Design
di Andrea Branzi
Con il termine design si indica l'attività di progettazione di oggetti, prodotti o strumenti, domestici o di lavoro, che possono essere realizzati in maniera artigianale o industriale, dove gli aspetti tecnici convivono con quelli estetici (design = progetto). La stessa distinzione tra d. e industrial design, legato quest'ultimo alla produzione industriale di grande serie, si può considerare superata, dal momento che la produzione di serie non è nata con l'industria moderna, ma al contrario appartiene ai processi antropologici più antichi di trasmissione della cultura e della tradizione. La produzione artigianale già dall'antichità infatti si basava sulla copia rigorosa di archetipi spesso antichissimi, che per secoli venivano riprodotti e diffusi nella società. L'industria dunque ha ereditato, accelerato e specializzato lo stesso procedimento, riproducendo per mezzo di macchinari prototipi appositamente studiati.
Il Movimento moderno ha sempre distinto in maniera netta questi due tipi di produzione, ritenendo che essi potessero esprimere due modi di progettare profondamente diversi, e solo a partire dagli anni Ottanta del 20° sec. si è cominciato a superare questo tipo di contrapposizione in favore di una rilettura critica, non solo della differenza tra produzione artigianale e industriale, ma anche della stessa modernità e dei suoi fondamenti logici.
La crisi della modernità. - Alla fine del 20° sec. sono giunti a maturazione molti fenomeni (spesso poco vistosi e dalla lenta incubazione), che hanno modificato in maniera significativa il concetto di modernità, così come era stato elaborato dalle avanguardie storiche all'inizio dello stesso secolo, cioè come sistema razionale impegnato a realizzare operazioni forti e concentrate, volte a raggiungere soluzioni unitarie e definitive per problemi nuovi o antichi.
A partire dagli anni Sessanta, a fronte della complessità del mondo sociale, delle tecnologie e delle metropoli, questo tipo di certezza aveva cominciato a vacillare, ed era stato messo in discussione il mito moderno di un possibile futuro reso ordinato dall'incremento di tutti i processi di industrializzazione.
Una delle prospettive fondamentali che la cultura della modernità aveva proposto negli anni Cinquanta a un'Europa distrutta nei suoi fondamenti materiali ed etici dai disastri della Seconda guerra mondiale, consisteva proprio nell'idea che tutti i processi di industrializzazione sarebbero stati portatori naturali di un crescente livello di razionalizzazione della società, dei suoi linguaggi, dei suoi consumi, e anche della sua politica. I maggiori teorici dell'epoca, da L. Mumford a N. Pevsner, da G.C. Argan a E.N. Rogers, sostenevano infatti che il progetto moderno, aderendo e promuovendo pienamente la logica industriale, sarebbe diventato uno dei vettori fondamentali per l'attuazione di questa trasformazione generale verso un mondo della 'ragione'. Secondo questa visione infatti le contraddizioni ancora evidenti nella società, il caos dei mercati, l'irrazionalità della merce, non erano che il frutto transitorio del ritardo nell'attuazione dei programmi di industrializzazione.
Ma, proprio negli anni Sessanta, una nuova generazione di progettisti, riuniti attorno al movimento radical (soprattutto in Italia, Francia, Stati Uniti, Austria, Giappone, Inghilterra), mossi da un forte realismo anti-ideologico, cominciò a elaborare una diversa analisi della realtà industriale, e a descrivere uno scenario futuro del tutto diverso da quello proposto dalla modernità razionalista. Mentre questa individuava infatti nei processi industriali, razionali e ordinati, la vera caratteristica del fenomeno industriale, i nuovi movimenti giovanili, influenzati dalla pop art, vedevano al contrario nel mercato, nei consumi e nella legge della concorrenza, la vera essenza della realtà industriale. Ci si rese conto che per rimanere sul mercato e per affrontare la concorrenza, l'industria (in qualsiasi settore merceologico operasse) doveva diversificare i suoi prodotti rispetto all'offerta esistente, costruendo il suo catalogo con merci continuamente rinnovabili e di grande visibilità.
