Design sostenibile
Il design sostenibile basa la progettazione di nuovi prodotti, frutto del miglior compromesso fra parametri ambientali e tecnico-economici, sulla valutazione degli impatti ambientali e sulla scelta dei materiali, delle forme e delle strutture. Questo iniziale criterio quantitativo, con cui spesso viene affrontata la questione ecologica, non è ormai più sufficiente e si deve ampliare e connettere con valutazioni di tipo qualitativo: il senso di crescita economica e di benessere, lo sviluppo sostenibile. Si deve cioè prendere coscienza del fatto che non sono necessarie soltanto soluzioni tecniche mirate e parziali, ma anche scenari complessivi e futuribili in grado di ripensare la cultura del progetto e quella della produzione.
Oggi con design sostenibile si intende la progettazione di prodotti mediante l’applicazione di regole e indicazioni atte a indirizzare la produzione di nuovi oggetti prendendo in considerazione anche le richieste dell’ecosistema. Il design sostenibile non si fa quindi più carico esclusivamente dell’impatto ambientale del prodotto: quest’ultimo diventa invece uno dei requisiti imprescindibili del progetto. È sempre più necessario perciò superare il concetto di design sostenibile associato alle realizzazioni di pezzi unici, di serie limitate e realizzate attraverso forme di reimpiego di scarti; un approccio ben poco risolutivo se visto in un’ottica di grandi numeri.
Riduzione, riuso e riciclo, montaggio/smontaggio/autocostruzione, uso di energie pulite e rinnovabili, riduzione delle emissioni nocive, scelta dei materiali, analisi, certificazione e dematerializzazione del prodotto-servizio: sono queste le parole chiave della prima fase del design sostenibile, chiamato anche ecodesign. Per progettare e produrre un oggetto ecocompatibile, a queste si possono aggiungere, e in alcuni casi recuperare e aggiornare, valori e significati che emergono dai concetti di innovazione, ruolo della tecnologia, semplicità/essenzialità, leggerezza, mono/multifunzione, flessibilità e compattezza. Solo così è possibile arrivare al ‘vero design’, quello in cui «agiscono forti interazioni fra scoperta scientifica, applicazione tecnologica, buon disegno ed effetto sociale positivo», come sintetizza nel suo saggio Giovanni Klaus Koenig (Design. Rivoluzione, evoluzione o involuzione?, «Ottagono», 1983, 68, p. 24).
Dibattito storico
Il dibattito scientifico e le prime prese di posizione nei confronti dei problemi ambientali e dei ‘limiti dello sviluppo’ avvenne fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta del secolo scorso. Soltanto recentemente, quarant’anni dopo l’inizio del dibattito, le questioni teoriche hanno iniziato ad avere ricadute concrete sui progetti e sulle produzioni industriali di oggetti d’uso quotidiano. Diversamente è capitato invece nei settori della ricerca tecnologica legata ai materiali ecocompatibili, alla produzione di energie alternative o pulite, o ai sistemi di produzione industriale con alte prestazioni di qualità ambientale, dove gli effetti di un’attenzione all’ambiente sono arrivati molto prima. Fin dagli esordi, con The limits to growth (1972; trad. it. 1972), primo studio commissionato dal Club di Roma al System dynamics group del MIT (Massachusetts Institute of Technology) per documentare l’insorgere della questione ambientale in termini globali, il dibattito scientifico si è focalizzato sul problema della scarsità delle risorse e sulla crisi del petrolio, su un attacco al consumismo e sul promuovere una filosofia del ‘fare meno con meno’.
È proprio Donella H. Meadows, principale autrice del rapporto, ad affermare che, «nell’ipotesi che l’attuale linea di sviluppo continui inalterata nei cinque settori fondamentali (popolazione, industrializzazione, inquinamento, produzione di alimenti, consumo delle risorse naturali), l’umanità è destinata a raggiungere i limiti naturali dello sviluppo entro i prossimi cento anni. Il risultato più probabile sarà un improvviso, incontrollabile declino del livello di popolazione e del sistema industriale» (trad. it. 1972, p. 25). L’impatto di tale studio, in particolare quello della prima versione, fu notevole perché giungeva in un periodo in cui era ancora forte la fiducia verso il continuo progredire della società. A conferma della progressiva internazionalizzazione del dibattito intorno al tema delle relazioni tra ambiente e sviluppo, nel 1987 la World commission on environment and development (WCED) pubblicava Our common future, noto come Rapporto Brundtland (dal nome del presidente della commissione, l’allora primo ministro norvegese Gro Harlem Brundtland), in cui lo sviluppo sostenibile viene definito come uno sviluppo che soddisfa le necessità attuali senza compromettere la possibilità per le generazioni future di soddisfare a sua volta le proprie.
Dal punto di vista politico e normativo, gli anni Ottanta sono stati determinanti per la diffusione delle tematiche su tecnologie e processi puliti e per l’avvio di importanti studi in materia, mentre a livello progettuale e ancor più industriale non si sono evidenziati prodotti significativi e testimonianze di una qualche tendenza al cambiamento, né tipologico (e quindi comportamentale) né tanto meno formale, verso la definizione di una nuova estetica sostenibile, allora tanto declamata e ricercata. Un significativo passo avanti rispetto alla decisiva definizione del Rapporto Brundtland è arrivato dalla strategia per un vivere sostenibile realizzata congiuntamente dalla World conservation union (la cui sigla ufficiale, IUCN, è quella del vecchio nome dell’organizzazione, International union for conservation of nature), dall’Unit-ed Nations environment programme (UNEP) e dal World wildlife fund (WWF): Caring for the Earth. A strategy for sustainable living (1991; trad. it. 1991). Essa fornisce una precisazione ulteriore sul concetto di sviluppo sostenibile, che viene definito come il miglioramento della qualità della vita umana entro la capacità di carico degli ecosistemi, ovvero la capacità naturale che un ecosistema possiede di assicurare produzione di energia e di materie prime, a fini economici, senza impoverirsi e senza degradarsi. Il programma offre oltre 130 proposte operative da attuarsi a tutti i livelli: locale, comunitario, regionale, nazionale, internazionale. La parola sviluppo, sovente legata alla forma economica delle società umane, è qui sostituita con il termine vivere, in grado di comprendere appieno i concetti di stile di vita quotidiana e di responsabilità che ciascuno dovrebbe adottare per evitare eccessi nel proprio impatto sull’ambiente.
Nella storia del design vengono ricordati gli esponenti del movimento inglese Arts and Crafts (1859-1900) come i primi ad aver segnalato e criticato il degrado ambientale, aprendo un forte dibattito sui cambiamenti generati dall’espansione della produzione di tipo industriale. Uno dei fondatori del movimento, William Morris (1834-1896), nell’occuparsi del rapporto tra industria e artigianato, pur teorizzando di fatto un ritorno alle capacità produttive di quest’ultimo, intraprese una serie di attività culturali e pratiche che avevano come obiettivo il raggiungimento di una migliore qualità della vita, degli oggetti e degli ambienti. Arrivò a prefigurare una società ideale in cui natura, luoghi di produzione e abitazioni avrebbero trovato un equilibrio e l’artigianato avrebbe conquistato una nuova ragion d’essere, sia accettando di collaborare con l’industria sia riconoscendo il valore della progettazione come fondamentale premessa alla produzione in serie.
