Design strategico
Una parola-problema
L’espressione design strategico rappresenta un problema, un sistema aperto che include diversi punti di vista, modelli interpretativi articolati e varie prospettive disciplinari. Costituisce un ‘problema’ allo stesso modo in cui, per il filosofo Edgar Morin, rappresenta un problema, o meglio una parola-problema, il termine complessità: al suo cospetto infatti il pensiero semplificante si trova in imbarazzo. L’aggettivo strategico copre più approcci (in termini di operatività, strumenti e modelli di costruzione di conoscenza) e manifesta sé stesso, in alcuni aspetti teorici e pratici, anche sotto altri nomi: design leadership, design thinking, design strategy, design direction, business design, design re-search, design management e così via. Sono tutte espressioni che rivelano sovrapposizioni, parziali o totali, con l’operatività e i principi del design strategico.
Con tale termine si intende parlare dunque di un fenomeno complesso che si confronta con altri ugualmente complessi: provare a interpretarlo significa non cedere a intenti semplificativi. L’obiettivo che ci si pone, dunque, non è tanto quello di cercare una chiave di lettura unificante quanto di coglierne, attraverso la fenomenologia, la ricchezza di espressioni e, per i nostri fini, alcuni caratteri ricorrenti. Tra questi: la sua dimensione situata (il dipendere nell’operatività e negli obiettivi dalle circostanze dell’azione); l’abilità di aprire, con le proprie capacità, un processo dialogico tra più attori; l’esigenza di soddisfare bisogni differenti realizzando risultati (riconosciuti) di valore. Tali caratteri ricorrenti sono, del resto, gli ingredienti principali della strategia e del suo fare. Ed è dunque la focalizzazione su questo fare, sull’agire strategico attivato dal design, che ci consente di identificarne l’autonomia operativa partendo dall’apertura necessaria per ricomporre le tessere di un ambito disciplinare frammentato e, appunto, complesso.
Se il focus è sulla strategia, allora, prima di procedere, è necessario definirne sinteticamente qualità e caratteristiche. La strategia è argomento di studio in ambito militare, politico, economico e sociale, e offre un ampio apparato interpretativo. Tale apparato presenta da una parte aspetti ampi e generali riferibili a discipline della ricerca sistemica quali, per es., la teoria dei giochi (J. von Neumann, O. Morgenstern, Theory of games and economic behavior, 1944), dall’altra principi (e modelli operativi) applicabili a più scale e oggetti: individui, società, impresa. La strategia, secondo tali apparati, è sia causa sia effetto di un processo collettivo e interattivo atto a modificare la realtà. Essa è dialogo e conversazione, scontro e negoziazione tra più attori ed è finalizzata al conseguimento di una qualche forma di successo (un risultato che ha senso per qualcuno): vincere una battaglia, imporre un marchio nel mercato, raggiungere un obiettivo professionale, costruire armonia all’interno di una famiglia o di una piccola comunità, trovare la propria identità. Modificare la realtà è azione concreta: è quello che si fa e non quello che si dice. Nel processo del fare, inoltre, ogni azione genera una qualche forma di reazione che dipende dagli agenti in campo così come dalle caratteristiche dell’ambiente.
Questi assunti, relativi alla strategia, confermano e chiariscono i caratteri ricorrenti accennati: il design strategico opera in ambiti collettivi, ne supporta l’agire grazie alle proprie capacità e finalizza la propria operatività alla produzione di un effetto di senso. Il risultato di tale operazione si concretizza in sistemi di offerta più che in soluzioni puntuali, in un prodotto-servizio più che in un semplice prodotto, rappresentazione visibile della strategia.
Il ruolo del design
Nella fenomenologia del design strategico spesso l’ambito collettivo nel quale esso opera è una struttura organizzata, e ancora più spesso, quest’ultima è un’impresa. All’interno di ogni struttura, generalmente, è presente una base di valori, di conoscenze e di modalità operative che indica, a sé stessi e ad altri, il dove, il perché e il come si è insieme. Questa base, nella letteratura di pianificazione strategica, rappresenta un modello (H. Mintzberg, The rise and fall of strategic planning, 1994; trad. it. 1996) mentre negli studi economico-aziendali un orientamento strategico di fondo o una formula imprenditoriale (Strategia aziendale, a cura di V. Coda, G. Invernizzi, M. Rispoli, in Enciclopedia dell’impresa, 7° vol., 1998). Per chi si occupa di comunicazione il modello corrisponde alla filosofia dell’organizzazione (B.E. Bürdek, Design. Geschichte, Theorie und Praxis der Produktgestaltung, 1991; trad. it., 1992) e si concretizza, in parte, nella corporate image (immagine corporativa). Esso è causa della strategia e riflette in qualche modo l’identità di un gruppo, l’insieme delle qualità (scelte, come si vedrà, tra molte) che lo rendono unico e irripetibile; si racconta con assunti come la missione, la visione, il sistema di valori chiave (come l’organizzazione dovrebbe raggiungere il successo), la filosofia e i principi a cui uniformarsi, le idee dominanti, le modalità di motivazione dei singoli individui, lo stile della leadership. Il modello è in grado di indicare una direzione, ma anche di dare coesione all’interno di una struttura: tutta l’organizzazione e i suoi capi, infatti, adattano i propri comportamenti secondo questo orientamento di base.
Il modello risulta efficace quando i suoi assunti sono espliciti e ben comunicati all’interno dell’organizzazione; o, anche quando è in sintonia con l’identità del gruppo, con la vera idea che il gruppo percepisce di sé, con l’insieme delle competenze dominanti, con i comportamenti reali. Esplicitare il modello, così come aiutare a definire l’identità, è un primo ambito pratico per il design strategico e richiede un’operatività molto affine al design della comunicazione e della corporate image. Il design strategico, in più, interviene su altri aspetti che incidono sui comportamenti e sulla motivazione degli individui. Si tratta di aspetti culturali legati a elementi materiali e immateriali, a simboli, a rituali specifici che sono propri di ogni attività umana e che si concretizzano nello stile, interno, che l’organizzazione decide di darsi.
