Design
«Un designer dovrebbe sapere che gli oggetti possono diventare lo strumento di un rito esistenziale» (Ettore Sottsass)
Il design oggi
di Andrea Branzi
16 aprile
In concomitanza con il 47° Salone internazionale del mobile alla Fiera di Milano e con il suo corollario chiamato Fuorisalone, una serie di manifestazioni culturali, incontri, dibattiti e performance artistiche anima il capoluogo lombardo. In particolare la Settimana del design pubblico presenta progetti, installazioni ed eventi, che esprimono un nuovo concetto di città e di design.
Molti mercati di nicchia
Per essere competitiva e affrontare la concorrenza, oggi l’industria (in qualsiasi settore merceologico operi) è spinta a diversificare i suoi prodotti rispetto all’offerta esistente, a costruire il suo catalogo creando prodotti continuamente rinnovabili e immettendo sul mercato merceologie sempre diverse e di grande visibilità. Dunque lo sviluppo industriale non ha prodotto un mondo di ordine e di razionalità, ma un sistema merceologico e formale sempre più diversificato, ricco di eccezioni, di tendenze e di innovazioni. La complessità, e non la razionalità e l’ordine, è il presente e il futuro delle società industrializzate.
A cominciare dagli anni 1970 si è assistito al progressivo frazionamento dei grandi mercati di massa (fino ad allora piramidali e divisi per fasce di censo), che erano stati il punto di riferimento del design razionalista, impegnato a realizzare prodotti industriali di grande serie, basati su tecnologie avanzate. Si sono formati invece – come scrive Charles Jencks nel suo libro The language of post-modern architecture (New York, Rizzoli, 1977) – dei gruppi semantici di consumatori che elaborano modelli di consumo non più corrispondenti ai diversi livelli di disponibilità economica, ma piuttosto a miti e a mondi immaginari, favorendo così il formarsi di molti mercati di nicchia.
Le industrie hanno affrontato questo nuovo assetto del mercato, che richiedeva un numero sempre maggiore di modelli e di varianti, affinando i propri strumenti di indagine di marketing e soprattutto sostituendo le vecchie catene di montaggio, rigide e monologiche, con la tecnologia elettronica e i robot, che garantivano una grande flessibilità delle linee produttive. Per ridurre i margini di rischio e affrontare la crescente concorrenza sui mercati già saturi, le industrie hanno poi cominciato a trasferire i propri processi produttivi in paesi anche lontani, ma economicamente più convenienti.
Questo fenomeno, definito come globalizzazione, ha prodotto vaste ripercussioni sociali e urbane (grandi aree industriali e terziarie dismesse) e portato a profonde modificazioni anche nel campo del design.
Il mito della grande serie è stato dunque superato dalla necessità di operare in maniera più articolata, anche attraverso piccole serie, serie diversificate e oggetti unici, al fine di rispondere adeguatamente ai numerosi mercati di nicchia. All’idea di un futuro nelle sole alte tecnologie di grande serie (come ipotizzato dalla modernità razionalista) è stato così sostituito un presente dove non esiste più nessuna sostanziale differenza tra tecnologia industriale, artigianale o etnica.
In questo nuovo contesto sociale, il design ha dovuto modificare i propri fondamenti operativi.
Nella società postindustriale e nei suoi numerosi mercati di nicchia, il prodotto di design deve essere in grado di selezionare il proprio utente, intercettandolo attraverso la sua energia espressiva. Il design non è più impegnato a cercare soluzioni definitive e prodotti destinati ai tempi lunghi, ma piuttosto a creare processi ininterrotti di innovazione tecnologica, merceologica, estetica, funzionale o commerciale, per un mercato inquieto e turbolento, che segue logiche selettive e spesso imprevedibili.
La progressiva dismissione delle grandi aree industriali e terziarie prodotte dalla globalizzazione ha immesso inoltre sul mercato un vasto patrimonio di spazi e strutture architettoniche disponibili a essere usati per attività connesse alle nuove forme dell’economia sociale e alle microimprese legate alla ricerca, ai servizi, alla moda, all’editoria, al design o alla pubblicità. Nessuna di queste nuove destinazioni d’uso ha però carattere definitivo: esse rappresentano piuttosto una fase transitoria all’interno di un processo di continua rifunzionalizzazione, a cui la città contemporanea è sottoposta a seguito delle spinte prodotte dai cambiamenti che riguardano l’imprenditorialità diffusa e la progettualità sociale.
Questo importante processo dinamico, che permette alle città di assestarsi al mutare delle nuove necessità e che costituirà – secondo l’economista americano Storm Cunningham – uno dei businnes fondamentali del 21° secolo, si realizza soprattutto attraverso la disponibilità di furniture, cioè di sistemi di arredamento, di cataloghi di componentistica, di prodotti per l’arredo, di tecnologie ambientali e di impiantistiche di servizio che, introdotte negli spazi interni, hanno permesso di cambiarne rapidamente la funzione. Questo tipo di merceologie nel suo insieme è il risultato di progetti di design e viene realizzato dalle industrie a esso collegate. In questo contesto il design ha cessato di essere una pura e semplice attività destinata a rispondere a un mercato ristretto di arredo sofisticato, per divenire una delle attività fondamentali per il funzionamento della città contemporanea, che prevede una costante instabilità delle sue funzioni.
Imprenditorialità di massa e ricerca dal basso
La fine del 20° e l’inizio del 21° secolo sono stati caratterizzati dunque da un profondo cambiamento nel design, come parte delle trasformazioni più generali avvenute nella società contemporanea. Il numero delle persone legate all’economia del salario si è ridotto drasticamente in tutti i paesi occidentali, in seguito ai processi di globalizzazione e all’uso dei computer.
La quantità dei soggetti dismessi dai cicli industriali è cresciuta senza interruzione, fino a creare due economie diverse: una economia industriale classica (basata su relazioni contrattuali e salario), sempre più settoriale, e una economia sociale, sempre più estesa, costituita da tutti coloro che inventano nuovo lavoro, nuove imprese, nuovi prodotti, nuovi servizi, diventando imprenditori di sé stessi (self brand) e liberi operatori di una finanza spesso più virtuale che reale, chiamata dagli analisti new economy.
