Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tentare una ricognizione a largo raggio della storia del design è piuttosto pericoloso; meglio proporne una lettura frammentata e considerare i tratti salienti di un percorso che evidenzia i rapporti intercorsi per più di un secolo tra arti “belle” e arti applicate, fra meccanizzazione, gusto e diffusione su larga scala.
Design, un concetto del Novecento
La storia del design prende in esame la creazione di oggetti prodotti in serie partendo dalla suddivisione del lavoro introdotta dalla rivoluzione industriale nel XVIII secolo. È da questo momento che il lavoro creativo inizia a confrontarsi con le risorse della meccanizzazione, e le arti applicate si sviluppano in dialogo, o in antitesi, con tali meccanismi.
I primi manufatti che segnano il passaggio dall’artigianato all’industria sono le ceramiche prodotte da Josiah Wedgwood , che per primo coniuga in una dimensione aziendale l’aspetto progettuale e produttivo con quello economico e commerciale. In questo modo l’esperienza dell’artigiano e la fantasia dell’artista vengono ricondotte alla serialità e attraverso le possibilità della riproducibilità tecnica.
Nel 1851 all’Esposizione di Londra, sotto le volte vetrate del Crystal Palace, vengono presentati i prodotti dell’industria al grande pubblico. A Hyde Park l’Inghilterra vittoriana celebra se stessa e la sua posizione di leader industriale. L’esposizione universale, visitata da più di 6 milioni di persone, presenta oggetti per lo più incapaci di coniugare agli sviluppi tecnologici un’adeguata veste estetica, scadendo sovente nel kitsch.
Se, da un lato, è facile immaginare l’accoglienza entusiastica riservata all’esposizione, John Ruskin e William Morris ne criticano i risultati, attaccando la standardizzazione e i tentativi di unire le belle arti al grande numero. Il movimento Arts and Crafts, legato alla figura di Morris, elabora una riflessione critica e tenta nuovi orientamenti per un’estetica degli oggetti che fonda le proprie radici nei valori dell’artigianato e della decorazione, nei quali le “arti applicate” e le “arti maggiori” possano trovare una comune risorsa. La nostalgia per il passato e per la bellezza del lavoro manuale, calata nel progresso di fine secolo, trova uno sviluppo nel gusto e nelle pratiche art nouveau. Anche in questo caso l’oggetto d’uso risalta per il disegno coerente; l’esigenza di rendere motivato il rapporto tra struttura e ornamento sfocia in un’azione pervasiva che si sviluppa in linee fluide di derivazione organica, sviluppate dalla struttura architettonica.
Negli oggetti art noveau ispirazioni giapponesi e orientali si mescolano a un decoro intricato e dal ritmo elastico, così come nello stile rettilineo di Charles Rennie Mackintosh.
Una posizione di rilievo nella storia del design spetta di diritto alla Wiener Werkstätte, fondata nel 1903 a Vienna da Josef Hoffmann e Koloman Moser (1868-1918). Si tratta di una cooperativa di artisti che produce artigianalmente arredi, oggetti d’uso e gioielli di altissima qualità formale e pensati per un pubblico altoborghese e sofisticato. Qui le esperienze della secessione si uniscono a quelle Arts and Crafts in un progetto moderno, dove la semplificazione geometrica asseconda un’ossessione decorativa che si manifesta in ogni ambito. La vocazione elitaria dell’impresa viene aspramente criticata da chi, come l’architetto viennese Adolf Loos auspica l’avvento di un progetto basico e funzionale, destinato a un consumo di massa, che sostituisca l’automazione alla manualità nei processi produttivi.
È il caso di Michael Thonet, i cui mobili in legno curvato iniziano a essere fabbricati in serie nel 1856, e le cui logiche produttive trovano un’applicazione oltreoceano nel settore automobilistico con l’attività di Henry Ford, e segnano un momento di svolta nella storia del design.
