’idea chiara e distinta del corpo, l’estensione, e reale della realtà delle leggi matematiche create da Dio per la materia nell’eternità dei suoi decreti immutabili. Attraverso la metafisica, che è un sottoinsieme di una filosofia prima, la fisica cartesiana si configura così come una fisica filosofica: una conoscenza ragionata delle leggi della natura a partire dai principi chiari e distinti, veri e reali che la filosofia prima le impone come primi principi della ragione e che funzionano anche come cause, secondo l’equazione cartesiana di causa e ragione (“causa sive ratio”). Scritti nella forma di una summa con tutte le “vere ragioni”, i Principia sono così l’opera di una filosofia completa, legata alle Meditationes quanto alle materie della prima parte – “quasi le stesse cose”, assicurava Descartes –, ma esposta secondo il metodo sintetico in un ordine tale da poter “essere insegnata con facilità”. Descartes l’affermava non senza legittima soddisfazione per questa sintesi quasi definitiva e completa della sua dottrina. “Non so – aggiungeva – se fino ad ora c’è stato qualcuno che sia riuscito in questo stesso progetto”
Una sola persona che ha insieme un corpo e un’anima
Se le Meditationes dicono di meno dei Principia, esse, tuttavia, dicono anche di più. Meditazioni di filosofia prima, non si limitano alla scoperta metafisica dei principi primi immateriali che fondano la scienza dei corpi e non si concludono alla sanzione nell’evidenza del suo oggetto, l’estensione, ma in una settimana esemplare di riflessione teorica procedono oltre, seguendo l’ordine delle ragioni istaurato dal metodo dell’analisi. Con un movimento originale rispetto alla metafisica del Discours, Descartes arriva infatti fino a tematizzare l’unità della persona umana: esperienza “evidentissima” dell’uomo comune che ciascuno “prova in se stesso senza filosofare” e che ci porta a vivere come “un uomo vero”, e, insieme, nozione primitiva fondamentale e fondatrice dell’antropologia cartesiana, che non potrà trattare l’uomo nei termini di un dualismo platonico, ma dovrà assumerlo come l’essere in cui l’anima e il corpo compongono “un solo tutto”, e sono come mescolati e quasi confusi.
La principessa Elisabetta chiedeva a Descartes, filosofo della distinzione delle sostanze, di sciogliere la problematicità delle Meditationes, là dove si parla dell’unione dell’anima e del corpo e delle loro interazioni. E Descartes, teorico di un dualismo metafisico, rispondeva nei termini di un dualismo funzionale con il Traité des Passions, appellandosi all’istituzione della natura che regola la trascrizione intellettuale dei movimenti corporei. Richiamando altresì la sua illustre amica ad agire sempre in prima persona e come una persona vera e viva, applicandosi, cioè, a un esame lucido del giusto valore delle cose e coltivando un’indipendenza morale e materiale dalla fortuna e dalla sorte con fermezza di volontà. La principale perfezione dell’uomo, scriveva, consiste nella “ferma e costante volontà di usare sempre al meglio la nostra ragione” e di “non abdicare a nulla che sia in suo potere”.
René Descartes
La descrizione del corpo umano
Non c’è nulla di cui ci si possa occupare più utilmente che di conoscere se stessi. E l’utilità che si deve sperare da questa conoscenza non riguarda solo la morale, come sembra ai più, ma in modo particolare anche la medicina, nella quale credo che si sarebbero potuti trovare molti precetti solidi per guarire le malattie e per prevenirle, e anche per ritardare il corso della vecchiaia, se ci si fosse impegnati a conoscere la natura del nostro corpo e non si fossero attribuite all’anima le funzioni che, invece, dipendono solo dal corpo e dalla disposizione degli organi.
Descartes tornava sul problema dell’unione dell’anima e del corpo nel colloquio con Burman (1648), in cui rispondeva alle questioni sollevate dal suo giovane ammiratore, perplesso anch’egli sulle soluzioni del maestro. Con uno sguardo retrospettivo lucido e libero sulle proprie teorie, il filosofo concludeva con un appello a una morale aperta e a una medicina sperimentale propriamente umana, messa a servizio di una vita più felice. Nello studio dell’“uomo intero”, l’esercizio della verità è plurale nei suoi accessi e complesso nei suoi ordini. Del resto, concludeva, “è l’esperienza stessa che ce lo insegna”.