In questo ambito il ruolo dell’ambiente (fisico), diviene cruciale: dagli impianti distributivi degli uffici e delle fabbriche alle scelte di dettaglio (i materiali, le finiture, la selezione di elementi soft come la luce, il suono, il colore ecc.), allo stile di abbigliamento. Ed è tema di progetto anche lo stile di relazione (argomento specifico del design dei servizi e del design dell’esperienza) che tende a condizionare la percezione del motivo per cui si sta insieme. Esplicitare il modello significa progettare una dimensione culturale che attiva l’ambiente, un processo di enactment, come è stato definito dallo psicologo sociale Karl E. Weick (Sensemaking in organizations, 1995; trad. it. Senso e significato nell’organizzazione, 1997), ossia un processo di abilitazione dei soggetti alla condivisione del senso dello stare insieme. L’attivazione, dimostrano studi recenti, è favorita dalle caratteristiche fisiche dell’ambiente e dall’influenza che esse hanno sullo stato emotivo delle persone: un luogo bello, infatti, tende a predisporle positivamente, a mettere in gioco la loro componente emotiva, migliorando con ciò non solo le performances cognitive (Norman 2004), ma anche la condivisione degli assunti di fondo.
Il modello, in qualche modo, è il riflesso di ciò che è l’identità di un’organizzazione, frutto a sua volta della somma (e della negoziazione) delle identità dei suoi fondatori e dei suoi membri, così come di un complesso sistema di attori che si configurano come portatori di interesse (stakeholders, secondo la definizione coniata alla Stanford university nel 1963) per ciò che l’organizzazione è in grado di realizzare. All’interno di quella forma particolare di organizzazione che è l’impresa (il cui fine è sempre un plus economico) e specialmente dentro le imprese più grandi come le multinazionali, a volte è difficile definire una sola, univoca identità e da questa trarne un modello condiviso da tutti. L’impresa è spesso lacerata da conflitti interni, con aree funzionali che assumono maggiore legittimità rispetto ad altre e impongono un orientamento strategico non sempre condiviso. In questo quadro la ricerca dell’identità diventa occasione di scontro.
L’identità, inoltre, non è solo un problema di conflitto, ma anche di interpretazione. Una persona (ma lo stesso discorso può riguardare un’organizzazione) a volte non riconosce sé stessa in una foto (o ritiene, nella maggior parte dei casi, di essere venuta male, il che significa negare la propria, oggettiva identità) perché il suo modello mentale, la sua idea di sé, non coincide con ciò che è realmente, con la sua specificità fisica e anche con quella caratteriale (Bauman 2003). Definire l’identità, a volte, è più facile per chi sta al di fuori: un grande fotografo è capace di cogliere l’essenza delle persone che ritrae con il suo obiettivo, così come un agente esterno con competenze specifiche (dal consulente aziendale al designer) è in grado di cogliere quegli elementi peculiari e distintivi dell’orga-nizzazione, idonei a diventare base condivisa. Questo agente esterno è molto spesso un designer strategico.
Il modello (così come l’identità dell’organizzazione) deve potersi adattare alle circostanze ambientali, attualizzandosi. Un nuovo assetto societario, modifiche strutturali nel mercato, nuove tecnologie, dinamiche competitive, esigenze ambientali: tutto ciò richiede un grande dinamismo interno, una notevole capacità di adattamento, un’abilità ricettiva per capire cosa succede. L’organizzazione cresce quando riesce a cogliere per tempo questi cambiamenti e quando adatta a essi la propria filosofia. Per far questo deve aumentare la propria capacità ricettiva, ma anche superare la naturale inerzia al cambiamento, che è presente in ogni struttura organizzata. Spesso questi due problemi sono risolti, pur parzialmente, dal ruolo del design che, ponendosi in continuità (e familiarità) con l’azienda, può recepire (fuori) e diffondere (dentro) segnali di cambiamento dalla società, dalla cultura, dal mercato, dalla tecnologia. Non solo: egli ha capacità nel comunicare in modo comprensibile tali segnali, persuadendo e convincendo, agendo con gli strumenti della retorica per consentire di superare barriere e inerzia e attualizzare il modello.
La ricerca di identità e differenziazione
Nel mercato un vantaggio competitivo è generalmente legato a un ben definito posizionamento (M. Porter, Competitive advantage: creating and sustaining superior performance, 1985; trad. it. 1987) che focalizza alcuni elementi specifici: per es., prodotti originali e difendibili, un marchio riconoscibile, una vocazione produttiva precisa. Il posizionamento determina un’identità chiara che risulta efficace quanto più consente di distinguersi e, in tal modo, di attrarre e di interessare. Si è già detto che ogni struttura organizzata ha al proprio interno più identità, che vanno negoziate (e aiutate nel farlo) sia per delineare una propria filosofia (il modello) sia per trovare un posizionamento distintivo e vantaggioso nell’ambiente esterno. È un processo di accoppiamento strutturale – tra interno ed esterno – che risponde alla pressione competitiva dell’ambiente. Una nota azienda norvegese di mobili, la Stokke, ha messo a punto il proprio posizionamento valorizzando la dimensione dell’usabilità delle sedute (grazie all’utilizzo di ricerche ergonomiche brevettate con il nome Variable balans) e riuscendo così a maturare un grande vantaggio competitivo nel mercato internazionale. Peter Opsvik, il designer delle famose sedute, ha indicato questa opportunità, tra le varie possibili, al management per riuscire a differenziarsi in un mercato, quello del mobile, affollato e turbolento (Jevnaker 2005). In Italia, Paese ricco di mobilieri, l’azienda ha contestualizzato la propria identità focalizzandosi su prodotti rivolti ai bambini e alle loro esigenze (con la linea Stokke Xplory). Questa scelta non solo condiziona la gamma di prodotto offerta, ma interviene sul modello strategico, con scelte di stile, con l’impegno in determinati campi (l’ambiente, la scuola ecc.), con particolare attenzione alle esigenze di tutti gli attori legati al mondo del bambino.