Dunque lo sviluppo industriale non avrebbe prodotto un mondo di ordine e di razionalità, ma al contrario un sistema merceologico e formale sempre più diversificato, ricco di eccezioni, di tendenze e di innovazioni. La complessità, e non la razionalità e l'ordine, era il vero futuro che attendeva le società industrializzate.
Da questo cambiamento emerse anche una condizione operativa del tutto nuova per il progetto moderno. Si mise in evidenza una frattura interna della sua unità strategica; fino agli anni Sessanta era diffusa infatti la teoria che prevedeva una sostanziale unità culturale tra le diverse aree operative del progetto moderno; si riteneva che il piano urbano, l'architettura e il d., pur all'interno delle diverse competenze, dovessero collaborare spontaneamente per creare un'evoluzione armonica del mondo, verso un futuro di razionalità e ordine, civile e formale. Si pensava che esistesse quindi una sorta di alleanza strategica spontanea tra le diverse scale di intervento che andavano, come diceva E.N. Rogers, "dal cucchiaio alla città", quindi dall'infinitamente piccolo all'infinitamente grande.
Furono le avanguardie giovanili degli anni Sessanta che per prime misero in evidenza il fatto che, a fronte dell'altissima complessità sociale e metropolitana, si stava ormai determinando una sostanziale autonomia operativa di quelle diverse discipline, per ciascuna delle quali si rivendicava una totale indipendenza: città, architettura e mondo degli oggetti rappresentavano ormai logiche culturali non più conciliabili tra loro in quanto ciascuna affermava la propria centralità, operando in direzioni diverse perchè portatrici di energie e visioni del mondo contrapposte.
La crisi della modernità nacque dunque da una sua sostanziale incapacità di affrontare la complessità del proprio indotto industriale, e dall'impossibilità di contenere, all'interno dei suoi codici e delle sue metodologie, la vastità del mondo fisico e sociale da essa stessa promosso.
In quegli anni lo stesso d., fino ad allora considerato una disciplina unitaria, cominciò un lungo processo di articolazione interna, legata al crescere delle competenze professionali. Come effetto positivo di questa conquistata autonomia nacquero in breve tempo il product design, l'interior design, il d. dei servizi, il d. strategico, il d. primario, il d. ambientale, il d. della comunicazione; tanti nomi a segnalare l'esistenza di nuovi settori di attività, dotati di specifici dispositivi progettuali, ma anche di logiche non sempre convergenti.
Il frazionamento dei mercati
A cominciare dagli anni Settanta si assistette anche al progressivo frazionamento dei grandi mercati di massa (fino ad allora piramidali, e divisi per fasce di censo) che erano stati il punto di riferimento del d. razionalista, impegnato a realizzare prodotti industriali di grande serie, basati su tecnologie avanzate. Si formarono invece, come ha scritto Ch. Jencks nel suo libro The language of the post-modern architecture (1977), gruppi semantici di consumatori che elaboravano modelli di consumo non più corrispondenti ai diversi livelli di disponibilità economica, ma piuttosto a miti e a mondi immaginari, favorendo così il formarsi di molti mercati di nicchia.
Le industrie affrontarono questo nuovo assetto del mercato, che richiedeva un numero sempre maggiore di modelli e di varianti, affinando i propri strumenti di indagine di marketing, e soprattutto sostituendo le vecchie catene di montaggio, rigide e monologiche, con la tecnologia elettronica e i robot, che garantivano una grande flessibilità delle linee produttive. Ebbe così inizio in quegli anni una profonda ristrutturazione dell'intero sistema industriale, che consisteva nella sostituzione della tecnologia di riferimento, passando dalla rigidità della meccanica alla flessibilità dell'elettronica. Inoltre, per ridurre i margini di rischio e affrontare la crescente concorrenza sui mercati saturi, le industrie cominciarono a trasferire i propri processi produttivi in Paesi anche lontani, ma economicamente più convenienti. Questo fenomeno, definito globalizzazione (v.), ha prodotto vaste ripercussioni sociali e urbane (grandi aree industriali dismesse), e ha prodotto profonde modificazioni anche nel mondo del design.
