Designdi Renato De Fusco
Design
di Renato De Fusco
Nell'App. IV (ii, p. 181) è inserita la voce industriale, disegno: se ne definisce il significato e se ne analizza sommariamente la vicenda dall'avvento della rivoluzione industriale fino alla metà degli anni Settanta. La stessa voce industriale, disegno si trova anche nell'App. V (ii, p. 681), ove sono affrontate una serie di questioni di ordine generale e compare una disamina della scena italiana fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta. Nel sottolemma Il design internazionale viene analizzato il panorama dei principali paesi europei, degli Stati Uniti e del Giappone. La voce arredamento è presente invece sin dall'inizio nell'Enciclopedia Italiana (IV, p. 577) con una esaustiva trattazione generale. I punti di contatto con il d. divengono però sensibili soltanto negli aggiornamenti contenuti nell'App. I (p. 157), nella II (i, p. 255), nella III (i, p. 133) e nella IV (i, p. 160). Dalla parte testuale e, soprattutto, iconografica di molte voci dedicate a singoli 'prodotti industriali' è infine possibile dedurre ulteriori elementi di conoscenza.
In un momento come l'attuale, nel quale sono revocati in dubbio molti 'fondamenti', risulta difficile definire una disciplina, specie quando è di recente formazione come il design. Peraltro, l'insieme di teorie e di pratiche operative che chiamiamo design è nato all'insegna di una posizione radicale e antistorica che ne ha impedito il collegamento con altre esperienze precedenti, le arti applicate e artigianali, dalle quali esso ha sempre preteso di prendere le distanze, determinando una discutibile soluzione di continuità. D'altra parte, nell'impossibilità di descrivere un campo dell'esperienza produttiva senza assegnargli almeno un nome, in altre occasioni, invece di fornire una definizione diretta del d., ne proponiamo una indiretta; tentiamo di individuare il settore in esame mediante la sua fenomenologia, secondo cui il d. si manifesta attraverso quattro momenti, distinti e pur unitari: il progetto, la produzione, la vendita e il consumo. Per spiegare la sua natura unitaria e quadrupla insieme, basta osservare che non si dà progettazione se non in vista di un determinato modo di produrre, vendere e consumare gli oggetti; né produzione che non si basi su un particolare modo di progettare, vendere e consumare; né vendita senza un'intesa fra la progettazione, la produzione e il consumo; né consumo senza oggetti progettati, prodotti e venduti secondo particolari esigenze. Inoltre il processo suddetto può considerarsi anche partendo dal consumo per giungere al progetto; converrà dunque approfondire ciascuno di tali aspetti.
Il progetto
Che la componente fondamentale del d. sia il momento del 'progetto' è indubitabile: il progetto in senso lato si trova alla base di qualunque operazione; in senso ristretto, cioè relativamente all'architettura e ai prodotti industriali, non è casuale che in Inghilterra, dove nacque l'industria moderna, il termine design abbia il significato di progetto. Ma a parte questo aspetto linguistico, progetto equivale a programma, ovvero ideazione che precede un'operazione volta a un fine. Il progetto nel d., tuttavia, mentre ha in comune con gli altri generi progettuali la previsione del maggior numero di conseguenze che potrà generare, se ne distingue per il linguaggio, segnatamente iconografico e semiotico. Infatti i programmi-progetto di quasi ogni altro campo sono espressi in scrittura di lettere e di cifre, sono cioè idee tradotte in un linguaggio diverso dalle idee stesse (un progetto di legge, poniamo, indica la volontà di attuare un provvedimento volto al miglioramento socioeconomico di una comunità in un testo); il progetto nel d. si esprime in un linguaggio iconico, vale a dire in un'immagine che contiene le sue proprietà caratterizzanti, specie la forma del prodotto che si vuole realizzare. Cosicché, mentre piani economici, legislativi, politici ecc. ci forniscono solo il contenuto di una determinata idea, il progetto nel d., come in architettura e nelle altre arti figurative, ci fornisce tanto il contenuto quanto la forma dell'opera da costruire. Questa peculiarità si riscontra anche al livello storiografico: mentre la storia generale si traduce in scrittura, annali, cronache e simili, la storia dell'arte (e quindi del d.) si fa in presenza dell'opera reale; e anche quando questa non viene costruita, il suo progetto ci fornisce almeno un'immagine di come doveva essere.
Posto il carattere iconografico della componente progettuale del d., va precisato che il progetto deve o dovrebbe includere il trinomio qualità, quantità, basso prezzo. Questo, benché mai sancito esplicitamente, costituiva la sintesi etico-estetica-sociale del d. cosiddetto classico, e indicava la necessità di rendere qualificata una produzione, la quale, per le note ragioni della logica industriale, doveva essere quantificata, cioè resa accessibile economicamente al maggior numero possibile di consumatori. A proposito dell'alto valore di alcuni prodotti dell'Art nouveau (ma il discorso vale anche per altre tendenze), G.C. Argan osserva che tale valore fissa il principio della 'qualità' nel prodotto industriale. "E in tanto lo fissa, in quanto l'idea della forma come ritmo o musicalità disgiunti da una funzione rappresentativa costituisce la prima intuizione di un 'bello' che si attua piuttosto nella ideazione che nel processo esecutivo e che si pone come un a priori dell'utile. Sostituendo al 'feticismo del prodotto o della merce' [dell'arte e dell'artigianato] il feticismo del progetto, del 'design', quel 'bello' cesserà infatti di essere unico e irripetibile e varrà, invece, proprio per la sua infinita ripetibilità, cioè per la sua illimitata, livellatrice espansione in tutta la sfera sociale" (Argan 1955, p. 281).