La relazione tra modello e posizionamento (l’identità interna e quella esterna) è sempre più una condizione necessaria per la reputazione (e il successo) delle imprese sul mercato. Dissonanze o falsità (dichiararsi per quello che non si è) possono generare pericolosi fenomeni di rigetto anche grazie alla maggiore interazione tra consumatori, resa possibile da tecnologie della comunicazione (come evidente in comunità virtuali che si scambiano opinioni per le scelte di consumo). Identità e reputazione di un’organizzazione si concretizzano in un’immagine che si proietta nei territori emozionali dei cuori e delle menti della gente (Olins 2003), amplificando gli attributi narrativi dell’impresa (o di parti di essa) e della sua missione. È il tema del brand e delle sue storie, capaci di enunciare valori non in modo diretto, bensì dentro narrazioni più o meno strutturate che si realizzano a livello fenomenologico attraverso un sistema-prodotto: prodotti, comunicazione, siti, servizi, scelta dei canali distributivi, aspetti fisici come codici colore, materiali, configurazioni formali, ma anche intangibili come l’enunciazione di qualità e attributi caratteriali. La marca rappresenta l’essenza dell’essere impresa, la brand premise, e la rende comprensibile attraverso la coerenza del sistema-prodotto che la rappresenta, la brand expression (Olins 2003).
La ricerca di un effetto di senso (l’identità efficace) così come la coerente e corretta espressione di tale identità attraverso il sistema-prodotto sono obiettivi che si sovrappongono nell’operatività sia del brand design sia del design strategico. Diversi in merito sono gli esempi: Landor associates (fondata da Walter Landor nel 1941 a San Francisco e oggi confluita nel gruppo WPP che opera nel campo del marketing e della comunicazione) ha spesso proposto la propria attività di branding come strategic design. Lo slogan adottato nel 2008 concretizza la stretta correlazione tra immagine e strategia, tra scelta di un’identità efficace e performance competitiva: creare brands che trasformino il business; in Italia AReA strategic design, fondata a Roma nel 1991 da Antonio Romano (dal 2004 confluito nel network Inarea), famosa per l’immagine di istituzioni come la RAI, la CGIL, Trenitalia, Cartasì, sottolinea tale sovrapposizione già nella scelta del nome; RobilantAssociati, azienda fondata da Maurizio di Robilant a Milano nel 1984, si presenta anch’essa come consulente in brand advisors & strategic design partendo da una competenza chiave focalizzata sulla comunicazione del marchio, sul pack-aging, sulla grafica (tra gli altri progetti, il restyling dei marchi del gruppo FIAT).
Il progetto del sistema prodotto è il tema specifico del master in design strategico del MIP Politecnico di Milano (che fa parte della School of management del Politecnico stesso), ma anche di consulenze, ricerca applicata e progetti specifici dell’ateneo milanese. Per il master, il design strategico è l’attività di progetto cooptata nella formulazione e nello sviluppo della strategia di un’organizzazione; il suo obiettivo è dare forma alla strategia intesa, principalmente, come un sistema-prodotto, ossia l’insieme organico e coerente dei vari media (prodotto, servizio, comunicazione) con cui un’impresa costruisce la propria identità, si posiziona nel mercato, definisce il senso della sua missione nella società. Il design strategico ha un set di capabilities funzionali alla strategia: è regista di più competenze ‘verticali’ (dal designer di prodotto all’interior de-signer), sa gestire il lavoro in team, sa parlare i linguaggi dei tecnici come quelli dei manager, è orientato a risolvere velocemente e con metodo i problemi, sa governare situazioni complesse (Zurlo 2004). Al lancio del master, nel 1999, Stefano Marzano, amministratore delegato e direttore creativo di Philips design, nonché membro del comitato scientifico del master stesso, tenne a sottolineare quanto tali capabilities fossero funzionali alle strategie di sistemi e organizzazioni. E quanto, più in generale, l’espressione di tali capacità, il design thinking, fosse efficace per l’agire strategico nella contemporaneità.
Design thinking e design strategico
Nella teoria dei giochi l’agire strategico è comunemente associato ai processi di decision making. In altre parole la strategia si realizza, di fatto, nel prendere decisioni. Il processo decisionale si basa su un insieme di informazioni che dovrebbero restituire un ritratto chiaro del contesto (risorse, attori in gioco, ambito competitivo) e delle variabili con cui ci si confronta. Il problema è che tale set di informazioni è molto ampio, al limite infinito, e rispecchia la complessità dei siste-mi con cui, ognuno, quotidianamente si confronta. Molto spesso, tra le infinite informazioni disponibi-li, si deve operare una selezione che, il più delle volte, è interpretazione e valutazione dei dati. Ci si trova, in altre parole, di fronte all’esercizio di una razionalità limitata (H.A. Simon, The sciences of the artificial, 1969; trad. it. 1988) perché incapace di comprendere e valutare tutti gli aspetti in gioco. In questo quadro le discipline della complessità valorizzano il portato umano, non solo nella dimensione razionale e riflessiva, quanto nella sua psicologia, nella dimensione soggettiva nella scelta. Il processo decisionale perde l’assunto oggettivista che guarda alla realtà come a qualcosa che sia dotato intrinsecamente di senso per focalizzare, invece, i processi mentali, dunque i soggetti, che sono in grado di dare senso alla realtà, al dato oggettivo.