Nell’ultimo decennio del 20° secolo la fabbrica non costituisce più il centro del mondo, il luogo attorno a cui si modella la società industriale: il lavoro è diffuso dentro la società e corrisponde alle capacità individuali di ciascuno di inventare relazioni e scambi (anche virtuali) che creano flussi, spesso tumultuosi, di economie provvisorie e congiunturali.
Si direbbe quindi che all’inizio del 21° secolo si sta assistendo al passaggio da una società industriale, caratterizzata dal lavoro in fabbrica e dall’uso dei prodotti di serie, a una vera civiltà imprenditoriale, dove ciascuno ha adottato le modalità e le finalità dell’industria, diventando imprenditore di sé stesso all’interno di un mercato dove tutti i prodotti sono industriali, non perché realizzati alla catena di montaggio, ma in quanto appartenenti a un mercato e a una società globalmente industriali.
Una civiltà dove tutti sono industriali, non perché possiedano un’industria, ma perché ne hanno interiorizzato la logica e i valori. Si è assistito per la prima volta alla nascita di una imprenditorialità di massa, dentro a una società complessivamente progettante; impegnata cioè a produrre innovazione, nuove relazioni economiche, varianti tecniche o formali dei cataloghi esistenti, muovendo continuamente l’offerta per affrontare la concorrenza e rendersi visibili sul mercato. La ricerca tecnologica, durante il periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale alla fine del 20° secolo, si è sviluppata secondo un modello di funzionamento particolare.
Le grandi ricerche sulle innovazioni tecnologiche, il cui costo di base e la cui gestione superavano le possibilità delle grandi industrie, venivano supportate da alcune grandi istituzioni, come per esempio l’esercito (soprattutto negli Stati Uniti e nei paesi socialisti), dalle organizzazioni delle imprese aerospaziali, come per esempio la NASA (in particolare fino agli anni 1980), e dalle principali università scientifiche. Queste istituzioni sviluppavano ricerche sovvenzionate dallo Stato per le grandi questioni tecnologiche, come i nuovi materiali, l’elettronica o la fisica teorica, i cui risultati applicati ricadevano a pioggia sull’intero apparato industriale, dove venivano declinati localmente secondo le necessità produttive delle singole industrie, grandi o piccole.
Durante l’ultimo decennio del 20° secolo, però, a questo modello verticale si è affiancato un sistema di ricerca dal basso, spontanea e autonoma, prodotta da una sempre più diffusa popolazione di liberi ricercatori che, fuori dai tradizionali rapporti contrattuali con l’industria, si sono fatti carico di elaborare forme nuove di ricerca ‘debole e diffusa’, impegnata cioè a produrre non tanto scoperte epocali, quanto piuttosto un flusso continuo di innovazione tecnologica, in grado di muovere l’offerta e animare il mercato. Le grandi industrie del settore informatico ed elettronico hanno per prime elaborato un’interfaccia operativa con questo tipo di energie spontanee, che operano spesso in distretti locali (per esempio, la Silicon Valley di San Francisco), realizzando joint venture provvisorie e microimprese miste, che permettono un intenso scambio di informazioni e di stimoli alla produzione.
Nel contesto di questo fenomeno complesso, fatto di novità sociali ed economiche, il design negli ultimi decenni ha acquistato una dimensione di massa. L’espressione ‘di massa’ non ha un significato negativo, ma vuole indicare una dimensione nuova di un’attività sociale nella quale opera un numero sempre maggiore di soggetti, impegnati a realizzare strategie di innovazione, cioè a elaborare scenari evolutivi che si estendono ben oltre le dimensioni del singolo prodotto. Tali strategie di innovazione interessano l’intero apparato industriale, ben oltre i limiti tradizionali del mercato dell’arredo, che sta diventando a sua volta uno dei motori fondamentali del funzionamento urbano. Si può quindi sostenere che è finita l’epoca dei ‘maestri’ del design, che operavano per singoli prodotti (spesso veri capolavori) ed è iniziata quella in cui il design è parte dell’economia sociale, che ne stimola l’innovazione, tanto importante per il suo sviluppo industriale sui mercati saturi della concorrenza nell’epoca della globalizzazione.
È possibile fornire alcuni dati di questa crescita quantitativa. In Italia all’inizio degli anni 1980 non esistevano corsi di design a livello universitario, mentre nel 2007 sono stati attivi 21 corsi di laurea in 14 diverse sedi universitarie. La facoltà di design del Politecnico di Milano, in funzione dal 1993, è considerata la più grande e meglio attrezzata d’Europa, con otto diversi corsi di laurea e 4500 iscritti. Il numero delle scuole para- e postuniversitarie è passato in vent’anni da uno a 17 e solamente a Milano sono attivi 11 corsi postuniversitari e 96 corsi parauniversitari di design, 23 dei quali finanziati dalla Unione Europea attraverso il Fondo sociale europeo.
In Europa sono attive 71 tra scuole superiori e università, da cui escono ogni anno circa 50.000 laureati o diplomati. In Giappone, dove negli anni 1970 la professione di designer era limitata a pochi progettisti che lavoravano all’interno delle grandi industrie; esistono oggi 37 facoltà di design che ospitano circa 70.000 studenti. In America Settentrionale vi sono 224 scuole di design e 144 di moda; in India le università di design sono 311.
Anche le grandi fiere del settore dell’arredamento moderno si sono molto sviluppate.
A Milano il Salone del mobile (inaugurato nel 1961 e divenuto internazionale dal 1991) è cresciuto fino a diventare una sorta di grande festival mondiale di design, dove ogni anno confluiscono non solo i più importanti produttori del settore, ma anche giovani progettisti che presentano le loro proposte (nel 2008 gli eventi nel Fuorisalone sono stati 572). Sempre a Milano si susseguono durante l’anno 11 fiere dedicate a settori merceologici specializzati nell’arredamento, dall’oggettistica alla cucina, all’illuminazione, ai tessuti. In 12 città italiane si svolgono ogni anno circa 20 fiere internazionali riservate alle componenti dell’arredamento per la casa.
A Parigi si tengono ogni anno nove saloni internazionali dedicati al design e importanti fiere del settore hanno luogo a Francoforte, Hannover, Colonia, Valencia, Birmingham, Dublino, Stoccolma, Toronto, Düsseldorf, Oporto, Chicago, Shanghai, Hong Kong, Madrid, New York, Copenhagen, Montreal, Tokyo, Lisbona, Bruxelles, Londra, Mosca e Istanbul.