Il mito della grande serie è stato dunque superato dalla necessità di operare in maniera più articolata, anche attraverso piccole serie, serie diversificate, e persino oggetti unici, al fine di rispondere adeguatamente ai numerosi mercati di nicchia. All'idea di un futuro dominato dalle alte tecnologie di grande serie (come ipotizzato dalla modernità razionalista), è stato così sostituito un presente dove non esiste più alcuna sostanziale differenza tra tecnologia industriale, artigianale o etnica. In questi termini la storia del d. è uscita dai limiti imposti dall'idea della sua completa appartenenza alla storia della rivoluzione industriale, per favorirne una lettura più ampia, legata alle radici antropologiche del fare oggetti, come parte nobile della storia della cultura e dell'arte.
Dal prodotto all'innovazione. - In questo nuovo contesto sociale, il d. ha dovuto modificare i propri fondamenti operativi. Nella società postindustriale, con i suoi numerosi mercati di nicchia, il prodotto di d. deve infatti essere in grado di selezionare il proprio utente, intercettandolo attraverso la propria energia espressiva. Il d. non è più impegnato a trovare soluzioni definitive e prodotti destinati ai tempi lunghi, ma piuttosto a creare processi ininterrotti di innovazione tecnologica, merceologica, estetica, funzionale o commerciale per un mercato inquieto e turbolento, che segue logiche selettive e spesso imprevedibili. Logiche che corrispondono a una società che sta cambiando le proprie tradizioni domestiche, sviluppando la creatività individuale come energia relazionale che alimenta nuove forme di economia, e dove il lavoro non è più localizzato nella fabbrica ma si diffonde ormai in tutto il territorio urbano attraverso gli strumenti elettronici.
Così, durante gli anni Novanta, le città europee sono state teatro di una profonda, ma poco visibile rivoluzione, nel senso che nessuna delle destinazioni d'uso programmata dai vari planning urbani è stata rispettata (v. città). La progressiva dismissione di grandi aree industriali e terziarie prodotte dalla globalizzazione (e dall'introduzione del computer) ha immesso sul mercato un vasto patrimonio di spazi e strutture architettoniche, che possono essere usate per attività legate alle nuove forme dell'economia sociale e alle microimprese per la ricerca, i servizi, la moda, l'editoria, il d. o la pubblicità. Ma nessuna di queste nuove destinazioni d'uso ha però carattere definitivo: esse rappresentano piuttosto una fase transitoria all'interno di un processo di continua rifunzionalizzazione a cui la città contemporanea è sottoposta a seguito delle spinte prodotte dai cambiamenti che riguardano l'imprenditorialità diffusa e la progettualità sociale. Questo importante processo dinamico, che permette alle città di assestarsi continuamente con il mutare delle nuove necessità, costituirà secondo l'economista americano S. Cunningham, il business fondamentale del 21° secolo. Questi continui processi di rifunzionalizzazione si realizzano soprattutto attraverso la disponibilità di furniture, cioè di sistemi di arredamento, di cataloghi di componentistica, di prodotti per l'arredamento, di tecnologie ambientali e di impiantistiche di servizio. Sono queste merceologie che introdotte negli spazi interni permettono di cambiarne rapidamente le vecchie funzioni, introducendone di nuove. Questo tipo di merceologie nel loro insieme sono il risultato di progetti di d., e sono realizzate dalle industrie a esso collegate. In questo contesto urbano instabile, il d. ha cessato di essere una pura e semplice attività destinata a rispondere a un mercato ristretto di arredo sofisticato, per divenire una delle attività fondamentali per il funzionamento della città contemporanea.