Nel corso del 20° sec., Alvar Aalto (1898-1976) pose al centro dei suoi lavori, alla pari con altri elementi, anche il rispetto per l’ambiente. Lo stesso fecero molti altri progettisti, seguendo quelle che oggi vengono indicate come le regole base per una progettazione che tenga conto della sostenibilità ambientale: alcuni in modo dichiarato (così come molte aziende storiche del design internazionale), altri in modo inconscio. Nel ricostruire il percorso del dibattito teorico – che ha visto l’Italia importante protagonista – fra gli scritti di Vittorio Gregotti va ricordato quello dedicato al design: «Nulla si crea, nulla si distrugge: tuttavia tutto si accumula in attesa di essere trasformato. Non ci sono solo più i cimiteri degli uomini, dei cani e degli elefanti: tutta la nostra periferia urbana è un cimitero di oggetti. Ciò che è partorito dalle strutture produttive decentrate confluisce nei centri di consumo, passa attraverso gli stadi della utilizzazione di prima, seconda e terza mano, e si ferma, scheletrame, a metà strada, attendendo che torni conveniente il suo ricupero» (V. Gregotti, E. Battisti, Periferia di rifiuti, «Edilizia moderna», 1965, 85, p. 28). Victor Papanek (1927-1999) nel 1971 sosteneva il ruolo e la responsabilità del progettista nel proporre le necessarie trasformazioni della società (Design for the real world. Human ecology and social change; trad. it. 1973). Tale pensiero era condiviso dal sociologo Tomás Maldonado (La speranza progettuale. Ambiente e società, 1970), che denunciava la degradazione dell’ambiente fisico ponendolo in relazione al nichilismo politico e culturale del dissenso giovanile, alle violenze della razionalità tecnocratica, alle fughe utopistiche o conformiste della progettazione ambientale, al grado di autonomia degli intellettuali nella società tardocapitalista e, infine, al rapporto tra progettazione e rivoluzione. L’obiettivo di Maldonado era quindi dimostrare che per agire contro le cause e gli effetti della nostra situazione ambientale si deve sempre iniziare recuperando la speranza progettuale, in altre parole riconducendo su nuove basi la nostra fiducia nella funzione rivoluzionaria della razionalità applicata. Analogamente, Gillo Dorfles definiva il consumismo «condizione entropica che tende a dominare l’economia e la mentalità stessa dell’uomo occidentale. […] La situazione richiede anche importanti modificazioni nella concezione dell’oggetto industriale, nella sua progettazione e distribuzione» (Introduzione al disegno industriale. Linguaggio e storia della produzione di serie, 1972, pp. 95-96).
Gli anni Settanta, dal punto di vista del progetto e della produzione, sono stati quindi segnati da queste riflessioni teoriche e dalla volontà di inquinare di meno che ha portato alle esperienze di autoproduzione di Enzo Mari (n. 1932). Iniziative certamente interessanti dal punto di vista didattico e della ricerca, che si inserivano in un’idea di austerità suggerita in un’intervista di Andrea Branzi a Maldonado (Progettare contro lo sperpero, «Modo», 1978, 6, pp. 15-16). In sintesi, se il dibattito degli anni Settanta ha riguardato l’ambiente in contrapposizione alla crescita economica e quello degli anni Ottanta non ha avuto particolari ricadute progettuali, negli anni Novanta l’attenzione si è concentrata sulla crescita e lo sviluppo, considerati come miglioramento della nostra qualità della vita a livello mondiale. Ne è conseguito quindi un atteggiamento progettuale rivolto a fattori di controllo ed efficienza delle tecnologie, dei materiali e dei prodotti, rimanendo indiscusso il ritorno all’austerità.
La mostra Il giardino delle cose, curata da Ezio Manzini e presentata alla Triennale di Milano del 1992 (con l’omonima videoambientazione di Fabio Cirifino e Paolo Rosa di Studio azzurro), ha proposto la metafora di un mondo possibile in quanto sostenibile, la ricerca di una nuova ecologia dell’artificiale dove i vincoli ambientali offrono alla cultura del progetto la straordinaria occasione di proporre soluzioni diverse, basate su rinnovati criteri di qualità. Le riflessioni sulle strategie inerenti la ‘qualità della materia’ suggeriscono approcci divenuti oggi caratteristiche essenziali del buon design contemporaneo: la riduzione della materia e dell’energia necessaria all’allungamento del ciclo di vita dei prodotti, ma anche, in alternativa, la produzione di oggetti dal ciclo di vita breve, altamente riciclabili (strategia della ‘materia medium’), e la strategia del ‘fare e disfare’, dove le singole parti dei prodotti possono essere valorizzate all’interno di nuovi cicli produttivi. Agli oggetti da consumare si contrappone il prodotto servizio, suggerendo un’idea di smaterializzazione che indica nuovi riferimenti di valore per i prodotti nati dal rapporto oggetto-utilizzatore.
Il catalogo interattivo in CD-ROM, Eco-design. Oggetti, processi, materiali (supplemento al videogiornale elettronico «ARCHInote», 1995), curato da Luigi Bistagnino e Carla Lanzavecchia, è una prima testimonianza dell’avvio di una produzione di oggetti pensati secondo le linee-guida dell’ecodesign. Se da un lato in questo periodo ci si è concentrati sulla qualità della materia, dall’altro la questione ambientale ha iniziato a essere affrontata secondo una visione complessa e sistemica.
Medardo Chiapponi ha riproposto anche in Italia, nel settore progettuale, l’idea di una visione sistemica del problema ambientale e, quindi, le possibili soluzioni. «Siamo ben lontani – egli sostiene – da una natura primordiale, immutevole ed estranea. Ci troviamo piuttosto di fronte a un sistema ambientale destinato a trasformarsi e a mutare continuamente per effetto delle azioni e delle reazioni che si svolgono tra le parti che lo costituiscono e tra ognuna di esse e la totalità» (Ambiente: gestione e strategia. Un contributo alla teoria della progettazione ambientale, 1989, p. 27).
A livello internazionale Gunter Pauli e Heitor Gurgulino de Souza, fondando nel 1994 l’istituto di ricerca Zero emission research and initiatives (ZERI), nato dall’idea che progresso e scienza non siano mali da estirpare, hanno proposto un metodo che permette di incorporare nel progresso sia il rispetto per l’ambiente sia le tecniche usate dalla natura stessa, rendendo di fatto il processo produttivo parte di un ecosistema. Proprio in questa direzione si sta concentrando la ricerca accademica: il Politecnico di Torino, per es., ha messo a punto una metodologia per la progettazione e la produzione con approccio sistemico che permette di gestire quantitativamente e qualitativamente tutto ciò che viene coinvolto realmente in un processo, al fine di coordinare ogni fase del percorso produttivo, di verificare le relazioni con altri cicli produttivi e di evitare scarti di ogni genere.
Si è assistito quindi al passaggio dal termine ecosviluppo, coniato in occasione della conferenza dell’ONU sull’ambiente umano tenutasi a Stoccolma nel 1972, all’espressione sviluppo sostenibile, che ha sancito lo spostamento dal piano locale a quello globale: i problemi ambientali dovuti allo sviluppo non hanno conseguenze solo sul territorio considerato ma investono l’intero pianeta, richiedendo appunto un approccio globale per la loro risoluzione.