Una nuova didattica
Cresce dunque molto il numero degli studenti di design in tutto il mondo, perché cresce il mercato dell’innovazione, i cui modelli di riferimento non sono più soltanto i maestri, come Achille Castiglioni o Ettore Sottsass, ma anche gli art directors che guidano le nuove imprese, i free lance delle grandi agenzie di consulenza, i microimprenditori che agiscono con imprese start up sui mercati dei beni estetici e dei servizi di supporto.
A questa espansione ha corrisposto una profonda trasformazione della didattica. Bisogna infatti tenere presente che durante il 20° secolo la storia del design è stata soprattutto una storia di scuole. Come in nessuna altra disciplina la didattica ha rappresentato un momento di riflessione alta su questioni teoriche oltre che formative: nell’architettura, nella musica, nell’arte moderna, l’attenzione e il dibattito attorno all’idea di scuola non hanno significato tanto come nel design.
La prima di una lunga storia di scuole del progetto è stata il Bauhaus, fondato nel 1919 da Walter Gropius a Weimar e chiuso su ordine di Adolf Hitler nel 1933. Esso si proponeva di ricomporre in uno scenario domestico le energie creative delle prime avanguardie, coinvolgendo nei vari laboratori didattici alcuni dei protagonisti dell’arte contemporanea (Paul Klee, Vasilij Kandinskij, Oskar Schlemmer, Ludwig Mies van der Rohe e altri).
Un importante risultato del Bauhaus fu l’introduzione nel design del codice neoplastico, costituito da figure geometriche elementari, che componendosi tra loro creavano un sistema linguistico originale e molto riconoscibile; questo codice non corrispondeva in realtà alle logiche produttive, ma era strettamente legato alla diffusione sociale dei linguaggi dell’arte moderna (soprattutto cubismo e purismo). Il procedimento didattico del Bauhaus intrecciava infatti ricerca artistica con ricerca tecnologica in maniera molto sperimentale; ma la rigidità e l’unicità del suo codice formale – come denunciò László Moholy-Nagy che della scuola fu uno dei massimi teorici – finì con il creare un sistema chiuso e riduttivo, dove il risultato finale precedeva di fatto il percorso del progetto, svuotandone la componente esplorativa.
Nel 1946 Inge e Gretel Scholl, per ricordare i fratelli Hans e Sophie, membri del gruppo antinazista La rosa bianca e condannati a morte da Hitler, si proposero di riaprire il Bauhaus, fondando a Ulm la Hochschule für Gestaltung e affidandone la direzione a Max Bill, a cui nel 1956 succedette Tomás Maldonado, teorico di origine argentina. Sotto la guida di Maldonado la scuola di Ulm abbandonò l’idea di dare semplice continuità alle strategie domestiche del Bauhaus e si inoltrò nell’area inesplorata della progettazione per la grande serie industriale, elaborando una strategia didattica basata sull’individuazione di metodologie di progetto razionalmente definite e ripetibili su basi scientifiche. Il codice formale definito dalla scuola di Ulm consisteva nel raffreddare l’energia espressiva del prodotto, al fine di ridurre il rischio di un suo rifiuto sui grandi mercati di massa; il prodotto tecnico veniva definito come una presenza neutra, di colore grigio e di finitura opaca, visivamente non invasivo nell’ambiente e funzionalmente perfetto; non destinato a soddisfare il gusto del pubblico, quanto piuttosto a garantirgli una prestazione tecnicamente perfetta e un’interfaccia ergonomica e razionale.
Come era stato per tutta la modernità classica, anche per Ulm il centro di riferimento era rimasto la logica della produzione, della fabbrica e della catena di montaggio, interpretate come realtà razionali, generate dalla stessa macchina che le costruiva e dalla cultura meccanica che le progettava. La fabbrica e il mercato erano visti come realtà diverse e conflittuali, che operavano secondo logiche divaricanti.
La chiusura della scuola di Ulm nel 1968 coincise proprio con la fine di quelle ‘certezze illuministe’ che ritenevano che fosse la razionalità la natura profonda dell’industria, modello di sviluppo verso un futuro nell’ordine. In realtà la logica industriale e il mercato non potevano che essere visti come una realtà unica e integrata, dove una parte presuppone sempre l’altra.
Durante gli anni 1980 emerse di conseguenza una nuova modalità formativa, soprattutto in Italia, dove il design ormai da venti anni aveva avuto uno sviluppo straordinario. L’Italia possiede una tradizione didattica del tutto particolare, basata su una pedagogia rivolta non al trasferimento di nozioni, ma piuttosto alla formazione della personalità dell’allievo sulla base dello sviluppo delle sue potenzialità analitiche e creative. Maria Montessori, le sorelle Agazzi, Gianni Rodari, Bruno Munari, Loris Malaguzzi sono state figure di pedagoghi che hanno sempre sviluppato una pratica didattica basata sulla libera ricerca creativa, nel caso di Munari coinvolgendo gli strumenti tipici della ricerca nel settore del design.
Nel 1982 iniziò la sua attività a Milano la Domus Academy, piccola scuola postuniversitaria internazionale, dove insegnavano molti protagonisti del nuovo design italiano. La scuola, che ha proseguito negli anni la sua attività didattica, nel corso del tempo ha assunto il ruolo di osservatorio progettuale degli scenari della società postindustriale, superando le teorie basate sulle metodologie razionaliste e le questioni relative all’unità del linguaggio formale e puntando invece a concentrare il suo sforzo educativo sulla formazione del designer, visto come personalità in grado di muoversi con autonomia e intelligenza all’interno della complessità dei mercati e delle offerte tecnologiche, capace di risolvere problemi ma anche di porne di nuovi per un’industria che deve espandersi su mercati saturi e a confronto con la concorrenza internazionale.
Nel 1993 ha iniziato la sua attività la prima vera facoltà del design presso il Politecnico di Milano, dove fino a quel momento l’insegnamento della disciplina era rimasto limitato a semplici corsi universitari. Sotto la guida di Alberto Seassaro la nuova facoltà è diventata la più importante organizzazione universitaria del settore in Europa, sia per il numero degli allievi, sia per i laboratori di supporto alla ricerca e all’insegnamento. Inserita nel contesto del distretto per l’innovazione di Milano (design, moda, tecnologia, comunicazione) la facoltà è aperta a un intenso scambio di collaborazioni con professionisti esterni, che in più di 500 insegnano nei diversi corsi. Quella del Politecnico di Milano può quindi essere considerata la prima vera università adeguata alla nuova dimensione della professione di designer.