L'idea razionalista di un d. che opera rispondendo al binomio forma/funzione, individuando soluzioni ottimali e definitive, lascia il posto a un'attività di progetto che si impegna a operare soluzioni provvisorie, reversibili, corrispondenti alla logica di un'epoca segnata profondamente dallo spirito dell'elettronica, i cui strumenti (i computer) non hanno mai una funzione definita, ma sono piuttosto dei 'funzionoidi' in grado di adattarsi a qualsiasi tipo di necessità operativa, superando la vecchia idea che debba esistere sempre una connessione rigida tra forma e funzione, e che il progetto moderno debba elaborare organismi funzionali strettamente specializzati.
La società postindustriale e la New economy
La fine del 20° sec. e l'inizio del 21° è stata caratterizzata dunque da un profondo cambiamento nel d., come parte delle trasformazioni più generali che sono avvenute nella società contemporanea. Il numero delle persone legate all'economia del salario si è ridotta drasticamente in tutti i Paesi occidentali, a seguito dei processi di globalizzazione e dall'uso del computer. Il numero dei soggetti dimessi dai cicli industriali è cresciuto senza interruzione, fino a creare due economie diverse: un'economia industriale classica (basata su relazioni contrattuali e salario) sempre più settoriale, e un'economia sociale sempre più estesa, costituita da tutti coloro che inventano nuovo lavoro, nuove imprese, nuovi prodotti, nuovi servizi, diventando imprenditori di sé stessi (self brand) e liberi operatori di una finanza spesso più virtuale che reale, chiamata dagli analisti New economy. A partire dall'ultimo decennio del 20° sec. la fabbrica dunque non è più il centro del mondo, il luogo attorno a cui si modella la società industriale: adesso il lavoro è diffuso dentro la società, e corrisponde alle capacità individuali di ciascuno di inventare relazioni e scambi (anche virtuali) che creano flussi spesso tumultuosi, di economie provvisorie e congiunturali. Si direbbe quindi che all'inizio del 21° sec. si assiste al passaggio da una società industriale, caratterizzata dal lavoro in fabbrica e dall'uso dei prodotti di serie, a una vera civiltà industriale, dove ciascuno ha adottato le modalità e le finalità dell'industria. Dentro un mercato dove tutti i prodotti sono industriali, non perché realizzati alla catena di montaggio, ma perché appartenenti a un mercato e a una società globalmente industrializzate. Una civiltà dove tutti sono industriali, non perché possiedono un'industria, ma perché ne hanno interiorizzato la logica e i valori.
Si è assistito dunque per la prima volta alla nascita di una imprenditorialità di massa, dentro a una società complessivamente progettante: impegnata cioè a produrre innovazione, nuove relazioni economiche, varianti tecniche o formali dei cataloghi esistenti, muovendo continuamente l'offerta per affrontare la concorrenza e per rendersi visibili sul mercato.
Nuove forme di ricerca tecnologica
La ricerca tecnologica, durante il periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale alla fine del 20° sec., si è sviluppata secondo un modello di funzionamento ben preciso. I costi elevati delle più importanti ricerche in ambito tecnologico venivano infatti supportati da alcune grandi cattedrali istituzionali della ricerca scientifica, come l'esercito (soprattutto negli Stati Uniti d'America e nei Paesi socialisti), le organizzazioni delle imprese aerospaziali (fino agli anni Ottanta), la NASA, le grandi università scientifiche. All'interno di queste istituzioni si sviluppavano ricerche finanziate dallo Stato su grandi aree di tecnologia applicata, come i nuovi materiali e l'elettronica, i cui risultati applicati ricadevano a pioggia sull'intero apparato industriale, dove venivano elaborati localmente secondo le necessità produttive delle singole industrie.