Nello stesso anno, a Monaco di Baviera, viene fondato il Deutscher Werkbund, un’associazione culturale che ha come obiettivo la nobilitazione del lavoro attraverso la cooperazione di arte, industria e artigianato. Promosso da Hermann Muthesius, coinvolge architetti come Henry van de Velde, Bruno Taut e Walter Gropius. La loro azione tenta un incremento della produzione industriale tedesca attraverso il miglioramento estetico, ponendo la praticità alla base dei valori culturali, e la forma come criterio di giudizio delle cose. Una delle prime aziende in grado di meccanizzare i propri impianti, permettendo l’applicazione di questi principi è la AEG, che produce oggetti per impianti elettrici e tecnologie di comunicazione.
Peter Behrens ne assume l’incarico come consulente artistico, occupandosi di disegnarne le strategie produttive come quelle comunicative, sovrintendendo l’intera configurazione aziendale, dagli spazi di produzione al logotipo, preoccupandosi di definirne l’identità visiva in maniera unitaria, registrando il primo caso di costruzione di immagine aziendale coordinata.
La Bauhaus, l’istituto d’arte e mestieri fondato a Weimar nel 1919 da Walter Gropius e ispirato ai princìpi del Deutscher Werkbund, dà un contributo essenziale alla maturazione del progetto moderno, proiettandolo in una dimensione internazionale.
La predilezione per forme essenziali e la ricerca dell’equilibrio fra gli aspetti estetici, funzionali e tecnici ispira il disegno del prodotto industriale. I princìpi didattici muovono dalla certezza che artista e architetto debbano servire la progettazione totale dell’esistente, “dal cucchiaio alla città” – secondo uno slogan efficace –, e calare l’azione dell’artista in una società capitalistica, fondendo creatività e democrazia, arti belle e applicate.
Il desiderio di espandere la reale influenza delle arti, dai contesti consolidati alla vita quotidiana, è un filo conduttore che riunisce molte delle esperienze dei primi decenni delsecolo. Gli inizi del secolo hanno proposto un’utopia progettuale basata sulla fiducia in un artista multidisciplinare, capace di operare in una dimensione individuale proiettandola in un contesto universale.
Proprio per questo il futurismo italiano, come il costruttivismo russo e il neoplasticismo olandese non rinunciano a confrontarsi con la dimensione abitativa, e gli oggetti d’uso, esaltando l’eterogeneità degli elementi compositivi tramite la geometrizzazione delle forme. Se con il costruttivismo russo di Tatlin l’arte entra in fabbrica, desiderosa di operare nel reale, al servizio della tecnica, De Stijl, fondato nel 1917 in Olanda da Theo van Doesburg e Piet Mondrian , scompone la forma in piani, secondo un processo di semplificazione formale, unendo figure bidimensionali semplici e colori primari; come nelle realizzazioni di Rietveld, quali la sedia rosso-blu (1917-1918) o nella casa Schroder a Utrecht (1924).
Negli anni Venti le arti decorative stringono forti relazioni tra il mondo artistico e quello industriale anche per quanto riguarda le esperienze art déco, termine che definisce una tendenza, nata in Francia negli anni Venti, culminata nel 1925 nell’Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes di Parigi.
Lo stile déco eredita caratteristiche formali dall’art nouveau, accentuandole nella prospettiva di un decorativismo di tipo geometrico, mescolandole con influenze delle avanguardie fauves e cubiste, con l’arte africana ed esotismi.
Il gusto decò predilige nuovi materiali come la bakelite, ed effetti preziosi ottenuti a basso costo di realizzazione, come la cromatura, per ottenere una diffusione su larga scala.
Ai margini dell’esposizione del 1925, Le Corbusier presenta col padiglione dell’Esprit Nouveau , basato sulla sinergia fra il design architettonico e la pittura purista, una concezione delle arti decorative alternativa a quella celebrata nell’occasione. Frutto di una visione logica e schematica della realtà, l’Esprit nouveau ospita al suo interno complementi d’arredo scelti direttamente dalla produzione industriale, che si posizionano nella pianta libera suddividendola in diversi spazi abitativi. ll padiglione elabora la modernità tramite la standardizzazione e l’adozione di una soluzione univoca per il problema dell’abitare, allontanandosi dal concetto di stile.