Il ‘caso Italia’
L’Italia è il paese che più a lungo ha detenuto la leadership mondiale nel mercato dei beni estetici, quindi della moda e del design. A cominciare dagli anni 1950 fino alla fine del 20° secolo il made in Italy ha rappresentato un elemento attrattivo per i consumatori più esigenti di tutto il mondo, garantendo un alto livello delle qualità tecniche, insieme a una sofisticata capacità espressiva dei prodotti, fino a diventare uno dei motori nobili dell’economia nazionale, che nell’ultimo decennio è arrivato a rappresentare circa il 70% dell’attivo della bilancia dei pagamenti.
Tale successo, riconosciuto internazionalmente, è il risultato di una serie di diversità che il ‘sistema Italia’ rappresenta rispetto a molti altri paesi, sia dal punto di vista dell’organizzazione industriale, sia dal punto di vista culturale. Diversità che il design italiano ha interpretato in maniera particolare, trasformando anche alcuni suoi difetti (o debolezze) in occasioni positive per nuove strategie.
Dal punto di vista industriale il design italiano si è sviluppato soprattutto in rapporto con la rete delle piccole e medie industrie, che costituiscono una presenza diffusa su tutto il territorio nazionale e sono alla base del sistema dei distretti produttivi italiani, cioè quei territori dove si addensano piccole industrie e laboratori che operano tutti nello stesso settore merceologico (tessile, scarpe, occhiali, paglia, cuoio, arredamento, maglieria ecc.). Distretti costituiti da realtà altamente concorrenziali al loro interno, dove si concentra un altissimo sapere tecnologico e creativo e dove spesso il prodotto può circolare da un laboratorio all’altro, seguendo un percorso costruttivo diffuso sul territorio, che permette di realizzare una grande flessibilità rispetto alle domande del mercato. In luogo della difficile rigidità delle grandi fabbriche europee, il sistema industriale italiano ha così potuto adattarsi spontaneamente ai mercati postindustriali, garantendo insieme qualità artigianali e duttilità produttiva.
Come ha teorizzato l’economista Giacomo Becattini, questo originale contesto operativo è stato capace di trasformare in vantaggio un sistema produttivo oggettivamente debole e ha trovato nel design un elemento strategico di grande importanza. Infatti, a differenza di ciò che è successo nel resto dell’Europa, dove il design si è integrato anche fisicamente con la grande industria, il design italiano fin dagli anni 1950 ha sviluppato un’intensa collaborazione con le piccole e medie industrie, basata su un rapporto di partnership (regolato dalle royalties) fondata sulla reciproca autonomia, anche logistica. Autonomia reciproca che non vuole dire conflitto, ma che rappresenta una condizione ove l’industria svolge al meglio la propria logica imprenditoriale, e dove il design sviluppa la sua ricerca culturale, trovando di volta in volta un punto di equilibrio sul singolo prodotto.
Dunque il design italiano si è sviluppato come un modello aperto, dinamico, sperimentale, dove il designer, pur operando fuori dall’industria, è capace di offrire a quest’ultima, attraverso il progetto, molte informazioni culturali e di tendenza, facendosi carico di sviluppare autonomamente ricerche tecnologiche ed espressive, che le singole industrie non sarebbero state in grado di portare avanti.
Si è trattato quindi di un sistema operativo spontaneamente vicino a un modello postindustriale, perché poco rigido e policentrico, che ha rappresentato per molti paesi un esempio di modernità meno razionale ma più vivibile, capace di proporre qualità domestiche godibili e raffinate. Una grave crisi del made in Italy ha tuttavia cominciato a manifestarsi a partire dai primi anni del 21° secolo, a seguito di profonde trasformazioni geopolitiche che hanno intrinsecamente cambiato la psicologia dei mercati occidentali.
Anche il sistema dei distretti italiani si è trovato in difficoltà di fronte alla concorrenza dei mercati asiatici; inoltre l’adozione della moneta unica europea ha creato un’economia nazionale più stabile, ma meno favorita dall’inflazione (come avveniva nei decenni precedenti). Si è altresì verificato l’ingresso nel settore del made in Italy di alcuni grandi gruppi dell’alta finanza, che hanno creato una politica commerciale attenta soprattutto ai mercati del lusso, storicamente lontani dalle strategie del design italiano. I vecchi equilibri culturali sono dunque saltati, e insieme a questi l’offerta culturale del made in Italy ha cominciato un ciclo discendente di non facile soluzione, che nei prossimi anni dovrà essere affrontato dal ‘sistema paese’ nel suo insieme, e soprattutto dai creativi italiani impegnati a elaborare modelli innovativi, per una società molto diversa da quella in cui il ‘caso Italia’ era nato e si era affermato.
repertorio
Storia del design
Definizioni
Per disegno industriale si intende la progettazione di oggetti destinati a essere prodotti industrialmente, cioè tramite macchine e in serie. Il significato di progettazione è meglio espresso dalla locuzione anglosassone industrial design, grazie alla distinzione terminologica, propria dell’inglese, tra design («progetto») e drawing («disegno»).
Tuttavia disegno industriale è la traduzione italiana comunemente accettata e ufficialmente adottata dall’Associazione per il Disegno Industriale (ADI), fondata nel 1956. Altri modi per designare questa disciplina, che si situa tra il dominio della produzione di merci e quello dell’estetica, sono il francese esthétique industrielle, il tedesco industrielle Formgebung, o anche Produktgestaltung. Ognuna di queste espressioni sottolinea in vario modo il legame con il mondo della tecnica e della produzione meccanica, che fa del design qualcosa di radicalmente diverso dall’artigianato.