Sostenibilità
La sostenibilità si traduce in qualcosa di più del tradizionale assioma ‘inquinare di meno’, difficilmente risolutivo del problema ambientale; oggi si può dire, pensare, scegliere e consumare diversamente.
Il fisico e teorico dei sistemi Fritjof Capra (The turn-ing point. Science, society, and the rising culture, 1982; trad. it. 1984) afferma che una società sostenibile si può costruire soltanto sulle fondamenta dell’ecoalfabetizzazione e dell’ecodesign; il compito principale negli anni a venire sarà applicare la consapevolezza ecologica e il pensiero sistemico per cambiare radicalmente le tecnologie e le istituzioni sociali. In questo senso il ‘design sistemico’ affronta la tematica ambientale sia con razionalità teorica sia con fantasia immaginativa, in un impegno duraturo e collettivo che coinvolge tutti gli attori del ciclo di vita di un prodotto. Più che enfatizzare l’innovazione tecnologica sembra interessante concentrarsi su cambi di mentalità a favore della sostenibilità. Nel tempo gli oggetti potranno assumere le più svariate forme e superfici, ma apparterranno tutti a nuove società globali sostenibili. Contribuire allo sviluppo sostenibile presuppone un tipo di cultura del progetto non ancora acquisita e tuttora in fase di formazione. Non si può ignorare il ruolo fondamentale del designer anche ai fini del rispetto per l’ambiente, in quanto ogni minima scelta e soluzione adottata in fase progettuale va a incidere sulle trasformazioni dell’ecosistema.
Ci si deve abituare alla complessità e soprattutto alla sistematicità del contesto in cui si vive, si produce e si agisce, ed è necessario imparare a pensare in modo sistemico: cioè in termini di interrelazioni, contesti e processi. Quando si applica il pensiero sistemico è immediato il riferimento ai principi strutturali degli ecosistemi naturali, che diventano i principi fondamentali di tutti i sistemi viventi, schemi basilari della vita. La progettazione è l’ideazione di un qualcosa e del suo modo di attuarla, ossia la modellazione di materia e di flussi di energia per gli scopi dell’uomo. Se fino a un decennio fa quest’attività veniva svolta secondo un modello lineare (progetto-processo produttivo-distribuzione e uso-fine vita-riciclo/riuso), oggi è ne-cessario spostarsi verso un modello sistemico, passare cioè da una visione in cui i problemi della progettazione di oggetti erano decontestualizzati dal luogo in cui questi venivano prodotti, usati e smaltiti, a una concezione in cui vi siano ‘zero emissioni’, proprio grazie alla messa a sistema delle singole attività e delle ricadute (output) che ne derivano in ogni fase. Sistema-tizzare il processo determina, quindi, una chiara consa-pevolezza degli output (in quantità e qualità) che permette di studiarne la valorizzazione come risorsa, come materia prima, diventando l’input per un altro processo produttivo o sistema, che a sua volta genera nuove opportunità produttive e nuovi modelli di business.
Progettare in modo sistemico permette inoltre di dare vita a inedite relazioni tra oggetti e funzioni (e quindi utenti) per ottimizzare, integrare o scindere, trasferire o rimuovere materia ed energia fino all’individuazione di funzioni nuove e oggetti innovativi. Le industrie e i sistemi produttivi che vorranno rimanere competitivi e guardare al futuro, rispondendo ai bisogni di una società sostenibile e ai rinnovati requisiti del mercato, dovranno tendere quindi verso sistemi integrati che superino il concetto di strategia e di core business e avvicinino i loro processi ai cicli della natura. Proprio la natura, capace di agire sempre con efficienza e qualità, autoregolandosi costantemente, è il punto di riferimento e di ispirazione di questo nuovo modello produttivo: osservata nei fenomeni, nelle leggi che la regolano, nelle azioni conseguenti, se ne deducono processi e materiali ‘naturalmente’ prestazionali.
Attori
Per seguire il modello naturale al fine di risolvere i problemi ambientali causati dalle nostre produzioni, è necessario che progettisti e imprenditori comprendano appieno i fenomeni industriali senza isolarli dal contesto e sviluppino soluzioni non precostituite, né confinate nella consuetudine. Il modello presuppone per le aziende un’innovazione più rapida e meno rischiosa, con un aumento di produzione e una riduzione dell’uso delle risorse, una maggiore qualità a costi inferiori, con l’ambizioso progetto di far coincidere obiettivi sociali, economici e ambientali. La problematica risulta complessa e trasversale a tutte le attività umane; pertanto i comportamenti umani (non solo quelli dei progettisti o dei produttori) assumono un peso sostanziale, e inducono enti pubblici e privati a svolgere costanti attività orientate a promuovere comportamenti corretti sotto il profilo ambientale.
Produttore
Negli ultimi anni, la sfera degli interessi economici si è estesa in modo capillare, con inevitabili ripercussioni in tutti i settori. Si tratta del fenomeno della globalizzazione, definito dall’Organisation for economic co-operation and development (OECD) un processo attraverso il quale mercati e produzione nei diversi Paesi diventano sempre più interdipendenti, in virtù dello scambio di beni e servizi e del movimento di capitale e tecnologia. Si è così creato un supermercato dell’offerta in cui è possibile produrre e scambiare merci in ogni dove, un mercato fluido e interconnesso. Una ‘modernità liquida’, per citare il sociologo Zygmunt Bauman (2000), che ha avuto effetti noti ormai a tutti nei contesti culturali, sociali e imprenditoriali dei Paesi industrializzati, i quali fino a poco tempo fa erano svincolati dalle incertezze economiche e politiche che da sempre caratterizzano i Paesi in via di sviluppo. In un’ottica di sostenibilità, se si vogliono concretamente affrontare le criticità causate dalla globalizzazione, è necessario agire con una pratica interdisciplinare e all’interno di una visione complessa. Quest’ultima dovrà tenere conto dei valori legati all’uomo, secondo principi di innovazione umanistica che fondino la misurazione dello sviluppo su parametri non quantitativi ma qualitativi, come la qualità della vita, dell’ambiente, del livello di istruzione, dei servizi, ossia indici che manifestano il grado di benessere non materiale ma morale delle persone. In questa visione complessa della gestione delle relazioni politiche ed economiche tra i Paesi e dei rapporti sociali all’interno dei singoli Stati, a detta del World business council for sustainable development (WBCSD, che nell’ottobre 2009 riuniva circa 200 aziende internazionali), il perseguimento della sostenibilità richiede certamente profonde modifiche concettuali nel mondo del business senza per questo venire meno agli interessi della produzione, specialmente se per raggiungere tale obiettivo si segue e si rinnova anche una logica industriale. E proprio dall’introduzione dei parametri ambientali possono nascere nuove opportunità imprenditoriali e altri terreni di competizione.