Durante l'ultimo decennio del secolo scorso però, a questo modello verticale si è affiancato un sistema di ricerca dal basso, spontanea e autonoma, prodotta da una sempre più diffusa popolazione di liberi ricercatori, che fuori dai tradizionali rapporti contrattuali con l'industria, si sono fatti carico di elaborare forme nuove di ricerca debole e diffusa, impegnata cioè a produrre un flusso continuo di microinnovazioni tecnologiche, in grado di muovere l'offerta e animare il mercato. Le grandi industrie del settore informatico ed elettronico hanno per prime elaborato una forma di interfaccia operativa con questo tipo di energie spontanee, che operano spesso in distretti locali (per es. Silicon Valley), realizzando joint ventures provvisorie e microimprese miste, che permettono un intenso scambio di informazioni e di stimoli alla produzione. La ricerca tecnologica più avanzata ha così adottato un modello di funzionamento che è nato storicamente negli anni Sessanta del secolo scorso nei settori della creatività giovanile e della musica, soprattutto a Londra, dove le majors crearono una fitta rete di piccole e piccolissime case di produzione, a cui partecipavano direttamente gli stessi artisti, avendo così la possibilità di operare in un mercato creativo, altrimenti non esplorabile con gli strumenti del marketing tradizionale.
Un fenomeno analogo è avvenuto dalla fine degli anni Novanta del 20° sec. anche nel settore della moda e del d., dove si è prodotta la crescita di un grande numero di microimprese start up, spesso temporanee, visibili durante i grandi saloni del mobile, che presentano oggetti o ipotesi di prodotti innovativi, realizzati con bassi investimenti di base, e che nel loro insieme realizzano, più che un catalogo industriale, una 'semiosfera' linguistica, cioè uno scenario estetico cangiante, espressione di un continuo aggiornamento del gusto.
Il design come fenomeno di massa
Si tratta dunque di un complesso fenomeno di novità sociali ed economiche, nel cui contesto il d. ha acquistato una dimensione di massa. L'espressione usata (di massa) non ha un significato negativo, ma vuole indicare una dimensione nuova di un'attività sociale dove agiscono un numero sempre maggiore di operatori impegnati a realizzare strategie di innovazione, a elaborare cioè scenari evolutivi che si estendono ben oltre le dimensioni del singolo prodotto. Possiamo quindi dire che in un certo senso è finita l'epoca dei maestri, che operavano per singoli oggetti (spesso dei veri capolavori), ed è cominciata un'epoca dove il d. è diventato uno dei motori dell'economia sociale.
Dunque il fenomeno che ha caratterizzato il d. tra la fine degli anni Novanta e l'inizio del 21° sec. può essere individuato nella sua crescita quantitativa, derivante da un suo nuovo ruolo nella società postindustriale e nella città in continuo cambiamento, ma anche in quanto motore di una nuova economia sociale. Sono aumentati i progettisti, e sono notevolmente aumentate le scuole e le università del progetto.
È possibile fornire alcuni dati di questa crescita. In Italia all'inizio degli anni Ottanta non era attivo alcun corso di d. a livello universitario, mentre nel 2003 sono risultati attivi diciotto corsi di laurea in undici diverse sedi universitarie, per un totale di 7534 iscritti. Il numero delle scuole parauniversitarie e postuniversitarie in Italia è passato, in venti anni, da uno a diciassette, e nella sola Milano sono attivi undici corsi postuniversitari di d., novantasei parauniversitari, di cui ventitré finanziati dal Fondo sociale europeo (FSE).
In Europa sono attive settantuno tra scuole superiori e università di d., da cui escono ogni anno circa 50.000 laureati o diplomati. Non si tratta tuttavia di un fenomeno soltanto europeo: in Giappone, dove negli anni Settanta la professione di designer era limitata a pochi progettisti che lavoravano all'interno delle grandi industrie, esistono agli inizi del 21° sec. trentasette facoltà di d. che ospitano circa 70.000 studenti. Nell'America Settentrionale sono attive 224 scuole di d. (e 144 di moda), mentre in India sono in funzione 311 corsi universitari di design.