Il progetto, in teoria, dovrebbe contenere, insieme alla conformazione, tutte le previsioni relative alle diverse fasi di lavorazione, tanto da non richiedere l'intervento di altri esperti se non in qualità di esecutori; far sì che gli impianti lavorino al massimo del potenziale, onde ridurre i costi di produzione; fare in modo che il prodotto, una volta finito, risulti di facile imballaggio e spedizione; immaginare la sua vendibilità; persino rispondere o precorrere la domanda del mercato. Come si vede, nel progetto sono contenute in nuce le altre tre componenti: la produzione, la vendita e il consumo.
In questa sorta di circolo ermeneutico si può cogliere l'aspetto più specifico nel progetto di d.; ma si possono fare altre utili considerazioni: "Nel processo produttivo industriale, il progetto è una specie di idea platonica, ne varietur: si sa che la macchina non potrà che stamparlo in migliaia di esemplari, senza che nessuna modificazione o adattamento possano aver luogo [...] deve implicare la corrispondenza dell'oggetto a tutte le pratiche esigenze cui deve servire, e non solo alle esigenze di questo o quell'individuo o gruppo sociale, ma alla media delle esigenze collettive, e porsi come uno standard [...] È dunque il progetto o disegno industriale quello che determina a priori, sempre in rapporto alla funzione, la qualità, che è poi sempre qualità estetica, del prodotto; e non può, nell'attuale condizione di cultura, darsi un buon progetto che non nasca da un processo di intuizione o di invenzione, cioè un processo tradizionalmente ritenuto di carattere estetico e proprio degli artisti" (Argan 1965, p. 137). In tale interpretazione, la componente progettuale del d., che più ne contrassegna lo specifico, sarebbe di ordine intuitivo, artistico ed estetico. Non s'intende negare questa valenza: non c'è dubbio che il momento più inventivo e artistico appartiene alla fase del progetto; sarebbe tuttavia un errore sostenere che anche la componente produttiva, quella della vendita - si pensi all'impegno della fantasia riscontrabile in sede pubblicitaria e promozionale di un prodotto - e quella del consumo non contengono a loro volta una valenza inventiva.
La produzione
Intendendo il d. come un processo unitario, appena completata la fase progettuale di un oggetto, fissata in disegni e prototipi, si passa a quella della produzione, in cui "la meccanizzazione prende il comando", in prevalenza a causa della sua potenzialità tecnica. Ma non è la sola componente meccanica prima, elettrica dopo, elettronica oggi, che presiede alla produzione. Dietro al mero fenomeno produttivo esistono anni di ricerche, di invenzioni tecnologiche, di fenomeni economici, di mutati ritmi lavorativi, di conflitti sociali; basti pensare al solo problema dell'ammortamento: perché un investimento sia produttivo è necessario che le spese d'impianto vengano nel più breve tempo recuperate col ricavato delle vendite, e poiché i prezzi devono essere bassi, quel recupero dev'essere consentito dalla quantificazione. In fondo, la maggiore differenza fra l'artigianato, che non richiede forti investimenti per gli impianti, e l'industria che invece ne richiede, sta nel cambiamento di ritmo della produzione. In questa logica - per citare un caso di intuizione produttiva - va ricordata l'iniziativa di Ford. Al posto di due turni di lavoro di nove ore, con la perdita di sei ore di operosità nelle ventiquattro della giornata, egli ne istituì tre di otto ore ciascuno; così si otteneva una lavorazione continua, compensata da una paga più alta e da una maggiore occupazione operaia.
A conferma del fatto che l'intelligenza creativa riguarda ogni componente del d., è significativo quanto osserva S. Giedion, collegando il lato della produzione con quello delle vendite: "il merito di Ford fu di riconoscere, prima di qualsiasi altro, la possibilità di democratizzare il veicolo che sino ad allora era stato considerato soltanto per privilegiati. Il concetto di trasformare un meccanismo complesso come l'automobile da articolo di lusso in normale oggetto d'uso, e di adeguarlo nel prezzo alla normale capacità di acquisto, come qualsiasi articolo da grande magazzino, sarebbe stato inconcepibile in Europa. La fiducia di poter trasformare l'automobile in articolo della produzione di massa, con la conseguente prospettiva di rivoluzionare a fondo la produzione, assicura a Ford il suo posto nella storia" (Giedion 1948; trad. it. 1967, p. 117).
Anche la componente produttiva, oltre alla capacità tecnica, richiede fantasia, invenzione, intuizione, di natura diversa da quella artistica, ma non certo inferiore. Del resto H. Muthesius (1861-1927), che tra i primi agì da tramite fra l'industria britannica in pieno sviluppo e quella nascente della Germania, si avvalse della sua formazione di architetto; l'AEG dei Rathenau, che importò dagli Stati Uniti tutto quanto concerneva l'industria elettrica, avvertì l'esigenza di affidare a un creativo quale P. Behrens, da considerarsi il primo designer, ogni aspetto 'visibile' della sua produzione; lo stesso Werkbund, l'organizzazione politica, industriale e culturale a un tempo fondata da Muthesius nel 1907, nella sua pluriennale attività organizzativa, non separò mai il trinomio qualità, quantità e giusto prezzo. In breve 'l'azienda Germania' comprese subito che la modernità veniva dagli Stati Uniti e ne fece il modello della sua politica industriale, aggiungendo di suo quella dose di 'artisticità' che costituisce in definitiva lo specifico del nascente d. europeo.