Nella situazione contemporanea è fortunatamente consolidato il fatto che una progettazione che segua le logiche o le linee guida della sostenibilità ambientale comporta quasi sempre anche risparmi e vantaggi in termini economici per le aziende produttrici; così come il fatto che gli investimenti iniziali per trasformare impianti obsoleti e inquinanti in moderne ed efficienti strutture sono ammortizzabili in breve tempo. La crescente attenzione all’ambiente, d’altra parte, mette tutti più a rischio di speculazioni, in quanto vengono qualificati come ‘verdi’ anche quei prodotti che non hanno i necessari requisiti di sostenibilità (greenwashing). Risulta quindi difficile capire e scegliere che cosa sia giusto o sbagliato, dal momento che sul tema sostenibilità un’auspicabile risposta certa e definitiva risulta sempre difficile. In molti casi, la scelta consapevole e opportuna si basa su una valutazione del contesto d’uso in cui i beni e le azioni si inseriscono. Anche l’azione di boicottaggio personale e non violento da parte dei consumatori consapevoli ha portato alla responsabilizzazione dei comportamenti etico-produttivi di molte multinazionali. Pur se si deduce, da quanto detto, che gli iniziali comportamenti etici e sostenibili da parte delle aziende siano stati mossi da logiche di gestione dell’immagine, oggi si può affermare che le cose stanno, sia pur lentamente, cambiando. La pratica della corporate social respon-sibility, per es., si fonda proprio sul fatto che le imprese debbono rendere conto del proprio operato e dei corretti comportamenti, nel rispetto dell’ambiente, ai propri azionisti e soprattutto ai cosiddetti stakehold-ers, ossia clienti, fornitori, finanziatori, collaboratori, ma anche gruppi di interesse esterni, come nel caso dei residenti nelle aree limitrofe agli stabilimenti oppure dei gruppi di interesse locali.
Designer
Il ruolo del designer si svilupperà in una direzione sempre meno identificabile, ma in grado di incidere in modo decisivo. Come testimoniano gli esempi delle filosofie design driven innovation (capacità di innovare secondo un modello tipico del design basato su saperi che legano dimensioni sociali a quelle economiche e produttive) e human driven innovation (l’innovazione a partire dagli utenti come fondamentale risorsa nel processo di crescita), il ruolo del designer nel processo del design sistemico è fondamentale perché può attingere a bacini di sapere e di esperienze che vanno dalla matematica alle scienze biologiche, dalla vita dell’uomo alle scienze sociali, fino a quelle della natura, per dedurne non solo forme ma soprattutto conoscenza dei fenomeni, delle azioni e delle leggi che regolano gli uni e gli altri. In questo modo è possibile concretizzare un’integrazione tra cultura produttiva e ricerca progettuale che faccia emergere connessioni e coerenze oggi nascoste tra industria e natura, verso scenari efficienti e sostenibili, e secondo una metodologia che in verità è stata applicata di frequente in tutti i capolavori del design del passato, frutto di convergenti competenze di imprenditori, ingegneri, operai e, naturalmente, progettisti.
Il designer è chiamato ad andare oltre lo sviluppo di prodotti ecocompatibili, tendendo a suggerire comportamenti sostenibili, a prefigurare scenari di vita in radicale soluzione di continuità con il presente, rinunciando anche alla tradizionale funzione di progettista della forma/funzione per diventare progettista di relazioni. Il rispetto per l’ambiente e per il prossimo, fattori che appartengono alla definizione di sviluppo sostenibile, transitano, infatti, attraverso i concetti di collaborazione e condivisione, che fanno entrambi riferimento alla capacità di relazionarsi con il prossimo (inteso anche come prossima generazione).
Consumatore
A condizionare quasi spontaneamente le scelte operate nella vita quotidiana è un atteggiamento consumistico che rende nei fatti quasi impotente il sentimento ecologico, seppure abbondantemente diffuso. Non siamo stati abituati a valutare le ricadute generate dai nostri comportamenti in termini di flussi di materia e di energia che coinvolgono anche gli altri componenti del sistema socioeconomico. Si comprano o si abbandonano prodotti o beni con assoluta leggerezza e, a livello progettuale, non si ha ancora la consapevolezza di contribuire, con il proprio lavoro, a perseguire questo cammino, additando la cattiva educazione ambientale come causa dei problemi ecologici.
Anche le scienze psicologiche si stanno da tempo occupando del rapporto tra sostenibilità e comportamenti, al fine di analizzare le reazioni al problema e indagare modi e strumenti che incoraggino un comportamento ambientalmente adeguato. In molti sostengono che atteggiamenti rilevanti derivino da abitudini e valori personali preesistenti e che i cambiamenti a favore dell’ambiente avvengano sovente per scelte inconsapevoli e non dovute direttamente all’interesse verso l’argomento. Alla luce di queste indagini, è ancora più importante spingere verso una consapevolezza condivisa del problema e delle azioni che si compiono quotidianamente. Un ruolo determinante è affidato al consumatore che, attraverso le sue scelte, può agire in modo incalzante con una richiesta di maggior contenuto etico e di atteggiamento di tutela dell’ecosistema e dei suoi abitanti. Questa evoluzione ulteriore dei fruitori verso una consapevolezza del rispetto dell’ambiente (e quindi di sé stesso e del prossimo) può avere reali e tangibili ripercussioni sul mercato e, di conseguenza, inevitabili adeguamenti da parte di imprenditori e progettisti. In mancanza di tali pressioni, infatti, il ruolo del design potrebbe risultare senz’altro meno rilevante.
Strategie
Per affrontare le questioni che legano il design del prodotto ai problemi ambientali è necessario mettere in discussione alcuni fondamenti del design contemporaneo. Le esigenze ambientali sono diventate suoi prerequisiti, e i progetti futuri dovranno scaturire sempre più dallo studio delle richieste funzionali, semantiche e ambientali che possono nascere dal rapporto tra l’uomo e il territorio in cui vive. Dopo decenni di intenso dibattito, si può oggi affermare che la tematica ambientale è diventata motore di sviluppo economico e di innovazione scientifica e tecnologica, ma non sempre propulsore per la produzione di nuove tipologie di oggetti, propositive di stili di vita più ecocompatibili. È essenziale perciò ripensare ad alcuni principi dell’innovazione, come la funzionalità, il simbolismo, la cultura, la tecnica produttiva, e indirizzare il progetto verso un’etica attenta alla qualità della vita e degli artefatti umani, all’interno di un ecosistema complesso e sensibile. Le macroaree di interesse, in cui i prodotti industriali hanno trovato maggiori applicazioni e più ampio sviluppo, sono l’utilizzo di tecnologie innovative di supporto alle scelte e alle attività umane, il trattamento e l’uso delle fonti materiche ed energetiche.
La tecnologia
Rispetto al design e alla questione ambientale, la tecnologia assume un ruolo importante: a essa è strettamente connesso il prodotto industriale, e gli oggetti presentano, da sempre, un contenuto tecnologico che si riferisce al processo produttivo, all’architettura dell’oggetto o alla sua funzionalità. Quello che appare attualmente rilevante è la moltiplicazione e l’invasività delle tecnologie, il loro nuovo modo di manifestarsi (virtuale e dematerializzato) e ciò che tali caratteristiche determinano nei comportamenti e nel processo globale del progetto.
Come scrive Donald A. Norman, «la sfida sta nell’arricchire le nostre vite di dispositivi intelligenti capaci di accompagnarci nelle nostre attività, dotati di capacità complementari alle nostre, capaci di farci avere più risultati, più benessere, più scelte, non più stress» (2007; trad. it. 2008, p. 132).
