desertificazione
desertificazióne s f. – Processo di degradazione delle terre a vocazione agricola, pastorale e/o silvicola caratterizzato da diminuzione o perdita della produttività biologica o economica (sterilità funzionale) per cause di origine naturale o antropica e per effetto di fenomeni quali l’erosione del suolo, la copertura per deposizione, la salinizzazione, la siccità ecc. Riprendendo la discussione aperta fin dagli anni Trenta del 20° sec., la problematica del degrado delle terre, e più specificatamente della d., cominciò ad attestarsi a livello internazionale, e soprattutto in ambito coloniale, nel secondo dopoguerra, quando in convegni e conferenze internazionali di scienza tropicale si affermò l’idea che le pratiche tradizionali delle popolazioni locali, quali l’agricoltura itinerante, i fuochi di boscaglia e il pascolo, rappresentassero la principale causa all’origine dei processi di d. (ma anche di savanizzazione, deforestazione ecc.). Soprattutto in riferimento al continente africano, la lotta alla d., e in particolare all’erosione del suolo, venne riconosciuta come una priorità delle politiche coloniali di conservazione della natura che, elaborate eminentemente in ambito forestale, si tradussero in interdizioni e interventi repressivi da parte delle autorità coloniali nei confronti delle popolazioni locali. Anche per effetto della crisi del Sahel negli anni Settanta del 20° sec., del ‘deserto che avanza’ si continuò a discutere per decenni finché il riconoscimento della d. come uno dei principali problemi economici, sociali e ambientali che affliggono i paesi poveri avvenne ufficialmente a livello internazionale con l’entrata in vigore nel 1996 della Convenzione delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione (UNCCD, United Nations convention to combat desertification), nella quale la d. viene definita come «degrado delle terre nelle aree aride, semi-aride e sub-umide secche, attribuibile a varie cause, fra le quali variazioni climatiche ed attività umane» (UNCCD, 1994 – articolo 1, comma a). A partire dal 21° sec., il tema della d. è tornato con nuova enfasi a essere al centro della discussioni a livello sia internazionale sia nazionale. Il 2006 è stato eletto dalle Nazioni Unite Anno internazionale dei deserti e della desertificazione, con gli obiettivi di accrescere la consapevolezza globale sulle implicazioni a livello politico, economico e sociale dei processi di d. e di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla situazione del continente africano, ritenuta particolarmente grave. A livello nazionale, nel 2007 l’Istituto nazionale di economia agraria (INEA) ha pubblicato l’Atlante nazionale delle aree a rischio di desertificazione, in collaborazione con il Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura (CRA), l’Istituto sperimentale per lo studio e la difesa del suolo (ISSDS) e il Centro nazionale di cartografia pedologica, e con il coinvolgimento dei referenti regionali per la pedologia e la lotta alla desertificazione delle regioni Sardegna, Sicilia, Calabria e Puglia. In base ai dati riportati nell’Atlante il 4,3% del territorio italiano (1.286.056 ettari) ha già caratteristiche di sterilità funzionale; il 4,7% (1.426.041 ettari) è sensibile a fenomeni di desertificazione; il 12,3% (3.708.525) può essere considerato vulnerabile alla desertificazione. Oggi, il dibattito sull’interpretazione ‘antropica’ della d., di derivazione coloniale, è particolarmente sentito. Infatti, sono ormai diversi gli autori che, alla tesi sull’origine della d. per cause legate ai sistemi tradizionali di utilizzo e gestione delle risorse, contrappongono la tesi contraria sostenendo che i sistemi agricoli e pastorali tradizionali sono in grado di favorire il mantenimento a lungo termine della capacità produttiva delle terre. D’altra parte, in più ambiti di ricerca (dalla botanica all’antropologia, dalla storia alla geografia), molti studi hanno dimostrato l’infondatezza di certi aspetti della tesi ‘antropica’. Su questa linea si situa la critica ai metodi di indagine scientifica utilizzati negli ultimi cinquant’anni per la valutazione del degrado delle terre. Queste nuove interpretazioni tentano di recuperare le modalità tradizionali di gestione dell’ambiente e di utilizzo delle risorse naturali attraverso l’analisi dei sistemi produttivi e soprattutto delle pratiche di conservazione delle risorse delle popolazioni insediate.