La vendita
Per avviare il discorso sulla vendita, è necessario riprendere il filo della componente produttiva, anche qui rifacendoci a quanto ha individuato la storiografia del design. Nel periodo che va dal sorgere dell'industria fino alla Grande Esposizione di Londra del 1851, è stato stabilito un rapporto fra produzione e vendita, in cui la componente progettuale è quasi assente; scarsa rilevanza ha pure la volontà dei consumatori. "Grazie alle nuove macchine, i fabbricanti erano in grado di lanciare sul mercato migliaia di articoli a buon prezzo, impiegando lo stesso tempo e lo stesso costo che occorrevano un tempo per produrre un solo oggetto ben fatto. In tutti i rami dell'industria si alterava la natura dei materiali e della tecnica [...]. La richiesta aumentava di anno in anno, ma veniva da un popolo ineducato e abbrutito, che viveva da schiavo in mezzo alla sporcizia e alla povertà" (Pevsner 1936; trad. it. 1945, p. 3).
Il giudizio è in gran parte da condividere, ma l'autore, impegnato a denunziare l'assenza di qualità dei primi prodotti industriali, si sofferma, nell'ultima proposizione, sulla condizione di degrado del proletariato urbano, senza dire che questa era da preferire al livello di vita ancora più basso delle regioni agricole; tanto è vero che gli abitanti della campagna si trasferirono in gran numero nelle città. Più avanti lo stesso Pevsner scrive: "Il liberalismo dominava incondizionato, nella filosofia come nell'industria, e dava al fabbricante la più completa libertà di produrre le cose più scadenti e orribili, purché riuscisse a smerciarle. E gli era facile farlo, dato che il consumatore non aveva tradizione né educazione e, come il produttore, era vittima di questo circolo vizioso" (Pevsner 1936; trad. it. 1945, p. 31). Anche questo giudizio è vero, ma lo storico inglese non sottolinea abbastanza che quell'assenza di qualità era quasi certamente lo scotto da pagare ai rapidi progressi che furono fatti nel campo dell'alimentazione, della medicina e dell'assistenza; in una parola al passaggio da una società di élite a una di massa.
Più pertinente al tema della vendita è l'altra faccia del liberalismo, che finì per incidere - unitamente all'opera di riformatori, quali W. Morris, H. Cole, e di alcuni uomini politici fino al principe Alberto - sulla nascente esigenza di qualità. Al cambiamento di situazione contribuirono in modo notevole le grandi esposizioni, prima locali, nella tradizione delle antiche fiere popolari, poi nazionali e finalmente internazionali. Quelle realizzate nella seconda metà dell'Ottocento devono la loro forza ai principi del libero scambio: "non c'era motivo per riunire i prodotti di tutto il mondo se poi non esisteva la possibilità di venderli a tutto il mondo. Un'esposizione internazionale poteva avere un significato soltanto in un mondo in cui restrizioni al traffico, di qualunque genere, fossero state ridotte al minimo. Queste grandi esposizioni erano il prodotto della concezione liberale dell'economia: commercio libero, comunicazioni libere e miglioramento della produzione e dell'esecuzione attraverso la libertà della competizione" (Giedion 1941; trad. it. 1954, p. 236).
Le grandi esposizioni erano occasioni particolari, mentre la vita del commercio quotidiano seguiva altri canali. Di recente T. Buddensieg, sul commercio tedesco (ma lo stesso vale per tutti i paesi industrializzati) ha scritto: "La ristrutturazione del commercio specializzato venne favorita dalla crescente importanza assunta dai grandi magazzini come insieme di negozi specializzati e dall'organizzazione degli interessi economico-politici delle categorie professionali, degli operai, degli impiegati, dei funzionari, degli imprenditori. Si costituiscono grandi cooperative d'acquisto all'ingrosso [siamo già nella componente 'consumo' del d.], che liberarono definitivamente gli acquirenti, ma anche i rivenditori, dall'acquisto presso il produttore e assunsero il ruolo di mediatore per mezzo di fiere specializzate [...] riviste tecniche e acquisto all'ingrosso" (Buddensieg 1983, p. 7). La componente della vendita ebbe un ruolo notevole nelle prime organizzazioni e ideazioni a un tempo commerciali e culturali. Le idee del Maschinenstil, della Sachlich Schönheit , del lavoro qualitativo (Qualitätsarbeit) portarono alla fondazione del Werkbund. Con esso nasce in Europa l'industrial d., anche se non con questo nome.
Diverso il processo per la vicenda storica del d. negli Stati Uniti. Se nel vecchio continente il via fu dato da tutte e quattro le componenti del fenomeno in esame, dal desiderio di reggere il confronto con la tradizione dell'artigianato migliore, puntando soprattutto sulla componente artistico-progettuale (valga per tutti l'apporto del Bauhaus di W. Gropius), nel nuovo continente il fattore primario va ricercato proprio nella componente della vendita.
Dopo la crisi del 1929 intervenne la politica dello styling, ovvero di una linea del gusto, tendente a superare il purismo razionalista e mirante ad attrarre con l'estetica aerodinamica, identificata con la modernità, il favore del pubblico. La più diretta testimonianza del fenomeno styling ci viene da uno dei suoi maggiori esponenti, H. Dreyfuss, il quale ricorda che alcuni industriali, per superare la crisi degli anni Trenta, intuirono la necessità di una produzione più conveniente per il consumatore, e nello stesso tempo più gradevole nell'aspetto (Dreyfuss 1955, p. 18).
Ma proprio questa miglioria estetica costituiva il punto più problematico dello styling. Infatti, se da un lato gli oggetti rientranti in tale tendenza concedevano al pubblico una sorta di recupero del simbolico, del decorativo, del personale ecc. - valori tutti negati dalla logica del binomio forma-funzione del d. razionale -, dall'altro la miglioria dell'aspetto, e per essa la maggiore vendibilità degli articoli, secondo alcuni critici, era a scapito della loro qualità, durata e solidità. Ciò era solo parzialmente vero; l'opposizione della critica allo styling era soprattutto etico-estetica. Riproponendo il 'superfluo' e il 'fantastico', la tendenza americana smentiva quell'"orgoglio della modestia", che da Cole a Muthesius, da A. Loos a Behrens, da Gropius fino al nostro E. Persico (al quale si deve l'espressione) aveva caratterizzato quasi tutto il d. europeo; il rigore e la stessa linea della forma-funzione non erano mai stati accettati completamente dal pubblico, donde il successo di vendita dei prodotti ispirati a modelli preindustriali.