L’avvento dell’estetica della macchina, propria del movimento moderno conduce alla riduzione dell’architettura a nuda scatola. Qualità ed economicità dell’oggetto d’uso trovano equilibrio quando la forma segue la funzione. Il design d’interni di Marcel Breuer, Le Corbusier e Ludwig Mies van der Rohe esprime la fiducia inscalfibile dell’International Style in una concezione scientista dell’abitare, semplice e funzionale.
La modernità negli USA
All’esposizione parigina del 1925 gli Stati Uniti non vengono rappresentati da un padiglione, ma non si può dire che questa nazione manchi di espressioni e sviluppi autorevoli nel campo. Con il termine streamline, infatti, si raggruppa una sensibilità, fiorita negli anni Trenta in America, caratterizzata dalla carenatura aerodinamica dei beni di consumo. La stilizzazione filiforme era un’addizione superficiale, imitata dalle forme della velocità delle autovetture, svuotata di ogni praticità e sfruttata per la sua carica simbolica, nell’enfatica euforia progressista dei progetti di Norman Bel Geddes e di Raymond Loewy.
La ricerca della carica espressiva dell’oggetto appartiene anche a esponenti del modernismo, come Alvar Aalto, che oppone al formalismo geometrico l’uso di compensato sagomato in curve naturali, esemplificato nella sedia Paimio (1933).
Qui il design si dimostra interessato al rapporto con l’utente, mediato da una sensibilità organica, che avrà nei decenni successivi una grande fortuna negli Stati Uniti, meta di tante autorevoli migrazioni dell’avanguardia europea che negli anni Trenta cercherà rifugio dal secondo conflitto mondiale e ancor prima dalle persecuzioni antiebraiche.
Nel 1940 il MoMA di New York ospita la mostra Organic design in home furnishing che espone i risultati di un concorso nato per promuovere un nuovo approccio al progetto; vinto da Eero Saarineen e Charles Eames, con una serie di sedute innovative nella costruzione e rispondenti a criteri ergonomici, come ne La Chaise, apparentemente priva di forma, del 1948.
L’età dei consumi
Negli stessi anni l’Europa si confronta con la ricostruzione del dopoguerra, e l’Italia, attraverso la connessione tra formidabili apporti progettuali e straordinarie capacità manifatturiere, si afferma come un laboratorio di progettazione innovativo e di qualità. Con gli oggetti di Castiglioni, Magistretti e Colombo raggiunge una sintesi originale tra tecnologia ed estetica, calando energie riformiste nell’economia dei consumi.
Nella seconda metà degli anni Sessanta, l’oggetto industriale da bene di consumo diventa prima icona, e poi status simbol, come per la Vespa di Corradino D’Ascanio. Al contempo, con il design radicale, il progetto assume istanze tipiche dei movimenti artistici d’avanguardia, ibridandosi con gli strumenti introdotti della cultura pop e adottati e diffusi dai mezzi di comunicazione di massa.
Nel 1972, sempre al MoMA di New York, si apre la mostra Italy: the New Domestic Landscape, in cui il disegno industriale italiano si presenta come avamposto mondiale, senza nascondere le esigenze riformiste e di contestazione. Dagli anni Sessanta, In Italia e nel resto d’Europa, gruppi come Archizoom e Superstudio operano con un disegno di trasformazione estetica e sociale, rifiutando vuote forme di rappresentanza per uno spazio flessibile che favorisce comportamenti informali.
L’antidesign, a metà anni Settanta, rivaluta le arti applicate, attingendo alla manualità delle belle arti per riscattare il prodotto banale. È il caso di Alchimia, che dà inizio alla sua attività realizzando arredi non industriali, e di Memphis, che nel pieno della postmodernità rivaluta il kitsch e il valore sentimentale del progetto.
È con gli anni Ottanta che il design acquista una dimensione totalizzante. Consapevole della sua influenza nel quotidiano, l’oggetto si appoggia al mondo della moda, mutuandone i principi comunicativi e rafforzandosi come status simbol. Con le esperienza di Philippe Starck e Marcel Wanders il design scivola dal disegno del prodotto industriale agli ambiti più diversi, dal corpo al cibo, presentandosi come strategia di comunicazione sempre più densa e stratificata.