L’artigiano, infatti, anche quando adopera macchinari complessi per la fabbricazione di modelli standardizzati, è in grado di intervenire in ogni fase del processo di lavorazione per modificare il prodotto secondo i gusti di un particolare committente o per altri motivi. L’attività del designer si situa, invece, a monte del momento della produzione vera e propria, e si limita alla progettazione di un prototipo, o modello-capostipite, che dovrà essere realizzato poi in un numero determinato di pezzi, assolutamente identici l’uno all’altro. Ciò rende il suo lavoro particolarmente delicato, poiché la sua proposta finale deve risultare dalla sintesi di una serie di valutazioni che ineriscono ai diversi fattori della produzione e che implicano la collaborazione di altri esperti di zone disciplinari contigue ma non coincidenti. E si allude tanto ai fattori relativi all’uso, fruizione e consumo individuale o sociale del prodotto (fattori funzionali, simbolici o culturali), quanto a quelli relativi alla sua produzione (fattori tecnico-economici, tecnico-costruttivi, tecnico-sistemici, tecnico-produttivi e tecnico-distributivi).
La serie cospicua dei condizionamenti, cui l’attività del designer è inevitabilmente sottoposta, è stata all’origine, in anni recenti, di controversie teoriche non meno interessanti sul versante estetico che su quello politico-ideologico. Il design è stato attaccato come disciplina che tende, in definitiva, a rivestire di forme piacevoli, e quindi a rendere mercificabili, articoli che, per la loro natura di oggetti d’uso, non hanno alcun bisogno che se ne nasconda o se ne abbellisca la funzione. Se quasi unanime, specialmente in Europa, è stato il rifiuto di una così riduttiva concezione dei compiti del design, meno facile è stato trovare un accordo per una definizione capace di rendere conto del complesso statuto di questa disciplina.
La formula adottata dall’ICSID (International Council of Societies of Industrial Design) ricalca, nella sua sostanza, la seguente definizione di T. Maldonado: «Il disegno industriale è un’attività progettuale che consiste nel determinare le proprietà formali degli oggetti prodotti industrialmente, per proprietà formali dovendosi intendere non solo le caratteristiche esteriori, ma soprattutto le relazioni funzionali e strutturali che fanno di un oggetto un’unità coerente sia dal punto di vista del produttore sia dell’utente.
Poiché, mentre la preoccupazione esclusiva per le caratteristiche esteriori di un oggetto spesso nasconde il desiderio di farlo apparire più attraente o anche di mascherarne le debolezze costitutive, le proprietà formali di un oggetto sono sempre il risultato dell’integrazione di diversi fattori, siano essi di tipo funzionale, culturale, tecnologico o economico». Altri studiosi hanno insistito sulla prevalente rilevanza sociale, antropologica, ambientale, produttiva o meramente estetica del design, la cui complessa problematica, comunque, potrà essere meglio intesa attraverso un’adeguata conoscenza dei modi in cui l’idea e la pratica stesse del design si sono andate evolvendo.
Gli sviluppi
In generale, ciò che caratterizzò la prima fase dell’industrializzazione (si pensi a certi rari esemplari di macchine del 18° e 19° sec., ma anche alle prime applicazioni del ferro e della ghisa in opere di ingegneria e architettura) fu l’uso di una ornamentazione eccessiva e di gusto tradizionale, tendente a camuffare la struttura, a nascondere i congegni, a nobilitare la superficie delle nuove invenzioni meccaniche.
Lo stimolo a una più attenta considerazione dei problemi estetici posti dalla civiltà delle macchine venne da un avversario dell’industrialismo, l’inglese W. Morris, il quale tentò di risuscitare un artigianato di qualità, promuovendo il movimento delle Arts and crafts, battendosi contro l’imitazione passiva degli stili storici, e insistendo in particolare sul principio della necessaria congruenza tra scelte formali e proprietà dei materiali. Furono queste idee, liberate dal pregiudizio antindustriale, a dare impulso alla eccelsa produzione della scuola di Glasgow (C.R. Mackintosh, M. e F. Macdonald e altri).
Passate poi nell’Europa continentale, furono riprese specialmente dal belga H. van de Velde, uno dei maestri dell’art nouveau, e dal tedesco H. Muthesius. Poco sensibile alle componenti utopiche del pensiero di Morris ed esplicitamente favorevole all’avvento di uno ‘stile delle macchine’, questi promosse la costituzione del Deutscher Werkbund (1907), associazione mirante a qualificare e proteggere la produzione tedesca di oggetti d’uso, all’interno di una economia in forte espansione, mediante la collaborazione tra arte, industria e artigianato.
Analogo istituto, le Wiener Werkstätten, era già sorto a Vienna nel 1903 per iniziativa di J. Hoffmann e K. Moser, nel clima della Secessione. Ancora in Germania e in Austria agivano rispettivamente la grande fabbrica AEG per la produzione di materiale elettrico, che per prima si valse di un architetto, P. Behrens, cui affidare il disegno dell’intera linea della ditta, dallo stabilimento alle merci e alla pubblicità, e la casa Thonet, che da tempo era all’avanguardia per i suoi modelli di sedie in legno curvato. Significativamente presente in Belgio (V. Horta), in Francia (gli ingressi della metropolitana di Parigi disegnati da H. Guimard, i vetri di E. Gallé), in Catalogna con il modernismo di A. Gaudí, in Italia con lo stile Liberty e in tutti i paesi toccati dall’industrialismo, l’art nouveau rappresentò il tentativo della nuova borghesia degli affari, dinamica e cosmopolita, di crearsi un suo stile e una sua estetica.
Il periodo tra le due guerre fu dominato dalle figure di Le Corbusier e degli operatori che si raccolsero intorno al Bauhaus di Weimar, la cui direzione, dapprima affidata da H. van de Velde a W. Gropius (1919-28), passò poi a H. Meyer (1928-30) e a L. Mies van der Rohe (1930-33). Importante fu anche la coeva sperimentazione che si svolse nel nuovo Stato Sovietico, a opera di artisti che aderivano al movimento costruttivista.
Comune a tutti questi esperimenti fu il desiderio di abolire ogni decorazione e ornamentazione superflua, di far coincidere la forma con la funzione dell’oggetto, secondo una visione razionale che, identificando l’utile con il bello, voleva insieme aderire ai bisogni dell’uomo ed eliminare gli sprechi della società. Alla sinuosità naturalistica dell’art nouveau si sostituirono così il linearismo geometrico del Bauhaus e l’ascetismo formale dello Stijl.