Non è mancato chi, fuori dal conformismo della critica più paludata, ha interpretato tale successo, giungendo peraltro a una ridefinizione del design. Secondo R. Banham "le qualità della Buick non sono quelle che caratterizzano l'arte pura, sono invece quelle che caratterizzano l'arte popolare. Le parole 'arte popolare' non vogliono significare in questo testo l'arte ingenua e popolare dei primitivi e dei contadini [...]. L'arte popolare dell'automobilismo, in una società meccanizzata, è una manifestazione culturale come lo sono il cinema, le riviste in rotocalco, i romanzi pseudo-scientifici, le comic strip, la radio, la televisione, la musica da ballo, lo sport [...]. Queste tendenze [...] indicano quale sia il posto e la funzione della critica del prodotto industriale nel campo del 'Disegno come Arte Popolare'. Considerazioni, comuni sia fra gli esteti accademici che fra i socialisti rivoluzionari, in base alle quali 'tutto va bene se si vende' sono evidentemente false oggi e devono essere sostituite dalla domanda 'che cos'è che si vende?' o, domanda ancora più importante e che rappresenta il vero compito del critico: 'che cosa si venderà?' [...]. È solo così che egli potrà partecipare alla straordinaria avventura della produzione di massa che oppone al vecchio aristocratico slogan 'Pochi fiori rari', e al suo corollario 'Le moltitudini sono erbaccia', un nuovo slogan che taglia corto a tutte le categorie accademiche: 'Molti fiori selvaggi'" (Banham 1965, p. 15).
Le citazioni sopra riportate ci sembrano le più emblematiche delle trasformazioni avvenute nel campo della disciplina in esame, in ordine sia al passaggio dall'Europa agli Stati Uniti, sia a quello dalla prima alla seconda metà del 20° secolo.
Il consumo
Per spiegare il successo di un prodotto, qualche autore, in linea teorica, è ricorso alla teoria dell'informazione che, essendo basata "essenzialmente sulla ricerca della quantità d'informazione presentata da un dato messaggio", porta a concludere che "l'informazione stessa sarà tanto maggiore quanto maggiore sarà l'imprevedibilità del contenuto di tale messaggio". Questo principio, applicato al disegno industriale, ci fa comprendere che la richiesta di un oggetto è proporzionale alla 'novità' dell'oggetto stesso; "ma appena la forma abbia perso novità - dunque l'inaspettatezza del messaggio - non appena si sia consumata la sua qualità comunicativa, verrà a scadere il suo valore, non solo estetico, ma soprattutto informativo [...]. Sarà [...] interessante notare come proprio per il fatto che l'oggetto industriale è creato appositamente per una funzione (pratica ed estetica) che sia immediatamente legata all'uso, esso venga a consumarsi più rapidamente di quanto accade per le opere d'arte (pittura, scultura, architettura), la cui validità può persistere anche una volta andato smarrito il valore informativo" (Dorfles 1963a, p. 25). Accanto al momento dell'informazione, grosso modo equivalente alla novità del messaggio, la teoria dell'informazione contempla anche quello della 'ridondanza', vale a dire - anche qui grosso modo - la parte già nota e facilmente riconoscibile in un messaggio da parte dell'ascoltatore. Cosicché, come non si dà informazione senza che questa si colleghi alla ridondanza (altrimenti chi riceve il messaggio non sa a quale codice riferirsi), allo stesso modo, in un oggetto di d., ai fini dell'informazione, del gradimento e quindi del suo consumo, dev'esserci qualcosa di già noto accanto a qualcos'altro di inedito.
Non è facile stabilire la relazione fra ridondanza e informazione o, detto diversamente, fra noto e inedito. Non è detto infatti che il pubblico dei consumatori gradisca sempre l'uno rispetto all'altro: alcuni settori merceologici, segnatamente quelli al passo col progresso tecnico, sono tanto più graditi quanto più innovativi, mentre altri, specie quello dell'arredo e del d. domestico, sono apprezzati proprio in quanto legati alle forme tradizionali. Fra noto e inedito si è insinuato prepotentemente il fattore gusto. L'aforisma "qualificare la quantità" ha trovato la sua maggiore resistenza proprio nel primo termine che implicava tale fattore. Per 'qualità' la cultura del d. intese una proprietà della forma che la rendesse coerente ed espressiva della funzione, mentre per 'qualità degli oggetti' il pubblico dei consumatori intese una proprietà della forma che la rendesse, nonché rispondente a una funzione, anche espressiva di qualcos'altro: la decorazione, lo status symbol, la valenza semantica, la cura particolarmente evidente nell'esecuzione, il segno di un lavoro artigianale fatto con abilità ecc.
Chiudiamo i nostri cenni sull'argomento 'consumo' del d. con una nota in positivo e una in negativo. La prima riguarda il fenomeno, accentuato nei paesi scandinavi, per cui cooperative di consumatori manifestano le proprie esigenze a organizzazioni di vendita, queste le trasmettono ad aziende produttrici che, a loro volta, le suggeriscono ai designer: si verifica in tal modo, come già si è accennato, un processo di ritorno nella fenomenologia del design. La nota negativa è di maggiore portata: il mercato, la domanda del mercato e per essa il consumo, hanno avuto un ruolo determinante nella crisi del design. La massa dei consumatori ha vanificato i capisaldi teorici del disegno industriale, soprattutto per il mancato incontro fra produzione e consumo, proprio sul diverso modo di considerare, come si è visto, la qualità.