Anche le grandi fiere del settore dell'arredamento (v.) moderno hanno avuto ampio sviluppo. A Milano il Salone internazionale del mobile (attivo dal 1961) è cresciuto fino a diventare una sorta di grande festival mondiale del d., dove ogni anno convergono non solo i più importanti produttori del settore, ma anche i giovani progettisti di tutto il mondo, che presentano in città le loro proposte (nel 2005 le mostre fuori Salone sono state 367). Sempre a Milano si susseguono durante l'anno undici fiere dedicate a settori merceologici specializzati nel settore dell'arredamento (dall'oggettistica, alla cucina, all'illuminazione, ai tessuti). In dodici città italiane si svolgono ogni anno circa venti fiere internazionali dedicate alle componenti dell'arredamento per la casa. Nella sola Parigi si tengono annualmente nove saloni internazionali dedicati al d., e importanti fiere del settore si svolgono a Francoforte, Hannover, Colonia, Valencia, Birmingham, Dublino, Stoccolma, Toronto, Düsseldorf, Porto, Chicago, Shanghai, Hong Kong, Madrid, New York, Copenaghen, Montréal, Tokyo, Lisbona, Bruxelles, Londra e Mosca.
Una nuova didattica
È dunque notevolmente cresciuto il numero degli studenti di d. in tutto il mondo, perché è cresciuto il mercato dell'innovazione, i cui modelli di riferimento non sono più soltanto maestri come A. Castiglioni o E. Sottsass, ma anche gli art director che guidano le nuove imprese, i freelances delle grandi agenzie di consulenza, i microimprenditori che agiscono con imprese start up sui mercati dei beni estetici e dei servizi di supporto.
A questa espansione ha corrisposto una profonda trasformazione della didattica. Bisogna infatti tenere presente che durante il 20° sec. la storia del d. è stata soprattutto una storia di scuole. Come in nessuna altra disciplina, la didattica ha rappresentato un momento di riflessione alta su questioni teoriche oltre che formative: nell'architettura, nella musica, nell'arte moderna, la riflessione e il dibattito attorno all'idea di scuola non ha significato tanto come nel design.
La prima di una lunga storia di scuole del progetto è stata il Bauhaus, fondato nel 1919 da W. Gropius a Weimar e chiuso su ordine di A. Hitler nel 1933. Esso si proponeva di ricomporre in uno scenario domestico le energie creative delle prime avanguardie, coinvolgendo nei suoi laboratori didattici alcuni dei protagonisti dell'arte moderna come P. Klee, W. Kandinskij, O. Schlemmer, L. Mies van der Rohe e altri. Un importante risultato del Bauhaus fu l'introduzione nel d. del codice neoplastico, costituito da figure geometriche elementari (sfere, piani, cilindri, rette, coni), che componendosi tra loro creavano un sistema linguistico originale e molto riconoscibile.
Si riteneva infatti che le macchine industriali, essendo organismi razionali, potessero riprodurre soltanto figure geometriche. In realtà questo codice non corrispondeva a vere necessità produttive, ma piuttosto all'idea di una diffusione sociale dei linguaggi dell'arte moderna (soprattutto cubismo e purismo). Il procedimento didattico del Bauhaus intrecciava infatti ricerca artistica con ricerca tecnologica in maniera molto sperimentale; ma la rigidità e l'unicità del suo codice formale, come denunciò L. Moholy-Nagy, che della scuola fu uno dei massimi teorici, finì con il creare un sistema chiuso e riduttivo, dove il risultato finale precedeva di fatto il percorso del progetto, svuotandone la componente esplorativa.