Scienza e tecnologia possono essere strumenti possibili per affrontare i problemi ambientali e sociali e, al tempo stesso, per soddisfare le esigenze e i bisogni della società contemporanea, ma sono ancora troppo ‘energivori’ e altamente impattanti. Le grandi sfide, le scoperte scientifiche e le innovazioni tecniche, inevitabilmente legate al mondo degli artefatti, hanno ricadute anche sui nostri comportamenti: assume un ruolo determinante il progettista capace di gestire le novità tecnologiche, di trovarne applicazioni inedite e di orientare la ricerca nelle direzioni più corrette, al fine del soddisfacimento di bisogni reali e secondo un’ottica di sostenibilità. Come Nokia Morph, il nuovo concept proposto nel 2007 dal Nokia research center (NRC) in collaborazione con il Nanoscience centre dell’università di Cambridge: un telefono cellulare innovativo non solo dal punto di vista tecnologico ma anche, e soprattutto, per i nuovi comportamenti che suggerisce e per lo scenario che prefigura. Attraverso l’uso della nanotecnologia − disciplina che si occupa della materia su una scala inferiore al micrometro − il classico apparecchio di comunicazione mobile diventa estremamente versatile, sia nella forma sia nella funzionalità, permettendo la flessibilità dei materiali, la trasparenza dei componenti elettronici e l’autopulizia delle superfici. La tecnologia applicata a una scala così ridotta, come le nanoparticelle, consente ai materiali e alle componenti del cellulare di essere flessibili, elastici, trasparenti e soprattutto resistenti. L’elettronica integrata presente nel progetto, pur aggiungendo molte funzionalità in uno spazio più ridotto, non è più costosa di quella tradizionale, e garantisce un migliore utilizzo dell’interfaccia. La superficie, studiata al ‘nanodettaglio’, è, come s’è detto, autopulente e riduce la corrosione, proprio come farebbero dei ‘nanofiori’ che respingono naturalmente l’acqua, lo sporco e le impronte digitali. In questo modo si ottengono buoni risultati sia dal punto di vista estetico sia da quello ambientale, perché si allunga la vita del prodotto, disincentivando la sostituzione compulsiva di un oggetto ancora funzionante. Quest’ultimo è solo uno degli aspetti che rendono il concept attento ad assolvere anche a esigenze di tipo ambientale. Infatti la superficie riesce a catturare l’energia solare come se fosse un ‘nanoprato’ e a immagazzinarla in piccole e sottili batterie. Questa tecnologia integrata all’oggetto costituisce un ulteriore progresso rispetto ad alcuni attuali telefoni cellulari con possibilità di ricarica della propria batteria attraverso apparecchi esterni alimentati a energia solare. Inoltre, i materiali utilizzati sono biodegradabili e rendono le fasi di produzione e di dismissione dell’oggetto, facili ed eco-friendly. Il telefono cellulare è dotato di nanosensori che sono in grado di testare le condizioni ambientali esterne, come l’inquinamento dell’aria, individuando sostanze nocive per l’uomo. Tale nuova capacità permette di monitorare in modo facile e immediato l’ambiente che ci circonda, oppure semplicemente di valutare se un cibo, per es. una mela, che siamo in procinto di mangiare, sia sufficientemente pulito. Nell’ottica di un cambiamento profondo di approccio e di relazione con il mondo circostante che veda coniugati il benessere dell’uomo e quello dell’ambiente, Morph fornisce una serie di dati che consentono all’utente di prendere decisioni consapevoli a favore di una migliore qualità di vita.
Nel 2015, secondo le previsioni di Nokia, un’applicazione palmare integrata concretizzerà tutte le peculiarità di questo concept, oggi solo un’ipotesi progettuale. La progettazione di prodotti nanotecnologici (molti ancora in fase di prototipo) prevede invece che il comportamento degli oggetti, fino addirittura alla loro trasformazione, venga definito sulla base delle informazioni rilevate dai sensori presenti nei materiali: oggetti dotati di una pelle come quella degli uomini che reagisce ai cambiamenti del clima, accumulando o disperdendo energia termica del Sole in relazione alle stagioni e al passaggio dal giorno alla notte; prodotti che reagiscono ai comportamenti degli utenti, capaci addirittura di far scivolare via lo sporco (portando così a una riduzione di manutenzione e lavaggio con detergenti inquinanti). Le nanotecnologie possiedono le potenzialità per condizionare profondamente l’evoluzione dei prossimi secoli, e il loro sviluppo in senso sostenibile è un aspetto determinante. Appare dunque necessario valutarne l’eventuale tossicità, capire la disponibilità di metodi per prevedere e soppesare il possibile impatto sull’ambiente e sulla salute dei nanomateriali (e quindi degli oggetti) nel loro ciclo di vita.
Il concetto di automazione e le tecnologie per gestire, al posto dell’uomo, alcune funzioni, sono al centro degli interessi progettuali contemporanei e hanno sovente un ruolo importante nell’utilizzo delle risorse e nella riduzione degli sprechi. Tali tecnologie possono essere fondamentali anche per definire nuovi modi di progettare le case, gli uffici e gli oggetti in essi contenuti: si parla di home o building automation, ovvero di sistemi di automazione (domotica) che permettono di controllare e gestire in modo intelligente gli impianti, in un’ottica di energy saving, associando benessere e risparmio energetico. Per questi sistemi i designer sono impegnati, e lo saranno sempre più, nella progettazione delle funzioni/comportamenti e delle interfacce uomo/tecnologia.
Tra le tecnologie più recenti, e per questo non ancora sicure in un’ottica di sostenibilità, vi è il radio frequency identification tag (RFID tag), che avrà un notevole impatto sulla progettazione e produzione degli oggetti futuri. Si tratta di un sistema per l’identificazione automatica di oggetti o persone, evoluzione del codice a barre o delle bande magnetiche, che si basa sulla lettura a distanza, da parte di appositi strumenti, di informazioni contenute appunto in un RFID tag. Quest’ultimo è costituito da un microchip contenente dati (tra cui un numero univoco universale scritto nel silicio), un’antenna ed eventualmente una batteria. Un tag è in grado di ricevere e di trasmettere via radiofrequenza le informazioni contenute nel chip a un ricetrasmettitore, dotando quindi l’oggetto di una memoria storica per tutte le fasi della sua esistenza: chi lo ha prodotto e in che modo, chi lo ha posseduto e come lo ha trattato, e così via. Può diventare uno strumento necessario per conoscere tutte le caratteristiche di un oggetto e per trattarlo di conseguenza in fase di acquisto, distribuzione e, in particolare, a fine vita.
Una questione fondamentale legata all’innovazione è la necessità di condividere la conoscenza: solo così la tecnologia potrà avere un impatto significativo sulla causa ambientale. Siamo abituati a ragionare sulla cooperazione globale in aree come la politica monetaria, il controllo delle malattie o la proliferazione delle armi nucleari. Siamo invece meno abituati a pensare alla collaborazione per promuovere nuove tecnologie, come le energie pulite, il vaccino per la malaria o le coltivazioni resistenti alla siccità per gli agricoltori africani. Per di più, siamo soliti considerare le nuove tecnologie come qualcosa che deve essere sviluppato in termini di mercato e non come opportunità per la risoluzione di problemi globali.