Le aporie del design. - L'intera vicenda del d. è nata tra l'Europa e gli Stati Uniti al passaggio fra il 19° e il 20° sec., e molti 'ponti', come vedremo, furono gettati fra le due sponde dell'Atlantico; tuttavia, gli aspetti più concettuali e sociali spettano al vecchio continente, anche se non proprio nella consapevolezza che si trattasse di design. Quando parliamo della crisi del d. ci riferiamo soprattutto a quella del cosiddetto d. storico, intendendo peraltro col termine 'crisi' non solo la fine di un processo vitale, bensì anche un radicale cambiamento verificatosi dopo l'ultima guerra. Va chiesto che cosa dunque non abbia funzionato del primitivo programma considerato oggi un'utopia.
Anzitutto una previsione sociologica circa la società di massa. Uno dei suoi grandi osservatori, Le Corbusier, unitamente alle numerose prefigurazioni della società meccanicistica, dello standard ecc., ne dava tuttavia un'interpretazione errata quando affermava, nell'intento appunto di promuovere la standardizzazione: "Tutti gli uomini hanno un medesimo organismo, medesime funzioni. Tutti gli uomini hanno medesimi bisogni" (Le Corbusier 1923; trad. it. 1973, p. 108). Ugualmente errato si è dimostrato il moralismo sociologico più recente quando ha stigmatizzato la pubblicità, l'eterodirezione, la "persuasione occulta", pensando a una società di massa ingenua e acefala.
Tutta una letteratura si è sviluppata intorno al tema dell'eterodirezione che, a nostro giudizio, da un lato non è stata capace di arginare l'asfissiante attività pubblicitaria, e dall'altro, ponendo in maniera preconcetta il problema, non è stata in grado di migliorarlo, intanto che, per suo conto, nasceva e si sviluppava oltre misura una vera e propria industria pubblicitaria. Partendo dall'assunto marxiano - "La produzione crea [...] il consumatore [...]. La produzione produce [...] non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l'oggetto" (passo tratto da Marx, cit. in Morin 1962; trad. it. 1963, p. 44) - numerosi autori (V. Packard, J. Baudrillard, J.K. Galbraith) hanno esaminato la reazione del pubblico rispetto alla eterodirezione, concludendo che la pubblicità avrebbe il compito di "creare i desideri, di generare nelle persone quelle necessità che prima non esistevano" (Galbraith). È stata avanzata anche la tesi opposta: non è vero - secondo A. Abruzzese - che la pubblicità fa nascere i desideri. Sono i desideri che fanno nascere la pubblicità. Da condividere è quanto ebbe a sostenere E. Morin sull'intera materia (e il suo discorso può riferirsi anche al d.):"Impossibile porre l'alternativa semplicistica: è la stampa (il cinema, la radio, ecc.) che fa il pubblico, o è il pubblico che fa la stampa? È la cultura di massa che s'impone dall'esterno al pubblico (e gli fabbrica pseudo-bisogni, pseudo-interessi) o riflette i bisogni del pubblico? È evidente che il vero problema è quello della dialettica tra il sistema di produzione culturale e i bisogni culturali dei consumatori [...]. La cultura di massa è dunque il prodotto di una dialettica produzione-consumo, nell'ambito di una dialettica globale che è quella della società nella sua globalità" (Morin 1962; trad. it. 1963, p. 40). Si aggiunga che l'odierna cultura di massa si differenzia dall'ideologia delle masse del passato, in quanto assume un atteggiamento nuovo: quella di oggi è una società di massa in cui tuttavia non è escluso il culto dell'individuo; benché possa sembrare una contraddizione in termini, il nostro è un 'individualismo di massa': la gran parte delle persone si comporta allo stesso modo, ma ognuno facendo, o credendo di fare, a modo suo. Basta considerare la varietà delle chiusure degli spazi esterni sulle balconate che l'architettura razionalista aveva immaginate libere: i gadget aggiunti alle forme standard delle automobili e dei motocicli; l'estrema varietà negli accostamenti stilistici nell'arredo e nelle suppellettili; la diversità nell'abbigliamento dei giovani ecc. Questo comportamento è proprio non soltanto della parte meno colta o meno abbiente della popolazione; infatti, anche chi compra un'auto di lusso tende ad averla di un colore particolare e, comunque, a conferirle un tocco personale. L'insieme di queste discrasie fra l'unificazione degli articoli di serie e le manipolazioni dell'utente sta a dimostrare non solo il legittimo desiderio di evadere dall'uniformità, ma anche l'incontenibile istanza di distinguersi anche a costo di cadere nel Kitsch.
Un altro assunto del d. storico rimasto senza seguito, incidendo negativamente sul consumo dei prodotti industriali, è stato quello della metodologia unitaria. Sin da quando Gropius, sulla scorta di molti autori precedenti, aveva sostenuto che "il termine design abbraccia in generale l'intera orbita di ciò che ci circonda ed è dovuto alla mano dell'uomo, dalla semplice suppellettile quotidiana al complesso tracciato di una città" (cit. in Argan 1951, p. 143), si sono ripetuti i noti slogan (dal cucchiaio alla città ecc.) che descrivono il d. come un'attività riducibile a una metodologia unitaria e persino a un'unitaria ideologia. Ma oggi nessuno crede più che quanto ci circonda, dall'orologio da polso all'automobile, dalla penna biro al jet, dalle forbici agli apparecchi elettronici e simili possa costituire lo sterminato ma unitario campo del d. solo perché si tratta di oggetti progettati, prodotti industrialmente e pubblicizzati con un'intenzione estetica. Nonostante la buona intenzione sociopedagogica di quella visione unitaria, l'esperienza ha confermato il delinearsi di specificità e differenze in rapporto ai vari campi di applicazione: un designer di automobili ha un ambito di specializzazione diverso da quello del designer di mobili o dello stilista di moda. In breve, si è manifestato un notevole divario fra i vari settori del d.: ognuno rappresentando un suo specifico modo di progettare, di produrre, di vendere, di affrontare il problema del consumo.