Al design funzionalista appartengono alcuni modelli famosi, come la Poltrona blu e rossa di G. Rietveld, la Chaise longue di Le Corbusier, la cabriolet Adler di W. Gropius, la Lampada da tavolo di K.J. Jucker e W. Wagenfeld, le poltrone Wassily di M. Breuer e Barcellona di Mies van der Rohe e numerose altre proposte nel campo dell’arredamento, delle suppellettili, della grafica. L’avvento del nazismo provocò l’esodo dei maestri del Bauhaus soprattutto negli Stati Uniti, dove molti continuarono a dedicarsi all’insegnamento (Gropius, Mies van der Rohe, L. Moholy-Nagy, G. Kepes, J. Albers), contribuendo a fare di questo paese il nuovo centro internazionale del design: accanto alla linea razionale, che aveva negli USA una illustre tradizione (si pensi al fordismo e, in architettura, alla scuola di Chicago), e al gusto déco proveniente dalla Francia, si venne allora affermando la linea aerodinamica dei modelli di automobili, elettrodomestici, telefoni ecc., progettati da W.D. Teague, R. Loewy e H. Dreyfuss, che si possono considerare i maestri dello styling americano.
Dopo la Seconda guerra mondiale, la problematica del design si arricchì del contributo dell’estetica informazionale, soprattutto per merito della Hochschule für Gestaltung di Ulm diretta da M. Bill, e della semiologia (l’oggetto è considerato, oltre che per le sue qualità funzionali, per il suo contenuto informazionale, o quoziente di novità, e per i suoi valori simbolici), nonché di una maggiore considerazione del fattore storico che impedisce che certe forme possano essere cambiate a capriccio (donde la legittimità del re-design, ovvero della ripetizione aggiornata di alcuni modelli considerati insuperabili).
Declinato il design degli Stati Uniti, da cui continuava tuttavia a giungere la qualificata produzione di E. Saarinen e C. Eames, si affermarono i paesi scandinavi, da cui mosse un design che, pur nella estrema semplificazione formale, non rinuncia mai a un certo grado di calore, sia nella scelta dei materiali sia nell’aspetto quasi artigianale (tra i più famosi disegnatori, il danese A. Jacobsen, i finlandesi A. Aalto e T. Wirkkala, gli svedesi S. Bernadotte e A. Bjarn). In Germania esemplare fu la linea di apparecchi della ditta Braun, in gran parte progettati presso la scuola di Ulm. Intanto si affermava a livello internazionale il design italiano, per le sue qualità di fantasia e anticonformismo.
In Italia, a causa del tardivo decollo industriale, i primi oggetti, frutto di una consapevole progettazione, erano comparsi sul finire degli anni 1920, insieme con il formarsi delle correnti di architettura razionale, con la pubblicazione delle riviste Domus e Casabella, con l’istituzione delle Esposizioni d’arte decorativa e industriale di Monza e poi di Milano. Di quel primo periodo vanno ricordati il mobile radio di L. Figini e G. Pollini (1933), la Lancia Aprilia del 1937, l’apparecchio radio di L. Caccia Dominioni e dei fratelli A. e P.G. Castiglioni (1939) e non pochi allestimenti di F. Albini, M. Nizzoli ed E. Persico.
Ma fu soprattutto nel Secondo dopoguerra che il design italiano acquistò rinomanza internazionale, con il successo di alcuni modelli di motoscooter, come la Vespa della Piaggio e la Lambretta della Innocenti, con le carrozzerie di Pininfarina e N. Bertone, con i modelli di macchine per scrivere e per cucire che Nizzoli disegnò per la Olivetti e per la Necchi, con i lumi dei fratelli Castiglioni e infine con la molteplice attività di studi di progettazione e di artisti versatili come G. Aulenti, C. Boeri, J. Colombo, E. Mari, B. Munari, E. Sottsass, G. Stoppino, M. Zanuso e numerosi altri. Dagli anni 1960 si delinearono varie esperienze, che andavano dal rifiuto del design (anti-design o contro-design) a uno sperimentalismo ironico e trasgressivo (radical design), alla proposta di oggetti banali, in pericolosa concorrenza con il kitsch, e infine, più in generale, a una progettazione che, ponendo termine al regime di proibizioni formali inaugurato dall’utopia razionalista, tendeva alla riscoperta dell’effimero e dei valori caldi e decorativi dell’oggetto (A. Branzi, R. Dalisi, U. La Pietra, A. Mendini e altri).
Le nuove tendenze
Negli anni 1990 si è assistito a un ampliamento semantico del concetto di design, svincolato dal rapporto con il processo produttivo associato (industriale o artigianale) e incentrato sul suo potenziale progettuale. Una nuova, più adeguata definizione del termine è quella di progettualità applicata, ossia una capacità di previsione e prefigurazione applicata a molti settori produttivi, siano essi materiali o immateriali.
Sempre più diffusa è infatti la consuetudine di richiedere al designer competenze che investano anche fattori immateriali, quali la definizione di idee (concept) trasformate poi in prodotti da altre figure professionali, oppure la partecipazione alla determinazione di strategie di impresa, comunicazione e distribuzione. Queste competenze hanno ormai caratterizzato a tal punto il design da definire una nuova frontiera disciplinare e professionale: il design strategico (progettazione dell’insieme costituito da prodotto, comunicazione e servizio).
L’attenzione per la progettualità applicata a fattori immateriali deriva anche dalla maturazione del sistema industriale che li ha incorporati. L’impresa è consapevole del fatto che alla base di una produzione, sia essa materiale, nel caso di imprese manifatturiere, o immateriale, nel caso di società di servizi, debba esservi una originale proposta culturale.
È infatti quest’ultima ad attrarre il consumatore e ad assicurare la sua fedeltà al marchio. Il design del singolo prodotto resta indubbiamente centrale, ma viene oggi concepito in relazione agli altri prodotti e in funzione della capacità di comunicare coerentemente i valori culturali che esprimono la filosofia dell’impresa. È stata accolta la proposta di A. van Onck, formulata in Design. Il senso delle forme dei prodotti (1994), di assimilare il design alle componenti basilari della linguistica, attribuendo all’assortimento dei prodotti di un’azienda la stessa funzione di un testo scritto, ovvero quella di comunicare un contenuto. Il prevalere della dimensione immateriale del design è stato favorito anche dall’affermazione dell’elettronica e della comunicazione telematica via Internet, che insieme hanno profondamente modificato comportamenti e interessi sociali.