Ciò significa operare attraverso modelli per strutturare secondo nessi logici e per organizzare, in rappresentazioni che siano socialmente plausibili, il flusso di dati che la realtà oggettiva presenta incessantemente. Il focus si sposta dal decision making al sensemaking (K.E. Weick, Sensemaking in organizations, 1995): un capo si muove in un certo modo perché sa riconoscere e dare un senso alle scelte fatte, perché sa condividerle e spiegarle al resto dell’organizzazione e perché consente agli altri membri del gruppo di aiutarlo a determinare meglio il senso di quelle scelte.
Questa chiave di lettura dell’agire strategico, nella sua dimensione di creazione di senso, determina notevoli implicazioni per il design strategico. Il design, per sua natura, sa interpretare la complessità cogliendone strutture di senso, sa indicare una strada rendendola visibile, sa comunicare e gestire i processi di condivisione delle scelte dentro l’organizzazione. Il confronto avviene tra un modello del processo decisionale che punta alla reliability (affidabilità), e un modello, strategico-progettuale, che si rivolge invece alla validity (Martin 2007). Da una parte abbiamo il dato oggettivo, la scelta oculata e il più possibile ponderata, affidata spesso alla serie storica, a ciò che è stato. Dall’altra, la qualità dei dati, l’interpretazione degli stessi, la validazione soggettiva, la tensione verso qualcosa che dovrà essere e, quasi scandaloso per l’approccio scientifico del management, il misurarsi con il proprio, personale giudizio di fronte a una realtà imprevedibile e in continuo cambiamento. In altre parole: la centralità del ragionamento abduttivo (proprio del design thinking) come chiave del (nuovo) processo decisionale (Martin 2007).
Il design thinking ha nella design research una significativa e tangibile rappresentazione. La ricerca di design è programma di ricerca-azione, a carattere qualitativo, che si definisce mano a mano che si procede nell’esame di ciò che si sta studiando, non operando attraverso analisi puntuali e dati precisi, né tramite indicazioni prescrittive e normative, ma negoziando costantemente le proprie ragioni e aderendo in modo mirato alle situazioni e al contesto (Design research. Methods and perspectives, ed. B. Laurel, 2003).
L’interesse per il modello cognitivo e per la ricerca del design ha diverse conseguenze. Da un lato, porta alla cooptazione del design nella sfera decisionale (che è sfera strategica) dell’organizzazione, favorendone la risalita nell’organigramma (da funzione subordinata a funzione strategica). Dall’altro, stimola l’interesse per il design da parte della ricerca e della formazione dello scientific management ma anche, viceversa, l’interesse del design per le discipline gestionali. Tale interesse si concretizza in attività formative, per es., simili nell’impianto ai classici MBA (Master of Business Administration), ma capaci di insegnare design thinking ai manager. Un esempio emblematico è il master MBD (Master in Business Design), attivato nel 2003 a Milano da Domus academy in collaborazione con la SDA (Scuola di Direzione Aziendale) Bocconi, School of management dell’ateneo milanese. Sullo stesso versante si colloca la creazione di percorsi di formazione innovativi in prestigiose scuole come Stanford oppure Harvard: le cosiddette D-School (dove D appunto sta per design e dove l’obiettivo formativo è confrontarsi con la complessità per migliorare le performances innovative delle imprese).
Le capacità del design funzionali alla strategia
Il design thinking si alimenta di alcune specifiche capacità (capabilities) del design, alcune delle quali particolarmente funzionali all’agire strategico. Come ogni professione, anche il design è caratterizzato da un insieme di capacità riconducibili, prevalentemente, alla realizzazione di cose che abbiano rilevanza visiva e percettiva. Se l’atto della visione diventa caratterizzante possiamo operare una prima suddivisione, non esaustiva, ma significativa, delle capacità che connotano il design: capacità di vedere, intesa come capacità di lettura orientata dei contesti e dei sistemi; capacità di prevedere, intesa come capacità di anticipazione critica del futuro; capacità di far vedere, intesa come capacità di visualizzare scenari futuri.
La capacità di vedere
Vedere è la capacità di osservare i fenomeni ben oltre la superficie visibile, è atto creativo perché, per cogliere l’essenza delle cose, è opportuno mettere da parte i pregiudizi (Norman 2004). Si vede quel che si sa e tale assunto, per un designer, è vero almeno su due livelli: ciò che si osserva è infatti sia fenomeno sociale complesso, sia artefatto tecnico, dunque espressione di tecnologie, materiali e processi produttivi, ma anche di comportamenti ed esperienze d’uso, di esigenze commerciali, di modalità di stoccaggio e consegna, di vita utile, di manutenzione e servizi correlati per conservarne ed estenderne le prestazioni. Avere cultura del contesto e competenza tecnica consente di leggere tutti questi aspetti e capire la dimensione sistemica dell’offerta di un’impresa. Il design vede anche grazie alla propria esperienza, selezionando gli aspetti di novità di ciò che sta osservando, o orientando la propria visione in funzione degli obiettivi che gli sono posti (il brief assegnato). Saper vedere consente di individuare le esigenze tacite e inespresse delle persone, spesso tramutabili in opportunità per l’innovazione. È una capacità connaturata al design, talvolta una dimensione inconsapevole generata dalla e nella quotidianità ed è particolarmente rilevante, nel model-lo italiano, in quegli ambiti – casa, lavoro, divertimen-to – esperiti nella quotidianità da ogni progettista.
In ambito organizzativo, vedere consente di comprendere, con maggiore precisione, i quadri di riferimento culturali (frameworks) di chi dovrà prima capire e poi realizzare le scelte: in pratica di tutti gli stakeholders coinvolti nel processo strategico. I frameworks sono filtri che attribuiscono senso alla realtà e sono costituiti da conoscenze, convinzioni sociali e culturali (e in parte individuali) costruiti nel tempo e dipendenti dal contesto. Per comunicare il senso di una scelta (così come il senso di un sistema-prodotto) è opportuno vedere come tali filtri funzionano, come selezionano e danno senso alle cose e alla realtà. Vedere (e capire) questi filtri permette, infatti, di mettere a fuoco una comunicazione efficace e coinvolgente. Il community building (l’insieme di attività che consolidano l’essere comunità), per es., richiede modalità di attivazione e coinvolgimento in sintonia con i quadri di riferimento delle persone coinvolte: il gioco, la sfida, l’analogia sportiva.