I materiali
La sostenibilità di un materiale deriva certamente da alcune sue caratteristiche intrinseche date dal reperimento o dalla lavorazione, ma soprattutto dal contesto e dalle modalità in cui viene utilizzato. Si tratta di coerenza progettuale, di capacità nel selezionare e utilizzare il materiale giusto per rispondere a precise qualità e funzioni richieste da un oggetto, sebbene la scelta non debba diventare, come talvolta capita, un modo per ostentare prestazioni non richieste. Un valido supporto ai progettisti per la valutazione quantitativa di materiali e processi è costituito dalle banche dati on-line o informatiche, che offrono informazioni più o meno generiche anche in relazione alle prestazioni ambientali. Importanti sono i sistemi di certificazione ambientale dei materiali secondo le norme ISO 14025; possono offrire ulteriore ausilio ai progettisti, sebbene in alcuni Paesi, tra cui l’Italia, non abbiano trovato ampio terreno di diffusione e facciano tuttora fatica a essere adoperati. Gli strumenti per valutare e per conoscere il binomio materiali-sostenibilità sono legati all’idea che la soluzione corretta e possibile al problema dell’uso delle risorse sia impiegare materiali di origine biologica o generati da un processo di riciclo.
I biomateriali derivano da materie prime vegetali non inquinanti e rinnovabili annualmente, frutto quindi di raccolto stagionale, con l’obiettivo di ridurre al minimo l’utilizzo di risorse non rinnovabili o rinnovabili in tempi troppo lunghi rispetto alla capacità di metabolizzazione dell’ecosistema. Un esempio di questo tipo di materiale, ampiamente diffuso negli ultimi anni, è costituito dai biopolimeri. Direttamente prodotti da sistemi biologici di piante, animali o microrganismi (la gomma naturale, la lignina o le proteine come la cheratina o il collagene ecc.) o frutto di una sintesi chimica da molecole di origine biologica (da zuccheri, amidi, oli e grassi), i biopolimeri sono oggi applicati nel mondo degli imballaggi, dell’orticoltura e nelle applicazioni biomediche, ma si prevede un ulteriore sviluppo anche in altre tipologie di oggetti. La loro biodegradabilità esclude, inoltre, le operazioni di riciclaggio e riduce gli impatti dello smaltimento. I biomateriali possono essere depositati in discarica senza conseguenza di rilascio di sostanze dannose e la loro decomposizione naturale favorisce la riduzione di volume in tempi brevi. Al termine del loro ciclo funzionale, possono essere impiegati come concime in virtù delle sostanze fertilizzanti di cui sono costituiti; nel caso, invece, di un necessario incenerimento, emettono emissioni minori di fumi tossici rispetto ai materiali tradizionali o di origine idrocarburica. Per es., seguendo le orme di alcune aziende estere, anche l’azienda italiana di imbottigliamento d’acqua Fonti di Vinadio S.p.A. ha trasformato la sua catena produttiva con l’obiettivo di realizzare bottiglie biodegradabili al 100% in acido polilattico (PLA), derivato dalla fermentazione del mais. Le preforme delle bottiglie, simili a provette, vengono soffiate ad alta temperatura in stampi che consentono di ottenere la configurazione classica di bottiglia. Il PLA è un materiale che si degrada nell’ambiente in 80 giorni, non necessita di trattamenti, in quanto deriva da una sostanza naturale, e rilascia elementi non nocivi; permette inoltre la riduzione delle emissioni di CO2 del 50% rispetto al tradizionale polietilene tereftalato (PET). È necessario anche evidenziare che per rispondere ad alcune critiche sull’utilizzo particolarmente difficoltoso del PLA nelle produzioni industriali, alcuni studi stanno proponendo di sostituire i prodotti agricoli per l’estrazione dell’amido impiegando al loro posto dei rifiuti solidi organici. Questo tipo di soluzione, inoltre, placherebbe le attuali critiche nei confronti di questo materiale, incolpato di sottrarre cibo alle popolazioni dei Paesi in via di sviluppo.
Altre soluzioni progettuali legate all’uso della materia per diminuire il suo fardello ecologico sono il riciclo e il riuso che, con significati diversi, si basano sulla rivalutazione e valorizzazione dello scarto. Il riciclaggio implica il reimpiego della materia in un nuovo ciclo produttivo, fino al riciclo nei termovalorizzatori per produrre altro calore ed energia (azione da svolgere solo quando si è certi che la materia non possegga più nessun tipo di qualità tecnico-funzionale che le permetta di essere impiegata in un processo). Riciclare è diventata una pratica diffusa in molte aziende, valutata come ultima alternativa alla riduzione e al riuso, in particolare nel caso del riciclo dei rifiuti, e importante strumento per sfruttare al massimo le energie intrinseche nei materiali già prodotti. Abitudine, quella del riciclo, che anche in passato veniva osservata dalle imprese, seppure non comunicata per via della scarsa consapevolezza che ancora caratterizzava la massa dei consumatori. L’attenzione al riciclaggio, come requisito di progetto, ha spinto designer e produttori a occuparsi della fine vita degli oggetti innescando il circolo virtuoso che pensava al prodotto ‘dalla culla alla tomba’, poi evoluto in ‘dalla culla alla culla’. Nel settore del design sostenibile spesso è elevato il rischio di interpretare la realtà in modo parziale: lunghi sono stati i dibattiti, per es., sui costi ambientali dei processi di riciclaggio, spesso spinti più da logiche economiche che scientifiche. Quando si parla di materiali di riciclo, la classificazione parte delle origini, ossia da scarti, rifiuti o eccedenze dei processi produttivi o delle attività di consumo. In entrambi i casi, questi residui possono essere preconsumo e postconsumo, determinando quindi le caratteristiche fisiche e meccaniche dei materiali. Si è ormai scardinato il preconcetto che i materiali di riciclo siano qualitativamente inferiori a quelli vergini: oggi esiste la consapevolezza che i materiali di riciclo sono materiali nuovi, diversi, con caratteristiche specifiche da scegliere secondo le esigenze prestazionali. È quindi generalmente condivisa l’opinione che i rifiuti costituiscano una risorsa. Gli anni Ottanta e Novanta sono stati segnati da un’estetica del materiale di riciclo fortemente caratterizzata da superfici visivamente disomogenee, risultato di un processo di riciclaggio di materiale eterogeneo. Oggi, grazie anche a un’intensificazione della raccolta differenziata dei rifiuti, i materiali di riciclo presentano finiture che spesso non dichiarano il processo subito. Nella produzione di oggetti ecocompatibili, è fondamentale preferire materiali di riciclo per prodotti nuovi e, laddove questo non fosse possibile, scegliere materiali successivamente riciclabili. In Italia, per es., le bottiglie di plastica recuperate e consegnate ai consorzi del riciclo sono utilizzate dalla società La sphera per realizzare nuovi prodotti. Si tratta di un sistema costituito da cestelli per la spesa, portacestelli e carrelli realizzati con il riciclo del PET, proveniente dalla raccolta differenziata. Eko 23 è un cestino utilizzato sia per il trasporto degli acquisti nel punto vendita sia per il trasferimento dei beni a casa. All’interno del punto vendita il cestino può essere utilizzato singolarmente o incastrato nel porta cestini Logic 75, andando a formare un autentico carrello della spesa. La produzione utilizza 23 bottiglie usate per il cestino, 75 per il portacestini e 250 per il carrello della spesa standard (Logic 250). L’utilizzo di un polimero di riciclo ha lo scopo di evitare i sovraccarichi di tensione e i campi elettromagnetici nell’ambiente causati dai carrelli tradizionali in filo metallico.