L’elettronica ha elaborato involontariamente una sua estetica, accolta ormai anche dal design. Pixel sgranati, colori freddi, luminescenze, circuiti stampati sono elementi presenti anche in oggetti non propriamente elettronici, come citazioni o elementi decorativi. Un attento studio della comunicazione e dell’immagine è stato alla base del fenomeno della ‘gadgettizzazione’ del design, che ha avuto lo scopo di superare il limite della durata fisica e prestazionale del prodotto a favore della creazione di nuovi mercati. Il fenomeno, che guarda alle dinamiche di divulgazione e consumo di mode, è stato innescato proprio attraverso il design di piccoli oggetti e articoli da regalo (gadget) e ha successivamente investito altri segmenti merceologici (complementi di arredo, mobili, auto ecc.). Il processo di gadgettizzazione avviato all’inizio degli anni 1990 ha agito sull’aspetto emozionale del prodotto attraverso l’elaborazione di immagini capaci di evocare ‘codici affettivi’ e indurre il cliente all’acquisto.
L’aspetto ludico e fumettistico di molti oggetti ha inaugurato un nuovo linguaggio, definito neo-organico, caratterizzato dall’abbinamento tra biomorfismo, materiali plastici e colori vivaci. Il valore simbolico dell’immagine di alcuni oggetti del passato è invece alla base dei numerosi prodotti di restyling, imperniati sulla riproposizione di forme e geometrie consolidate nell’immaginario collettivo, come è avvenuto, per es., per il progetto del New beetle Volkswagen (1998), della nuova Vespa (1996) o della PT Cruiser Chrysler (1999), per restare nell’ambito dei mezzi di trasporto, ma lo stesso vale per altri settori merceologici. La perdita di spessore derivata dall’affermazione della bidimensionalità dell’immagine è anche all’origine della ricercata leggerezza del design minimalista.
Affermatosi negli anni 1990 inizialmente in Gran Bretagna, questo linguaggio ha perseguito l’alleggerimento morfologico, abbinandolo a geometrie rigide, di chiara derivazione razionalista, a strutture esili e materiali freddi, come rigorosa risposta alla ridondanza decorativa del decennio precedente. I prodotti minimalisti per l’arredamento, peraltro, hanno poco del carattere popolare del razionalismo, possedendo piuttosto un certo carattere esclusivo dovuto a costi elevati e a dimensioni generose, che li rendono adatti solo ad ampi spazi. La supremazia dell’immagine ha avuto quindi esiti impensati e calorosamente accolti dalla critica, a scapito di un ormai perduto binomio forma-funzione.
Sin dall’inizio degli anni 1980 si è compresa la necessità di accettare i fenomeni e le espressioni culturali nella loro pluralità e coesistenza. È quindi più difficile isolare storicamente un movimento culturale predominante con riflessi anche nel design. Come è accaduto per l’architettura, alcuni filoni di ricerca stilistica hanno continuato a essere coltivati, come, per es., il design postmoderno o quello di derivazione modernista. Sono invece emersi alcuni movimenti di avanguardia, come il Bolidismo (movimento fondato da M. Iosa Ghini, negli anni 1980, che partiva dalla rappresentazione di un nucleo energetico dinamico interno all’oggetto, per deformare prodotti tradizionali come sedie, tavoli ecc.), i quali si sono rapidamente esauriti o rigenerati in forme più mature per la produzione in serie. Anche il valore espressivo dell’idea di una tecnologia di tipo meccanico ha trovato accoglienza nel design.
L’equivalente dell’architettura high-tech è infatti rintracciabile nei prodotti disegnati dai suoi stessi protagonisti, come N. Foster o R. Piano, che hanno riproposto lo stile della macchina di tipo protoindustriale. Il rapporto con la tecnologia ha trovato però applicazioni anche molto più innovative, soprattutto riferite all’evoluzione dall’era meccanica a quella elettronica. Alcune ricerche hanno perseguito un design soft-tech, in cui all’ostentazione tecnologica degli anni 1980 si è sostituita una tecnologia sofisticata ma discreta. In questo senso ha giocato un ruolo centrale lo studio dell’interfaccia, intesa come componente di mediazione e comunicazione funzionale tra l’oggetto e il fruitore. La cultura delle società occidentali mature ha toccato negli anni 1990 anche aspetti etici, definiti di nuova sensibilità, che hanno avuto come esito sia un diverso rapporto con l’ambiente, sia manifestazioni di apertura verso la diversità culturale.
L’esigenza di uno sviluppo sostenibile, inteso come evoluzione sociale verso nuovi modelli di consumo compatibili con la disponibilità e la rigenerazione di risorse, è emersa con tutta la sua forza, influenzando la ricerca in diversi settori, compreso il design. In questo campo si è lavorato molto all’individuazione di strategie progettuali e produttive finalizzate alla riduzione del consumo di risorse, attraverso lo studio e la ricerca per un minore impiego di materia nei prodotti, l’individuazione di strategie per prolungare la vita degli oggetti e l’uso di materiali facilmente rinnovabili.
Negli anni 1990 si è anche sviluppata una estetica ecologica, caratterizzata da geometrie semplici e materiali naturali. Il design derivante dalle tendenze della nuova sensibilità ha trovato ispirazione pure nella contaminazione culturale con altre società, soprattutto quelle africane o sudamericane. Il bagaglio di oggetti artigianali di queste popolazioni ha profondamente influenzato, da un punto di vista sia morfologico sia materico, il design di molti prodotti di questi anni. L’evoluzione culturale ha portato inoltre ad accogliere le problematiche legate a gruppi omogenei, prima poco considerati, come bambini, anziani e disabili. Il design degli anni 1990 ha visto fiorire numerosi progetti collegati a questi gruppi, con diverse modalità.
I bambini, per es., nonostante il relativo calo demografico, sono stati spesso oggetto di maggiori investimenti, da cui la creazione di nuovi prodotti specifici per questo mercato.
Gli anziani, in notevole aumento, hanno attratto l’attenzione di produttori e designer, portando alla creazione di una serie di prodotti specifici.
Anche il prodotto per il corredo oggettuale per disabili si è ispirato a concetti innovativi come quello di ‘cultura della normalità’, dando luogo al disegno di oggetti non emarginanti, più studiati dal punto di vista ergonomico e formale.