La capacità di prevedere
Prevedere è fortemente correlato a vedere: ciò che si osserva alimenta la creazione di possibili futuri, obiettivo, del resto, della strategia (Best 2006). L’esercizio di previsione è dimensione creativa che, partendo dai dati, limitati e parziali, interpreta e anticipa ciò che si potrebbe fare con un approccio critico, cioè filtrando consapevolmente conoscenze e informazioni per valutarne la fattibilità (da un punto di vista tecnologico ed economico, ma anche di accettazione sociale e ambientale). Spesso è attitudine o sensibilità nel cogliere deboli segnali di cambiamento, nei gusti, nei comportamenti, nell’orientamento estetico e nel proiettarli in scenari concreti. Creare scenari futuri, prevedendo quello che potrà essere, avvicina questa capacità alla tecnicità delle ricerche previsionali, alla futurologia, alla scenaristica. In particolare, proprio quest’ultimo aspetto sembra avere maggiore contiguità con l’operatività del management. La scenaristica, strumento sempre più diffuso nell’operatività del design strategico, è lessico comune del design e del management e, come tale, possibile porta d’accesso a un dialogo tra i due ruoli. Lo scenario «crea un contesto nel quale immaginare i consumatori alle prese con potenziali prodotti e servizi […] usandoli in sessioni di brainstorming e sperimentandoli […] per far emergere nuove idee […]» (Best 2006, p. 33). Una sperimentazione che si attiva, in relazione con alcune funzioni dell’impresa, come il marketing strategico, stabilendo un’alleanza, funzionale all’innovazione di prodotto o servizio, e dando al design un profilo da ‘pilota visionario’ dell’organizzazione. La capacità di prevedere è strettamente correlata alla dimensione creativa e al posto che tale dimensione occupa nell’organizzazione. L’atto creativo, legato al prevedere, richiede infatti una disposizione positiva e il riconoscimento del contributo visionario del design, da parte di tutti i membri di un gruppo: sono le condizioni di contesto, più che le tecniche specifiche, che generano e rendono praticabile la visione.
La capacità di far vedere
Far vedere è la capacità che, più delle altre, supporta l’agire strategico poiché rende visibile il campo del possibile ed è un potente strumento di accelerazione del processo decisionale. Nella formulazione dell’immagine di un nuovo marchio, per es., Landor associates utilizza un metodo chiamato brand driver che consiste nell’individuare un’immagine simbolica (densa di significati e implicazioni anche operative); tale metodo ispira lo sviluppo della corporate image. IDEO, il grande studio di design fondato a Palo Alto da David Kelley (ispiratore e direttore della D-School di Stanford), propone fin dall’inizio ai propri clienti, un high level concept, un riferimento concettuale che non ha nulla delle scelte formali che seguiranno, ma ne anticipa l’essenza. Queste visualizzazioni hanno una valenza spesso retorica e narrativa e hanno l’obiettivo di abilitare il processo di negoziazione all’interno dell’organizzazione (il dialogo strategico che darà senso alle scelte di progetto).
Le nuove idee sono visualizzate a diversi livelli di astrazione: da un’immagine metaforica a un prototipo di lavoro, al modello funzionante. IDEO, per es., realizza subito prototipi, fin dalle prime ipotesi di concept (Brown 2008). Il prototipo è strumento immediato di comprensione per chi deve prendere decisioni, consente di apprendere non solo cosa sviluppare, ma anche il ruolo, strategico, del design (Jevnaker 2005).
Il design dei servizi si avvale di forme più complesse di visualizzazione. I servizi, infatti, si attuano seguendo una sequenza temporale: fare un viaggio, per es., comporta un prima (conoscere il servizio e acquistare il biglietto), un durante (fruire del servizio usando, per es., un mezzo di trasporto come un aereo) e un dopo (la riconsegna del bagaglio o i contatti di fidelizzazione della compagnia aerea per dare informazioni su punti premio e offerte). Per rappresentare il tempo si ricorre a tecniche e modalità che appartengono ad altri domini narrativi: il cinema, il teatro, il fumetto. Una nuova idea di servizio, quindi, è spesso rappresentata tramite l’assemblaggio di spezzoni di film secondo una sequenza capace di comunicarne essenza e struttura oppure attraverso visualizzazioni pittoriche come gli storyboard tipici dei fumetti. Il design abitualmente immagina e anticipa con il disegno il processo del servizio, partendo dall’utente, individuando e progettando tutti i punti di contatto (comunicazione, oggetti, ambienti ecc.) che esso incontra lungo il percorso (user journey).
Il design strategico non mostra solo scenari di futuri possibili, ma usa questa sua capacità per organizzare e rendere comprensibili i dati di contesto a supporto delle scelte. Doblin group, la società di strategic design planning di Chicago istituita da Jay Doblin (fondatore e preside per lungo tempo del Chicago’s institute of design dell’Illinois institute of technology), ha realizzato e brevettato un modello di visualizzazione dei processi di innovazione, chiamato innovation landscape, che analizza in un arco temporale di un decennio per settore (per es., personal computer) le leve (finanziarie, di processo, di prodotto, di comunicazione, di distribuzione) utilizzate dai concorrenti per innovare. Doblin introduce la variabile temporale (sincronica e diacronica) nel leggere i processi di innovazione: cosa è successo in dieci anni e cosa succede al momento attuale per tutti i competitors in gioco. Usa l’analogia di un paesaggio con valli e colline, con vette e declivi: lì dove tutti si concentrano ci sono alte vette; pianure desolate invece laddove pochi rivolgono lo sguardo. Il feedback per il decisore è immediato: salire sulla vetta dove c’è la folla di concorrenti o guardare a valle? Nel caso dei personal computer la strategia competitiva del settore si è spesso concentrata sulle performances tecniche (la vetta), pochi hanno innovato nella distribuzione come ha fatto Dell, che ha valorizzato questa leva, fornendo i propri computer senza intermediari al cliente finale. Un tempo, in corrispondenza della leva distribuzione, c’era una pianura (totale disinteresse dei concorrenti), oggi una collina che cresce (la folla di imitatori che segue l’esempio e il successo di Dell).