Il riutilizzo, invece, intende promuovere l’uso di un oggetto o di sue parti per lo svolgimento di un’altra funzione. Riusare un oggetto per la stessa funzione è certamente un’azione semplice da compiere; diversamente, le iniziative basate sul principio del riutilizzo di un oggetto o di un suo componente per dare origine a un nuovo prodotto sono ancora legate a un fare artigianale o artistico piuttosto che ai metodi organizzati del progetto industriale. Tale invito è stato accolto esclusivamente dal mondo dell’arte, non da quello del design, per via della difficoltà nel sistematizzare e organizzare la gestione di rifiuti omogenei necessari al riuso e all’avvio di una produzione industriale. A eccezione delle note esperienze nate in contesti e in Paesi in via di sviluppo, la progettazione e la produzione di oggetti realizzati con materiali o componenti riusati hanno in genere dato origine ad aziende nuove, legate al mondo degli accessori e guidate da giovani imprenditori. Il caso del vasetto di Nutella Ferrero costituisce un interessante esempio di pack-aging pensato, fin dalle sue origini nel 1964, per essere riutilizzato come bicchiere, vasetto o tazza per la tavola e nella cucina. Le ricerche hanno dimostrato che il successo del prodotto è stato in parte favorito proprio dalla scelta di proporre lo stesso prodotto in contenitori di vetro sempre nuovi, arricchiti, a partire dal 1990, con le serigrafie di protagonisti dei fumetti e dei cartoni animati. Anche in caso di dismissione, il contenitore di Nutella è caratterizzato da pochi elementi materici e facilmente separabili: il vetro del vasetto, la carta dell’etichetta (rimovibile con acqua), il coperchio in polietilene low density, che è quindi riciclabile, e il sigillo di garanzia in materiale plastico termoretraibile, anch’esso riciclabile.
Le energie
L’energia è uno dei fattori fondamentali che determina la competitività dell’economia di un Paese e la qualità della vita della popolazione. Nella società delle reti tutto si tiene ed è tenuto insieme da flussi energetici e materiali, un po’ come aria, acqua, terra e fuoco, i quattro elementi fondamentali di Empedocle, erano tra loro interconnessi. Tempi e spazi globali implicano la disponibilità permanente di energia nelle sue varie forme e in particolare di quella elettrica. La sua valutazione economica fornisce un indice quantitativo della sua importanza (basti pensare al prezzo del petrolio), ma solo quando ci si trova di fronte a situazioni di emergenza, come i black-out che hanno investito tutto il mondo negli ultimi anni, se ne percepiscono i risvolti qualitativi. Queste crisi sono sempre più frequenti a causa della crescente complessità del sistema. La società globalizzata sfiora i limiti dello sviluppo, e con ciò diventa cosciente sia della sua dipendenza dalle fonti energetiche sia della necessità di trovare una condizione di sostenibilità a tali consumi. Le materie prime che permettono di produrre energia acquistano un ruolo cruciale sovranazionale, determinando scenari politici ed economici mondiali. La situazione si acuisce quando le risorse sono fonti non rinnovabili oppure generano rischi ambientali elevati. La maggiore richiesta energetica trova attualmente risposta in una duplice azione: un crescente sfruttamento delle risorse del pianeta e una maggiore ricerca dell’efficienza energetica. Entrambe queste soluzioni creano, tuttavia, un circolo vizioso che non permette a lungo termine di garantire lo sviluppo sostenibile che ci si auspica.
L’accesso all’energia è un diritto di ogni essere umano, ma è anche un bene comune, sentito cioè come bisogno necessario e condiviso dalla società. Le pretese legittime di approvvigionamento energetico hanno valore solo in condizioni di limite o di sostenibilità, seguendo i principi etici di responsabilità e precauzione. Oltre a essere gli elementi cruciali per la crescita socioeconomica e la riduzione della povertà di un Paese, la produzione di energia e il suo uso sono anche al centro di numerose discussioni di carattere ambientale. Attualmente, contribuiscono per più del 75% all’emissione dei gas serra e producono la maggior parte delle sostanze acidificanti immesse nell’ambiente. Un sicuro approvvigionamento energetico è essenziale per lo svolgimento di tutte le attività dell’uomo, ma è necessario che tutto ciò non comporti la perdita di qualità ambientali.
In questo contesto, il WBCSD, in collaborazione con IBM, Nokia, Pitney Bowes e Sony, ha proposto nel gennaio 2008 gli eco-patent commons. Tale progetto internazionale, ispirato al modello open source e sulla scia dei creative commons, si propone l’obiettivo di esaminare e rendere pubblico qualsiasi brevetto che presenti caratteristiche innovative per la tutela dell’ambiente e la cui eventuale applicazione offra benefici di tipo ecologico. Tra questi, la conservazione dell’energia, l’aumento dell’efficienza energetica e dei combustibili, l’incremento delle opportunità di riciclaggio, la prevenzione dell’inquinamento, l’utilizzo di materiali o sostanze nel rispetto dell’ambiente, la riduzione del consumo di acqua. L’adesione al progetto eco-patent commons è aperta a tutti, anche ai privati che volessero proporre e scambiare brevetti propri (previa valutazione di questi ultimi da parte dell’organizzazione).
La ricerca incessante per lo sfruttamento di fonti alternative al petrolio che utilizzano elementi naturali rinnovabili (biomassa) o non esauribili (vento, Sole, idrogeno, acqua) e presenti in loco, ha indotto i designer e le aziende a occuparsi di tipologie inedite di prodotto. La produzione di energia cosiddetta verde o pulita si può ottenere attraverso combustione controllata di biomassa, pale eoliche, celle fotovoltaiche o celle a combustione (fuell cells) per la trasformazione dell’idrogeno, la cui più semplice e immediata applicazione sul mercato è costituita dalle polymer electrolyte membrane (PEM).
Gli strumenti che cercano di rendere disponibili e diffuse queste forme alternative di energia sono, per es., alcuni prototipi di pale per la produzione di energia eolica. Il designer Philippe Starck (n. 1949) ha progettato (2008) per Pramac un generatore di energia in policarbonato con motore integrato, dotato di una turbina a vento di piccole dimensioni, che potrebbe permettere a chiunque di produrre energia in modo autonomo. Il prototipo Solar tree, disegnato nel 2007 dall’industrial designer Ross Lovegrove (n. 1958) per Artemide, è un sistema di illuminazione urbana a LED costituito da un albero di tubi d’acciaio che sostengono bolle di luce, ciascuna delle quali accoglie 38 celle solari collegate a un sistema di batterie e di dispositivi elettronici celati nel basamento.