Un’altra caratteristica del design degli anni 1990 è stata la centralità della ricerca sui materiali. A testimonianza del fenomeno, nell’arco del decennio sono state organizzate numerose mostre in tutto il mondo: da Techniques discrètes, nel 1991 a Parigi, a Mutant material in contemporary design, nel 1995 a New York, a I-made, materials and ideas, nel 2000 a Milano. L’elemento comune è stato proprio il tema dell’innovazione nel design, che parte dall’uso inconsueto di materiali tradizionali o dalla progettazione di nuovi materiali in risposta a esigenze specifiche.
Alla base ci sono numerose motivazioni strutturali, tra cui l’enfatizzazione del carattere tecnologico del design come elemento di collegamento alla contemporaneità; la risposta applicativa a ricerche compiute nei settori della chimica e dell’ingegneria dei materiali; la definizione di un vantaggio competitivo che mette al riparo dalla imitazione; infine l’attenzione per le qualità intermedie della materia e delle sue caratteristiche principali. Va infine ricordato che il design, in passato, è sempre stato legato a determinati ambiti geografici (italiano, scandinavo, francese ecc.). La localizzazione derivava dal fatto che sia l’impresa sia il designer avevano la stessa nazionalità o, al massimo, si accettavano designer stranieri ma naturalizzati, come per es. è avvenuto nell’ambito del design italiano per R. Sapper. L’attribuzione geografica diveniva la chiave per evidenziare l’espressione culturale comune a un certo popolo, e adottata da una certa storiografia, traducendosi nella struttura di testi di storia e teoria del design. In seguito ai processi di globalizzazione sviluppatisi nella seconda metà del 20° sec., questa lettura territoriale ha per certi versi perso valore, dal momento che l’abbinamento fra il designer e l’impresa ha trovato numerose formule internazionali. Si pensi ai molti designer inglesi che hanno lavorato in Italia (J. Morrison, K. Grcic, R. Arad, R. Lovegrove ecc.), o a quelli italiani impegnati a collaborare con numerose aziende straniere. Il ruolo del territorio, inteso come potenziale di cultura e tradizioni, è però tutt’altro che ridotto, anzi alcuni teorici del design attribuiscono al localismo una funzione centrale. Il successo del design italiano sarebbe così un portato della evoluzione di una tradizione locale del saper fare, oggi trasformata in veri e propri distretti produttivi omogenei (Cantù per il mobile, Udine per le sedie, Como per la seta, Civita Castellana per la ceramica ecc.).
Le strutture
La cultura del design ha non poche organizzazioni associative, con formule diverse. L’ICSID rappresenta ancora oggi il riferimento mondiale per la definizione di ruoli, competenze e caratteristiche della professione del designer, mentre esistono in diversi paesi strutture governative per la promozione e la diffusione della cultura del design come, per es., il Design Council nel Regno Unito. In Italia si ricorda il ruolo svolto dall’ADI: fondata a Milano nel 1956 e costituita da progettisti e imprenditori, ha organizzato numerosi eventi in Italia e nel mondo e ha avuto uno storico sodalizio con la rivista Stile Industria, che ne ha rappresentato per molti anni la vetrina; tra gli scopi dell’associazione vi sono quelli della promozione nazionale e internazionale del design e della tutela della figura del designer. Dall’inizio degli anni 1990 una certa perplessità nei confronti della capacità dell’ADI di rappresentare la realtà del design sull’intero territorio nazionale ha portato gruppi di progettisti e imprenditori a fondare associazioni regionali (AD Veneto, AD Toscana, AD Puglia, AD Calabria, Informazione-Lazio) che si riconoscono in un organismo nazionale, il CNAD (Consiglio Nazionale delle Associazioni di Design) e promuovono localmente la cultura del design.
La Triennale di Milano è l’ente italiano che per tutto il 20° sec. ha promosso la cultura del design attraverso importanti e frequenti mostre tematiche. All’inizio del 2000 è anche divenuta depositaria della prima collezione permanente del design italiano, selezionata in collaborazione con il Politecnico di Milano. Alla fine degli anni 1990 vi è stato un grande ritorno di interesse per gli eventi espositivi, divenuti luogo di scambio di informazioni, ma anche fotografia in progress dell’evoluzione di tendenze e innovazioni (tecnologiche e linguistiche). Tra gli eventi più importanti in Italia è il Salone internazionale del mobile, che si tiene annualmente a Milano e vede impegnato tutto il mondo imprenditoriale, della stampa e del progetto. L’entità di questo evento è tale da aver creato fenomeni espositivi paralleli diffusi in tutta la città, il cosiddetto Fuorisalone, che invece di indebolire il valore della Fiera ha contribuito a rafforzarne l’immagine complessiva. Eventi di rilievo sono anche le fiere specialistiche, tra le quali si ricordano il Macef (Salone internazionale della casa, dedicato a oggettistica e complementi d’arredo) e le biennali Euroluce ed Eurocucine, che si svolgono in contemporanea con il Salone del mobile. Anche Verona, con la mostra Abitare il tempo, da anni rappresenta una vetrina interessante del design italiano.
A divulgare la cultura del design sono chiamate numerose riviste in Italia e nel mondo, che svolgono un ruolo sempre più rilevante sia nella creazione dei mercati, sia nell’affermazione di tendenze culturali. Alcune di esse si interessano al progetto come luogo di contaminazione tra architettura, interni, design e arte (in Italia, tra le altre, Abitare, L’Arca, Area, Domus, Interni; in Gran Bretagna Blueprint), altre rappresentano vetrine per la ricerca e la sperimentazione del design (per es., in Italia Modo, nei Paesi Bassi Frame), altre ancora sono legate alle ricerche teoriche e scientifiche, come le statunitensi Design issues e Design studies; si segnalano poi i cosiddetti houseorgans, cioè le pubblicazioni periodiche volute da singole aziende o gruppi di aziende come, per es., l’italiana Ottagono. Numerosi sono infine i premi internazionali nel campo del design, tra cui lo statunitense Designer of the year, il britannico Millennium product, il tedesco Design plus, che vengono assegnati a prodotti di particolare contenuto innovativo, all’opera di designer che si sono distinti nella loro carriera, e ad aziende. In Italia dal 1954, anno della sua istituzione da parte dei magazzini La Rinascente, il premio Compasso d’oro rappresenta il massimo riconoscimento nell’ambito del design, assegnato dall’ADI a progettisti (alla carriera), imprenditori e prodotti.