I modelli organizzativi
Dare spazio al design all’interno di un’organizzazione o di una comunità, consentendone la massima efficacia strategica, pone i responsabili di fronte a precise scelte di organizzazione e gestione di tale risorsa. Da una parte, è necessario abbandonare schemi di processo definiti e di routine in favore di una maggiore flessibilità per consentire ai designer, e non solo a essi, di individuare soluzioni innovative e creative. Dall’altra, si pone il problema del confronto tra autonomia e controllo da parte di chi amministra tale risorsa: vincolare troppo i designer rischia di limitare la loro potenzialità strategica e innovativa, lasciarli invece troppo liberi può allontanare molto i risultati dalle esigenze dell’impresa (Best 2006). Il problema emerge spesso con il brief, il documento sintetico che riassume le indicazioni e le decisioni dell’impresa per lo sviluppo di un nuovo prodotto. Quanto più il brief è definito, tanto più esso riflette l’esigenza di rendere coerente e controllato il processo progettuale, depotenziando il portato creativo e strategico del design. Le alternative sono diverse: integrare il design nel processo di definizione del brief (imprese strutturate) o lasciare interpretare il brief al designer, come accade nelle piccole e medie imprese, in genere a guida padronale, del sistema Italia. In quest’ultimo caso spesso il brief (che è documento molto strutturato) è in realtà un tema, un’indicazione generica, alla quale il designer, che normalmente ha conoscenza dell’azienda e del suo mercato di riferimento, risponde con una sua interpretazione, molte volte vincente. Nella fenomenologia sembrano dunque emergere due polarità: l’una più circoscritta, l’altra più vaga. Il processo più efficace media tra queste due polarità, tra opportunità ampie e vincoli di partenza. E tale possibilità di mediazione sembra corrispondere a un fenomeno peculiare del design (strategico) italiano: il controbrief (Jevnaker 2005), che si pone in modo interlocutorio e critico nei confronti della richiesta dell’azienda per analizzare e comprendere le ragioni che lo hanno generato. È il tentativo di vedere dietro le macchine di scena per conoscere le ragioni del brief (la reason why) e dare un contributo strategico: è l’approccio di chi, pur avendo i piedi per terra, mantiene la testa tra le nuvole, quelle della sfera decisionale, per portare un proprio specifico contributo, una visione personale.
Tale capacità critica deriva spesso da un posizionamento in contiguità e familiarità con l’organizzazione, ma esterno a essa. Questo assetto coincide con la pratica di alcune note imprese del made in Italy, per es. nel settore dell’arredo, che hanno consolidato la relazione professionale con alcuni designer, confermando a loro volta posizioni competitive e successo. Ma è anche la tendenza presente in grandi imprese che decidono di delegare all’esterno la funzione design: tra gli esempi noti Philips design, guidato dall’italiano S. Marzano, o la coreana Samsung che sin dal 1995 realizza un Innovative design laboratory (IDS) in collaborazione con il prestigioso Art center college of design di Pasadena in California.
La gestione del design come risorsa strategica per l’organizzazione è il tema centrale della disciplina del design management (Best 2006). Tale punto di vista tende a focalizzarsi prevalentemente su aspetti operazionali: risorse, tempi, budget, fasi, attori coinvolti, risultati parziali, strumenti di controllo e validazione e così via. Il tema è controverso: da una parte si ritiene che il design, come ogni altra risorsa più o meno chiave all’interno dell’organizzazione, possa essere gestito senza una particolare competenza di ciò che si va direttamente ad amministrare. Dall’altra, che il design sia una risorsa notevolmente diversa e complessa (anche per le differenti sfumature che può assumere) e che, pertanto, sia necessario avere conoscenza approfondita di tale mezzo e, nei casi migliori, essere designer impegnati anche in attività gestionali. È il tema della design direction, di un manager che acquisisce conoscenze e modalità cognitive proprie del design o della design leadership insegnata nei master in business design e nelle D-School statunitensi per familiarizzare i designer con le regole del business. In ogni caso regole, direttive e procedure sono fortemente dipendenti dalle situazioni. Nei fatti è difficile riuscire a definire routine valide per tutti i tipi di beni, così come è difficile stabilire una sequenza di ruoli e fasi per il processo di design, sia per l’aleatorietà del processo in sé, sia per la presenza di più competenze specifiche di design.
Spesso il ruolo del design manager è più tattico che strategico. Per Peter Gorb (Design management. Papers from the London Business School, ed. P. Gorb, 1990) tale ruolo è ricoperto da un manager intermedio, di linea, non direttamente coinvolto in scelte strategiche. Gli oggetti da gestire, in modo efficace, sono progetti relativi ad ambienti e architetture, nuovi prodotti e servizi, aspetti di comunicazione interna ed esterna. La comunicazione, tuttavia, gioca per Gorb un ruolo strategico perché direttamente correlata all’immagine dell’azienda: il coordinamento di tutti gli aspetti visibili dell’impresa diventa una dimensione della gestione delicata nella quale entra direttamente, con le sue scelte e il suo orientamento, il top management aziendale (Design management, ed. P. Gorb, 1990; Bruce, Bessant 2002; Best 2006).