Altro precetto teorico del d. storico era il già citato trinomio quantità, qualità, giusto prezzo, logicamente ineccepibile, ma come realizzarlo quando l'idea della qualità nutrita dalla produzione non coincideva, come si è pure visto, con quella del pubblico dei consumatori? Donde la rinuncia alla quantificazione legata al basso prezzo e simmetricamente l'affidamento della qualificazione a una élite di competenti o, quanto meno, disposta a spender molto. Corollario del precedente precetto era quello di un'"arte per tutti", programma irrealizzato per le stesse motivazioni appena addotte. Ulteriore aporia del d. storico era la vocazione sociale e pedagogica che si assegnava ai prodotti di qualità. La valenza sociale tendeva a divenire socialista: molti autori e critici hanno privilegiato i prodotti di uso collettivo rispetto a quelli di uso privato, ignorando la logica liberista, legata al profitto. Ma il maggiore errore della cultura del d. fu il suo distacco dalla storia, il suo negare la continuità storica. L'antistoricismo di tutta l'arte figurativa dei primi decenni del Novecento, giustificato come reazione all'eclettismo e, nel caso del d., dal fatto di considerare quest'ultimo un'esperienza quasi totalmente nuova, è stato un errore. Infatti, poiché dalla storia, per così dire, non si esce, l'idea che il d. non fosse in continuità con le arti applicate dell'artigianato è valsa a disancorarlo dalle sue origini; non solo, ma l'altro assunto per cui l'artigianato era morto si è dimostrato falso, nonché improduttivo nei rapporti che il d. ha continuato ad avere con l'artigianato.
Tra le più recenti manifestazioni della crisi del d. storico è il radical d. degli anni Settanta, avverso al razionalismo, all'eredità del Bauhaus e di De Stijl, fino a vagheggiare un anti-design. A. Mendini, fra i più attivi esponenti di questa corrente, scriveva: "Addio progetto retorico: la vita scorre in modo antieroico e amorale. Addio progetto di gusto: la qualità si ottiene solo alla rovescia. Addio progetto intellettuale: la rivoluzione consiste nella banalità della fantasia [...]. Addio progetto coerente: per metodo bisogna essere incoerenti [...]. Addio progetto costruito: costruire vuol dire distruggere. Addio progetto ideologico: all'uomo cinico vanno date architetture non impegnative [...]. Addio progetto universale: i progetti sono tanti quanti sono gli uomini. Addio progetto come arte: l'architettura è un'arte minore [...]. Addio progetto politico: la forma non modifica il mondo" (Mendini 1980, p. 17).
Siamo in presenza di una neoavanguardia che, in opposizione all'avanguardia storica, in cui si praticava l'elogio dello standard, dell'unificazione, di una razionalità a oltranza, capovolge letteralmente questi valori. Ma il brano citato, come l'intera poetica del d. radicale, va interpretato non solo nel senso di una "contestazione globale", così come si diceva nel Sessantotto e come si dice di ogni forma di avanguardia, bensì anche come una profonda delusione della stessa cultura del d., di fronte al mancato incontro fra d. e società, a sua volta sintomo del divario fra cultura e società. Torneremo sulla crisi del d. quando accenneremo al passaggio dai procedimenti meccanici ed elettrici a quelli elettronici; ma prima è necessario un ampio ragguaglio storico sul rapporto fra l'Europa e gli Stati Uniti.
I ponti del design fra Europa e Stati Uniti
Intento di questo ragguaglio è quello di riportare il mito del d. europeo, segnatamente della sequenza Arts and Crafts-Werkbund-Bauhaus, cui va sempre riconosciuta una grande importanza storica, al più realistico quadro del d. americano o, detto diversamente, quello di ridimensionare la visione eurocentrica del design. Più che stabilire alcuni 'primati', ci sembra utile indicare i legami, i 'ponti' della produzione industriale qualificata fra l'una e l'altra sponda dell'Atlantico; l'espressione 'ponti' non è casuale perché gli apporti si sono verificati nelle due direzioni, costituendo un continuo passaggio, un incessante scambio.
Intorno al 1920, mentre in Europa si parla ancora di Kunstgewerbe, di arti applicate, industriali, decorative (così si esprime lo stesso Le Corbusier), negli Stati Uniti viene coniata l'espressione industrial design, per indicare la produzione di quegli oggetti che richiedono una progettazione qualitativa; e sempre negli Stati Uniti, negli anni Trenta, nasce la vera e propria professione di designer. Fatta questa precisazione, che ovviamente non toglie alcun merito ai precursori europei da M. Thonet a Behrens, da J. Hoffmann a Gropius, vediamo i 'passaggi' su questo ideale ponte degli apporti reciproci.