Nei primi anni Cinquanta I. Scholl e M. Bill si proposero di recuperare il modello didattico del Bauhaus fondando a Ulm la Hochschule für Gestaltung, la cui direzione venne affidata allo stesso Bill dal 1951 al 1956. Successivamente, sotto la guida di T. Maldonado, teorico di origine argentina, docente dal 1955 al 1967 e rettore della scuola dal 1964 al 1966, venne abbandonata l'idea di dare semplice continuità alle strategie domestiche del Bauhaus. Inoltrandosi nell'area inesplorata della progettazione per la grande serie industriale, venne infatti elaborata una strategia didattica basata sulla individuazione di metodologie di progetto razionalmente definite e ripetibili su basi scientifiche. Il codice formale definito dalla scuola di Ulm consisteva nel raffreddare l'energia espressiva del prodotto, al fine di ridurre il rischio di un suo rifiuto sui grandi mercati di massa; il prodotto veniva definito come una presenza neutra, di colore grigio e di finitura opaca, visivamente non invasivo nell'ambiente e funzionalmente perfetto; non destinato a soddisfare il gusto del pubblico, quanto piuttosto a garantirgli una prestazione tecnicamente perfetta, con un'interfaccia ergonomica e razionale.
Come era stato per tutta la modernità classica, anche per Ulm il centro di riferimento era rimasta la logica della produzione, della fabbrica, e della catena di montaggio, interpretate come realtà razionali, generate dalla stessa macchina che le costruiva e dalla cultura meccanica che le progettava. La fabbrica e il mercato erano visti come realtà diverse e conflittuali, che operavano secondo logiche divaricanti. La chiusura della scuola di Ulm nel 1968 coincise proprio con la fine di quelle certezze illuministe che ritenevano che fosse la razionalità la natura profonda dell'industria, modello di sviluppo verso un futuro nell'ordine. In realtà divenne evidente che logica industriale e mercato non potevano che essere visti come una realtà unica e integrata.
Durante gli anni Ottanta emerse di conseguenza una nuova modalità formativa soprattutto in Italia, dove il d. già da venti anni aveva avuto uno sviluppo straordinario. Nel 1982, per es., venne fondata a Milano la Domus Academy, piccola scuola postuniversitaria internazionale, dove insegnarono molti protagonisti del nuovo d. italiano; la scuola, che ha proseguito negli anni la sua attività didattica, nel corso del tempo ha assunto il ruolo di osservatorio progettuale degli scenari della società postindustriale; superando le teorie basate sulle metodologie razionaliste e le questioni relative all'unità del linguaggio formale, e puntando invece a concentrare il suo sforzo formativo, non tanto sull'apprendimento del d. quanto sulla formazione del designer. Quest'ultimo inteso come professionista in grado di muoversi con autonomia e intelligenza all'interno della complessità dei mercati e delle offerte tecnologiche, capace di risolvere problemi ma anche di porne di nuovi per un'industria che deve espandersi su mercati saturi, a confronto con la concorrenza internazionale.
Nel 2000 sono iniziati i corsi della prima vera facoltà del Design presso il Politecnico di Milano, dove fino a quel momento l'insegnamento della disciplina era rimasto limitato a semplici corsi universitari. Sotto la guida di A. Seassaro la nuova facoltà, con i suoi attuali sette corsi di laurea, è diventata la più importante organizzazione universitaria del settore in Europa, tanto per numero degli allievi quanto per i laboratori di supporto alla ricerca e all'insegnamento. Inserita nel contesto del distretto per l'innovazione di Milano (d., moda, tecnologia, comunicazione), la facoltà è aperta a un intenso scambio di collaborazioni con professionisti esterni, che in più di 500 insegnano nei diversi corsi.
Il 'caso Italia'
L'Italia è il Paese che più a lungo ha detenuto la leadership mondiale nel mercato dei beni estetici, quindi della moda e del design. A cominciare dagli anni Cinquanta, fino alla fine del 20° sec., il made in Italy ha rappresentato un elemento attrattivo per i consumatori più esigenti di tutto il mondo, garantendo un alto livello delle qualità tecniche, insieme a una sofisticata capacità espressiva dei prodotti, fino a diventare uno dei motori nobili dell'economia nazionale.