Il luogo elettivo e privilegiato dell’insegnamento del design management è costituto dalle scuole di economia e management: dipartimenti e centri di ricerca sul tema sono stati attivati in prestigiose università, dalla London business school alla Harvard business school. Quest’ultima ha avviato da tempo una collaborazione con il DMI (Design Management Institute) di Boston, che negli ultimi anni ha ampliato la conoscenza e diffusione del design management nel mondo. È significativo che il DMI sia nato nel 1975 grazie all’intuizione di William Hannon, direttore della divisione di design del Massachusetts college of art and design di Boston, quindi nell’ambito di un istituto d’arte, per poi rendersi autonomo già dal 1986 trovando relazioni sempre più strutturate con gli economisti e gli ingegneri gestionali di Harvard e del Massachusetts institute of technology. Già dalla fine degli anni Settanta negli Stati Uniti è emerso infatti un diverso interesse nei confronti del design, della sua pratica, della sua gestione. Un interesse stimolato da fenomeni globali, la qualità totale in primis, che valorizza non solo l’apparenza e la cura dei dettagli del prodotto in sé, ma anche il suo essere in sintonia con le esigenze, esplicite o meno, del cliente.
L’ambiente attivato e il design
L’ambiente, inteso come l’organizzazione nel suo complesso, è attivato se dà legittimità al design, se coopera attraverso i suoi membri e con contributi specifici idonei a determinare meglio le nuove idee, se partecipa alla ricerca di soluzioni, se accoglie e favorisce un approccio creativo ai problemi. Un ambiente attivato consente al design strategico di esprimere compiutamente le proprie potenzialità. Alcune ricerche svolte da Angela Dumas e P. Gorb (Silent design, «Design studies», 1987, 3) chiamano questa forma di attivazione silent design, intendendo con ciò la partecipazione attiva di tutti gli individui di un’impresa alla scelta strategica. Per l’autrice inglese, che ha studiato le buone pratiche di sviluppo prodotto all’interno delle piccole e medie imprese del Regno Unito, il silent design è il contributo degli attori non direttamente coinvolti all’interno della fase decisionale e alta del progetto, i quali contribuiscono con le proprie microscelte progettuali a determinare meglio le idee iniziali e a raggiungere gli obiettivi di sviluppo ed esecuzione nei tempi e con le risorse previste. Un concetto simile è quello che esprime il famoso consulente di management Tom Peters che a più riprese, interessandosi del design come strumento principale (in certi settori) per la competitività, parla del successo di organizzazioni nelle quali è presente una diffusa consapevolezza progettuale (T. Peters, The pursuit of design mindfulness, «I.D. Magazine», 1995, 5, pp. 74-77). Secondo Verganti (2009) l’ambiente attivato dell’organizzazione è direttamente correlato alla sua capacità di assorbimento delle tendenze, estetiche e d’uso, incrementata anche grazie alla disponibilità, costantemente rinnovata, di integrare nell’organizzazione veri e propri interpreti dei modelli socioculturali contemporanei. Interpreti che possono essere dentro l’azienda, ma anche, come si è visto, e sempre più frequen-temente, al di fuori di essa.
Nel sistema italiano l’ambiente attivato è spesso il territorio dove esistono produttori con competenze specifiche organizzati in filiere e accomunati dall’essere fisicamente vicini. In questo contesto molte vol-te un’impresa capofila agisce come editor, scegliendo i propri fornitori e attivandoli per cooperare nello sviluppo e nella realizzazione di una nuova idea di prodotto o di servizio. Sono geometrie variabili che configurano nuove filiere produttive o ne consolidano di esistenti grazie a specifici input di progetto. La rete vive nel territorio, mettendo in gioco il proprio patrimonio storico, culturale e di conoscenza, che riversa nel dialogo strategico (finalizzato allo sviluppo di un nuovo prodotto), innescato dall’impresa capofila (e dal design). Piccoli imprenditori, artigiani, imprese, professionisti, esperti a vario titolo, fornitori si attivano perché stimolati dal significato della richiesta progettuale. Un significato non solo economico, ma anche legato ad aspetti sociali – raccogliere la sfida per la ricerca di nuove soluzioni tecnologiche, il ben fatto – e culturali, ossia partecipare a un processo collettivo di creazione del valore, il bello.
Effetti di senso
Il design strategico si manifesta, pur in diverse forme, come quell’attività di progetto finalizzata ad attivare agire strategico dentro strutture organizzate. Se, come visto, la strategia è processo di creazione di senso, allora tale capacità è legata sostanzialmente all’abilità del design nel creare effetti di senso (Zingale 2009), ovvero risultati che sono capaci di coinvolgere e motivare vari attori e che dipendono dalle circostanze dell’azione, dai luoghi in cui opera il design, dalla modalità messa in atto, dalla motivazione. Gli effetti di senso si differenziano a seconda degli attori in gioco: per i leader, per i membri del gruppo, per gli azionisti, per gli stakeholders, per il mercato, per l’utente finale ci saranno effetti differenti anche se talvolta potrebbero risultare convergenti o sovrapponibili.
Un azionista potrà trovare un effetto di senso nell’incremento dei profitti che genera un buon design di prodotto (attivando l’esigenza di misurare quanto il design abbia contribuito a far aumentare i ricavi). Per i dipendenti effetto di senso sono il buon clima aziendale, la capacità di mettersi in gioco con le proprie competenze, la possibilità di esprimere la propria opinione nello sviluppo di un nuova idea e di comprendere le ragioni delle scelte di marketing, tecnologiche e produttive.
Il design, tuttavia, privilegia l’effetto di senso che riguarda l’utente. Nel gioco strategico, il design che muove per primo si confronta sempre, in un dialogo differito, con un secondo giocatore, l’utente, quasi mai presente se non come simulacro (Zingale 2009). L’approccio scientifico di matrice anglosassone non differisce il dialogo con l’utente, ma lo anticipa studiandolo con attenzione. Il design statunitense, per es., sperimenta metodi di rilevamento che adottano le tecniche dell’etnografia o programmi di ricerca qualitativi, di matrice sociologica e psicologica, come è verificabile nel corpus teorico e operativo dello user centered design. Il risultato rileva e risolve soltanto problemi comportamentali (comprensione d’uso, posture, funzioni mancanti ecc.) piuttosto che mettere a fuoco più ampie esigenze di senso, emozionali e culturali. I risultati sono in genere prodotti con una migliore funzionalità, che apportano piccole innovazioni incrementali, senza essere necessariamente capaci di generare più senso.