Già agli inizi del secolo, nell'ambito del Werkbund, si guardava alla produzione industriale qualificata degli Stati Uniti con grande interesse: per la nazione-azienda tedesca quello americano era un modello da imitare e possibilmente da superare ("abbiamo bisogno di artisti tedeschi che comprendano a tal punto l'America, da saper lavorare, da tedeschi, per l'America!", Neumann 1964, p. 349). Un primo ponte è quello dell'influenza dell'Art déco sul gusto nordamericano: molti prodotti e ambienti newyorkesi ispirati a questo stile sono successivi al 1925, anno dell'Exposition internationale des arts décoratifs di Parigi. Tuttavia, se pensiamo che l'Art déco fu lo stile di alcuni grattacieli, dei grandi locali pubblici, della scena urbana con le sue réclames luminose, se pensiamo alla scenografia filmica e teatrale, è difficile ammettere che si trattasse solo di una rapida influenza francese e non vi fossero già alcuni precedenti autoctoni. Comunque, quale che fosse l'origine dell'Art déco - il protorazionalismo, la Wiener Werkstätte, l'Expo del 1925 - è un fatto che quello stile ebbe legittimazione qualitativa e quantitativa nel nuovo continente, donde passò a informare il costume internazionale. Filiazione dell'Art déco può considerarsi il gusto streamline (della forma aerodinamica) o dello styling, che fu certamente il maggiore contributo americano alla storia del d.: ne abbiamo già parlato in ordine al problema della vendita e della sua accattivante popolarità, ma il fenomeno, nonostante lo snobismo della critica, andò ben oltre una questione meramente commerciale. Né si trattò di un gusto esclusivamente americano e in particolare delle industrie automobilistiche di Detroit. La 'galleria del vento', vale a dire il sostegno tecnico dello streamline, fu usata per la prima volta in Germania nelle officine Zeppelin. Fin dal 1914 un'auto Alfa Romeo presenta tale linea; seguono alcuni modelli europei databili agli inizi degli anni Trenta; gli Statunitensi, stanchi del prestigioso e razionale Modello T della Ford, applicarono lo streamline ai tipi più costosi della General motors e della Chrysler, finché questo stilismo ritornò in Europa a conformare auto di tipo popolare ed economico: la Fiat 500, Topolino, del 1936 e la Volkswagen del 1937. Sempre a smentire la critica contro lo styling, vanno ricordati alcuni precedenti europei: la poetica dei futuristi con il suo elogio della velocità; quella di alcuni espressionisti (si pensi all'architettura di E. Mendelsohn) e quella dell'organicismo (i motivi adottati da A. Aalto, da H. Arp e da C. Brâncusi). Tutta questa morfologia si ritrova rielaborata nell'opera di alcuni designer americani, quali N.B. Geddes, R. Loewy, G. Sakier, W. Teague, K. Weber, H. Dreyfuss, i quali, oltre a rendere popolare il d. negli Stati Uniti, possono considerarsi addirittura i primi professionisti di quest'attività.
Un altro ponte fra l'Europa e gli Stati Uniti fu certamente la mostra che nel 1932 H.R. Hitchcock e Ph. Johnson organizzarono presso il Museum of Modern Art di New York, intitolata The international style. Essa presentava i principali esempi di architettura razionalista realizzati a partire dal 1922 e valse a diffondere nel nuovo continente i principi del funzionalismo, del puro visibilismo, dell'arte astratta; ma fu il termine stile forse il maggiore contributo critico della manifestazione. Infatti, mentre in Europa esso non veniva adottato perché ritenuto contaminato dall'eclettismo storicistico, a New York fu intenzionalmente riproposto proprio a sottolineare che un nuovo stile era nato in continuità con i grandi stili del passato; e quello del Novecento non poteva che essere internazionale. Benché dedicata all'architettura, la mostra esponeva anche fotografie di arredamenti e mobili progettati dagli artisti più famosi, da J. Albers a M. Breuer, da Le Corbusier a Ch. Perriand, da Gropius a L. Mies van der Rohe. Cosicché per international style, in fatto di d. domestico, fu inteso uno stile dalla stereometria elementare per i mobili contenitori e basato sull'impiego dell'acciaio e del legno curvato quale struttura di sedie e poltrone, sull'accostamento di pochi ed eterogenei materiali, sull'assenza di decorazione, ovvero sui principi che Hitchcock e Johnson avevano teorizzato come espressivi della nuova architettura. In cambio, dagli USA venne l'interpretazione stilistica del razionalismo operata dai due critici americani, e l'innesto su questi oggetti così rigorosi di molti elementi del gusto Art déco, in piena fioritura negli anni Trenta negli Stati Uniti. In breve, il viaggio di ritorno del d. dagli Stati Uniti in Europa comportò l'arricchimento, la popolarità, magari la volgarizzazione di uno stile che, nella sua originale versione europea, non avrebbe forse mai raggiunto il consumo di massa.
Emblematica di questo scambio è la vicenda relativa alla cosiddetta cucina americana: iniziò con il libro di economia domestica delle sorelle Beecher (American woman's home, 1869), cui fece eco quello di Ch. Frederick (Household engineering scientific management in the home, 1915), seguito nel 1926 da quello di E. Meyer che è quasi una traduzione tedesca del testo della Frederick, esperienze tutte che sfociarono nella famosa 'cucina di Francoforte', progettata da G. Schutte-Lihotzky; ma è importante anche il contributo degli immigrati europei. Antesignano fu l'architetto finlandese E. Saarinen che, trasferitosi negli Stati Uniti nel 1923, fondò la Cranbrook Academy of Art a Bloomfield Hills nel Michigan. L'istituto nacque grazie all'appoggio finanziario e all'interesse artistico di G.G. Booth, editore del Detroit news. La collaborazione fra Saarinen e Booth si fondava sul comune intento di incrementare i rapporti fra le arti maggiori e quelle applicate, sulla comune venerazione per l'opera di W. Morris e del movimento Arts and Crafts, sulla comune ammirazione per altre istituzioni europee, specialmente la Wiener Werkstätte. Il centro di Cranbrook ebbe per la vicenda del d. negli Stati Uniti un'importanza accostabile a quella dei maestri del Bauhaus in Europa. Infatti, se il trasferimento di questi ultimi, in seguito all'avvento del nazismo nel 1933, costituì un grande apporto all'architettura e all'arte americane - si ricorda che W. Cook, direttore dell'istituto di Belle arti dell'università di New York, riferendosi in generale all'immigrazione intellettuale tedesca, scherzosamente diceva: "Hitler è il mio migliore amico: lui scuote l'albero e io raccolgo le mele" (cit. in Panofsky 1962, p. 316) - per ciò che concerne il d. non può dirsi altrettanto. Anzitutto Gropius non volle riprendere negli Stati Uniti l'esperienza della sua scuola europea, avendo perfettamente inteso che il d. nel nuovo continente era nato e si sarebbe sviluppato su tutt'altre basi; L. Moholy-Nagy, Albers e lo stesso Mies van der Rohe (l'architetto europeo meglio integratosi negli Stati Uniti) tentarono di diffondere, con vari modi e accenti, la didattica del Bauhaus, ma con risultati non paragonabili all'ormai mitica scuola di Weimar. Benché educassero più generazioni di designer americani, questi maestri tedeschi si concentrarono più sulle ricerche del visual d. che sul vero e proprio disegno industriale. Peraltro le maggiori personalità, quali Gropius, Mies, Breuer, preferirono dedicarsi completamente all'architettura. Viceversa, come si diceva, fu il centro di Cranbrook il vero crogiuolo delle due culture negli Stati Uniti nel campo del d. e segnatamente del furniture design.