Tale successo, riconosciuto internazionalmente, è il risultato di una serie di diversità che il 'sistema Italia' rappresenta rispetto a molti altri Paesi, sia dal punto di vista industriale, sia dal punto di vista culturale. Diversità che il d. italiano ha interpretato in maniera particolare, trasformando anche alcuni suoi difetti (o debolezze) in occasioni positive per nuove strategie.
Dal punto di vista industriale il d. italiano si è sviluppato soprattutto in rapporto con la rete delle piccole e medie industrie, che rappresentano una presenza diffusa su tutto il territorio nazionale e che sono alla base del sistema dei distretti produttivi italiani, cioè quei territori dove si addensano piccole industrie e laboratori che operano tutti nello stesso settore merceologico. Distretti costituiti da realtà altamente concorrenziali al loro interno, dove si concentra un altissimo sapere tecnologico e creativo e dove spesso il prodotto può circolare da un laboratorio all'altro, seguendo un percorso costruttivo diffuso sul territorio, che permette di realizzare una grande flessibilità rispetto alle domande del mercato. In luogo della difficile rigidità delle grandi fabbriche europee, il sistema industriale italiano ha così potuto adattarsi spontaneamente ai mercati postindustriali, garantendo insieme qualità artigianali con duttilità produttiva.
Come ha teorizzato l'economista U. Becattini, questo originale contesto operativo è stato capace di trasformare in vantaggio un sistema produttivo oggettivamente debole, e ha trovato nel d. un elemento strategico di grande importanza. Infatti a differenza di ciò che era successo nel resto dell'Europa, dove il d. si è integrato anche fisicamente con la grande industria, il d. italiano fino dagli anni Cinquanta ha sviluppato una intensa collaborazione con le piccole e medie industrie, basata su un rapporto di partnership (regolato dalle royalty) fondata sulla reciproca autonomia, anche logistica. Autonomia reciproca che non vuol dire conflitto, ma rappresenta una condizione ove l'industria sviluppa al meglio la propria logica imprenditoriale, e dove il d. sviluppa la sua ricerca culturale, trovando di volta in volta un punto di equilibrio sul singolo prodotto.
Dunque il d. italiano si è sviluppato come un sistema aperto, dinamico, sperimentale, dove il designer, pur operando al di fuori dell'industria, è capace di offrire a quest'ultima, attraverso il progetto, molte informazioni culturali e di tendenza, facendosi carico di sviluppare autonomamente ricerche tecnologiche ed espressive, che le singole industrie non sarebbero in grado di portare avanti. Si tratta quindi di un sistema operativo spontaneamente vicino al modello postindustriale, perché poco rigido e policentrico, che ha rappresentato per molti Paesi un esempio di modernità meno razionale ma più vivibile, capace di proporre qualità domestiche godibili e raffinate.
Una grave crisi del made in Italy ha tuttavia cominciato a manifestarsi a partire dai primi anni del 21° secolo. Il sistema dei distretti italiani proprio in questi anni si è trovato a dover affrontare la forte concorrenza dei mercati asiatici, e l'entrata in funzione della moneta europea ha creato un'economia nazionale più stabile, ma meno favorita dall(come nei decenni precedenti). Si è verificata inoltre l'entrata nel settore del made in Italy di alcuni grandi gruppi dell'alta finanza, che hanno creato una politica commerciale attenta soprattutto ai mercati del lusso, storicamente lontani dalle strategie del d. italiano. I vecchi equilibri culturali sono dunque saltati, e insieme a questi l'offerta culturale del made in Italy ha cominciato un ciclo discendente di non facile soluzione, che nei prossimi anni dovrà essere affrontato dal 'sistema Paese' nel suo insieme, e soprattutto dai creativi italiani impegnati a elaborare modelli innovativi, per una società molto diversa da quella in cui il caso Italia era nato e si era affermato.
Bibliografia
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