Il modello della design driven innovation propone un superamento del focus su comportamenti e funzioni per porsi come obiettivo la generazione di nuovi significati (Verganti 2009). Sono significati legati ai bisogni viscerali (l’apparenza) e riflessivi (l’immagine di sé, la soddisfazione personale, i ricordi; Norman 2004), proiettati nel quadro delle tendenze emergenti per forzare le traiettorie dell’innovazione generando discontinuità, breakthrough (Verganti 2009). L’effetto di queste innovazioni non può essere realizzato solo da semplici prodotti: «avendo soddisfatto i nostri bisogni basici, cerchiamo esperienze sofisticate che ci soddisfino emozionandoci e che abbiano per noi significato», quindi «complesse combinazioni di prodotti, servizi, spazi e informazione» (Brown 2008, p. 92). L’effetto di senso, in altre parole, non presenta solo nuovi significati (più vicini alla cultura e alle tendenze sociali), ma si realizza nella dimensione sistemica dell’offerta: il sistema-prodotto.
Il design che è sempre dalla parte dell’utente (Buchanan 2001) ha un obiettivo chiaro: migliorare le condizioni di vita delle persone. Un obiettivo che presume una grande responsabilità nel definire (e riuscire a comunicare) il senso di un sistema-prodotto in un sistema sempre più lanciato verso modelli di produzione e consumo non più sostenibili (Thackara 2005). La sostenibilità delle scelte di sviluppo, da un punto di vista ambientale (il rispetto dell’ecosistema) e sociale (il rispetto delle condizioni di vita di comunità e lavoratori nei Paesi terzi, così come la valorizzazione dell’essere persona nei Paesi evoluti), diventa fattore capace di generare anch’esso effetto di senso, in certi casi maggiore effetto di senso, definendo un ambito operativo proprio del design strategico (Manzini, Jegou 2003).
Partire dall’effetto (di senso) aiuta a trovare modalità più sostenibili per il soddisfacimento dei bisogni, perché consente di venire fuori da gabbie mentali che associano a uno specifico bisogno una e una sola tipologia di risposta (T. Maldonado, Il futuro della modernità, 1987). Il bisogno di mobilità individuale nelle aree urbane, per es., ha generalmente un suo corrispettivo in un prodotto specifico: l’automobile. Questo assunto fa perdere di vista il risultato, che è muoversi in modo efficace e senza problemi, ottimizzando risorse e tempi. L’efficienza di un’auto in città è infatti gravemente inficiata dall’eccesso di diffusione di tale mezzo di trasporto e dai limiti delle infrastrutture di viabilità. La soluzione migliore, quella che genera l’effetto più efficace in termini sia personali sia ambientali, è il mix integrato di mezzi privati (dalla bicicletta alla stessa auto) e pubblici, di prodotti e servizi. L’effetto di senso di questa proposta è direttamente correlato ai benefici che il progettista di tali mix (o sistemi-prodotto) è in grado di comunicare all’utente finale e all’impresa (rompendo i limiti cognitivi attuali) e nasce da un diverso assortimento degli elementi di sistema-prodotto. Trasmettere i benefici e il senso di queste scelte richiede talvolta al design strategico un approccio di tipo seduttivo. Lo strumento di seduzione è spesso lo scenario che fa vedere nuove soluzioni sostenibili e gli effetti di senso che la loro adozione comporterebbe. Lo scenario attiva un processo di negoziazione o, più spesso, diventa catalizzatore della tensione creativa presente all’interno di comunità organizzate sul territorio, attivando un dialogo strategico e progettuale funzionale alla comprensione di nuovi modelli sostenibili, di welfare, di apprendimento, di produzione, di consumo e così via (Creative communities, 2007).
La realtà operativa del design strategico tende, tuttavia, a confrontarsi costantemente con i diversi effetti di senso, tanti quanti sono gli attori in gioco. La capacità del design strategico e le sue prospettive future sono legate alla possibilità di assumere tutti i punti di vista (e i relativi benefici che vi sono correlati) riuscendo a passare da un’angolazione all’altra, senza rimanere isolato all’interno di pregiudizi e prese di posizione. La circolazione e la mediazione tra più declinazioni di ciò che è effetto di senso sono peraltro, apparentemente, favorite da alcuni fenomeni della contemporaneità: da un lato, l’interesse sempre maggiore da parte dell’impresa nei confronti dell’utente, dall’altro, il focus sempre più diffuso su ciò che rappresentano la responsabilità e la condotta ambientale e sociale dell’impresa.
Ed è proprio in questa capacità di mediare tra più aspetti ed effetti di senso, supportando il processo decisionale, che è possibile definire, con maggiore approssimazione, gli aspetti di chiusura e autonomia del design strategico. Aspetti che assumono senso all’interno di una costante apertura teorica, strumentale e operativa della disciplina.
Bibliografia
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S. Zingale, Semiotica delle scelte, in Il discorso del design, a cura di D. Mangano, A. Mattozzi, «E/C», 2009, 3-4, pp. 215-24.
Si veda inoltre:
C. Cautela, F. Zurlo, Design for management: new ways for decision making, Proceedings of the International DMI education conference, Design thinking. New challenges for designers, managers, organizations, 14-15 April 2008, ESSEC business school, Cergy-Pointoise, http://www.dmi.org/dmi/html/conference/academic08/papers/Cautelo/Design%20for%20management_cautela_zurlo.pdf (26 genn. 2010).