L’idea alla base del concept per una bicicletta ibrida (la Semi-powered bike) sviluppato nel 2001 da Johan Persson (n. 1971) dello studio svedese No Picnic per Aprilia, è l’abbinamento del moto muscolare a quello assistito a idrogeno, che dovrebbe rendere la bicicletta un mezzo più confortevole e veloce, seppure non inquinante. Il prototipo, con un’autonomia di 70 km, è infatti alimentato in parte dalle celle combustibili e in parte dalla forza fisica impressa durante la pedalata, in modo da ridurre lo sforzo dell’utente, che ha così la sensazione di viaggiare costantemente in discesa. Per arrivare al progetto finale, i progettisti hanno analizzato l’intero ciclo di vita dell’oggetto, dalla selezione dei materiali ai metodi di produzione, fino all’uso e alla fine vita del prodotto. Gli elementi che permettono la trasformazione del mezzo risultano integrati nella struttura della bicicletta: il serbatoio dell’idrogeno è posto in corrispondenza della canna, mentre sotto la sella trovano spazio le celle combustibili. Queste, diversamente dalle normali batterie, non vengono ricaricate, ma funzionano grazie all’idrogeno introdotto nel serbatoio, mentre l’unico scarto previsto è la produzione di acqua (quindi non inquinante). La Semi-powered bike costituisce un possibile scenario per le aziende impegnate nella produzione di veicoli a due ruote, suggerendo nuove prospettive in un mercato sempre più attento alle questioni ambientali.
Le riflessioni intorno al futuro dei mezzi di trasporto, a come potrebbero apparire e, soprattutto, a che tipo di alimentazione sia possibile immaginare in considerazione dell’emergenza ambientale, hanno portato i designer a sviluppare molteplici progetti che fanno leva sulle fonti d’energia più varie. Fino a mettere in discussione l’odierno asservimento alla tecnologia da parte dell’utente e riconsiderare l’importanza del fare a mano. La tecnologia a volte può rivelarsi non solo la soluzione meno divertente, ma addirittura quella meno logica: per es., nel caso della preparazione del cibo, persino le fasi più intuitive e meno complesse finiscono per dipendere completamente da un bottone di azionamento on/off e da una presa elettrica attaccata alla corrente. Il designer olandese Dick van Hoff (n. 1971) propone provocatoriamente, con The tyranny of the plug (2003), una serie di macchine da cucina quali frullatore, sbattitore, tritatutto e spremiagrumi che si azionano caricandole manualmente o alimentandole con un’apposita manovella sino a lavoro compiuto. La sostenibilità del progetto di van Hoff risiede nel tentativo di rendere consapevole l’utente del tacito e poco ponderato affidamento a energie e intelligenze esterne all’uomo, della diffusa fiducia nell’high tech, della quale dovremmo invece valutare l’efficienza effettiva per ogni singolo oggetto nel proprio contesto d’uso. Nel caso di van Hoff, l’impegno per l’ecocompatibilità porta a prediligere la componente hardware a quella software, generando prototipi fortemente materici e perfettamente funzionanti nonostante siano azionati manualmente, perciò completamente slegati dall’energia elettrica. Inoltre i ‘manodomestici’ di van Hoff si caratterizzano per il numero ridotto di componenti e per la riconoscibilità delle singole parti, cui viene assegnato il materiale più adatto in base alla funzione da espletare (ceramica, vetro, acciaio, legno). Il progettista traduce il proprio statement in un design avulso da ogni influenza stilistica: l’onestà nell’uso del materiale e nella definizione delle forme rende quindi le sue macchine adatte a qualsiasi ambiente-cucina.
Infine, la tematica energetica come elemento per lo sviluppo di un Paese diventa fondamentale soprattutto in quelli in via di sviluppo, in cui il trasferimento di tecnologie sicure ha dato origine a una serie di progetti e riflessioni appartenenti a un altro territorio del design contemporaneo: il social design. L’organizzazione non-profit One laptop per child (OLPC), creata da membri del MIT Media lab (fra cui Nicholas Negroponte), per es., ha lanciato nel 2005 100$ laptop, un progetto per la realizzazione di un personal computer a basso costo. Si tratta di un piano complesso e visionario, nato dal desiderio di colmare il gap tecnologico esistente tra i Paesi in via di sviluppo e quelli ‘sviluppati’. Negroponte, in collaborazione con alcuni partner quali Advanced micro devices (AMD), Brightstar, Google, New corporation, Nortel e Red hat, ha realizzato un prodotto economico, caratterizzato da una manovella per generare con un gesto meccanico i 2-4 watt necessari per la ricarica, senza rinunciare, tuttavia, all’aggiornamento tecnologico, a un ottimo design e al comfort di utilizzo.
Bibliografia
E. Manzini, C. Vezzoli, Lo sviluppo di prodotti sostenibili. I requisiti ambientali dei prodotti industriali, Rimini 1998.
Z. Bauman, Liquid modernity, Cambridge 2000 (trad. it. Roma-Bari 2002).
C. Lanzavecchia, Il fare ecologico. Il prodotto industriale e i suoi requisiti ambientali, Torino 2000.
P.C. Stern, Toward a coherent theory of environmentally significant behavior, «Journal of social issues», 2000, 3, pp. 407-24.
W. McDonough, M. Braungart, Cradle to cradle. Remaking the way we make things, New York 2002 (trad. it. Torino 2003).
D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers, Limits to growth. The 30-year update, Hartford (Vt.) 20043 (trad. it. Milano 2006).
G. Agostinelli, M. Agostinelli, U. Biggeri et al., Energia. Rinnovabilità, democrazia, Milano 2005.
J. Thackara, In the bubble. Designing in a complex world, Cambridge (Mass.) 2005 (trad. it. Torino 2008).
W. Aprile, S. Mirti, Un computer vi salverà, a cura di L. Mascheroni, «Domus», 2006, 896, p. 250.
M. Bonnes, G. Carrus, P. Passafaro, Psicologia ambientale, sostenibilità e comportamenti ecologici, Roma 2006.
C. Donolo, Legami elettrici, «La nuova ecologia», novembre 2006, n. monografico: Orgoglio rinnovabile, a cura di S. Ferraris.
Antologia di saggi sul design in quarant’anni di Op.cit., a cura di A. De Martini, R. Losito, F. Rinaldi, Milano 2006 (in partic. L. Pietroni, Il dibattito italiano su design e ambiente, pp. 311-28).
Design distinction. $110 laptop, «I.D. annual design review 2006», 2006, p. 210.
D.A. Norman, The design of future things, New York 2007 (trad. it. Milano 2008).
Continuum Milano 87-07. Twenty years of design driven innovation, a cura di A. Bassi, Milano 2007.
L. Bistagnino, Il guscio esterno visto dell’interno, Milano 2008.
Design and the elastic mind, ed. P. Antonelli, MoMA, New York 2008 (catalogo della mostra).
L’uomo al centro del progetto, a cura di C. Germak, Torino 2008 (in partic. L. Bistagnino, Design per un nuovo umanesimo, p. 9).
L. Bistagnino, Design sistemico: progettare la sostenibilità produttiva e ambientale in agricoltura, industria, comunità locali, Bra 2009.
P. Tamborrini, Design sostenibile, Milano 2009.
Cinque miliardi di sfere. Design sistemico e produzione metallurgica, a cura di C. Campagnaro, Milano 2009.