In questa scuola si formarono e poi insegnarono Ch. Eames - il maggiore progettista in questo campo e il primo disegnatore americano che si sia imposto a livello internazionale -, E. Saarinen, figlio del fondatore, H. Bertoia, per citare i nomi più noti. In qualche modo legato a Cranbrook fu il giovane mobiliere tedesco H. Knoll, peraltro vicino ai maestri del Bauhaus e come loro immigrato negli Stati Uniti dopo l'avvento del nazismo. Seguendo l'esempio della Herman Miller Furniture Company, fondata nel 1905, Knoll inizia con un piccolo laboratorio a New York nel 1938, per fondare nel 1946 la Knoll Associates che nel 1951 diventerà la famosa Knoll International. Che cosa ritorna in Europa da questo ultimo ponte? Oltre ai prodotti di due grandi aziende, una nuova configurazione del d., sintesi di tutte le tendenze e dei contributi sopra menzionati, ma soprattutto una nuova concezione della disciplina stessa. Non più il sogno di un'"arte per tutti", dell'"orgoglio della modestia", di prodotti che fossero in pari tempo quantificabili, qualificati esteticamente e a basso prezzo, ma la realtà di una produzione che, per quanto industrializzata, si rivolgeva a un'élite che si rivelava la sola, veramente interessata alla cultura del design.
Dall'era elettromeccanica a quella elettronica
Se alla metà del 20° sec. il quadro artistico è caratterizzato dalla neoavanguardia, quello sociale lo è dal pieno avvento della cultura di massa e dai suoi strumenti espressivi, i mass media; questi ultimi sono soprattutto il segno di una straordinaria svolta tecnologica, quella dell'elettronica, dell'informatica, dell'automazione e simili. Nessuno dubita dei grandi vantaggi derivati dalla nuova tecnoscienza: il 'villaggio globale', l'informazione in tempo reale, i cento usi del computer, la cosiddetta intelligenza artificiale, in sintesi la liberazione dell'uomo dalla fatica o almeno dalla banausia. La principale contropartita di tutto questo progresso tecnologico non è tanto il passaggio dalla meccanica all'elettronica, ovvero il cambiamento di uno strumento produttivo, quanto la possibilità per l'uomo elettronico di essere completamente sostituito dalla sua macchina. Quando, alla fine del Settecento, l'operaio tessile inglese N. Ludd iniziava un movimento che, in difesa del lavoro manuale, mirava a distruggere le macchine, non sapeva che due secoli dopo, grazie all'automazione e all'informatica, sarebbe stato possibile ordinare e mettere in moto interi meccanismi, reparti, laboratori, fabbriche ecc.; in una parola, che la nuova tecnologia avrebbe potenzialmente eliminato quasi ogni sorta di lavoro manuale.
Questa è la principale causa, non contingente ma strutturale, della crisi occupazionale in tutto il mondo, tendente sempre più ad acuirsi in quanto l'ammodernamento delle aziende, la loro ristrutturazione, la concorrenza internazionale si effettuano con l'introduzione di nuovi meccanismi automatici e la conseguente riduzione del personale, tanto da raggiungere attualmente il seguente paradosso: fino a qualche anno addietro un'azienda che poneva in cassa integrazione alcuni suoi dipendenti perdeva la fiducia del mercato; viceversa oggi le aziende che licenziano il personale aumentano la loro quotazione in borsa. Tra i correttivi di tale situazione è la fiducia degli ottimisti, secondo i quali le nuove tecnologie produrranno, dopo una prima fase di riduzione degli addetti, nuove forme di occupazione che compenserebbero o addirittura incrementerebbero i posti di lavoro. Una seconda soluzione del grave e strutturale problema occupazionale si basa sull'etica qualitativa del d.: a che cosa si ridurrebbe la qualità diffusa della produzione se questa non comportasse nuove occasioni di lavoro e, di conseguenza, la possibilità economica di acquistare i prodotti? Ford fu il primo ad attuare la formula "lavorare meno, lavorare tutti". Ma evidentemente le condizioni sono cambiate: per montare un televisore si è passati, in dieci anni, da venti a due ore, il che vanifica l'efficacia del precetto. Una terza soluzione è quella di un d. che valorizza la componente artigianale in effetti mai del tutto annullata, specie in alcuni suoi settori (si pensi a quello del mobile e dell'arredo). Ma chi può garantire che le piccole e medie aziende artigianali non si attrezzino quanto prima di macchine sostituenti il lavoro manufatto? Non resta che una soluzione, per così dire, politica nell'accezione più generale. Ove si ammetta che l'ecologia, per combattere gli effetti inquinanti, impone un limite allo sviluppo, analogamente, per evitare più costosi ammortizzatori sociali, l'industria dovrebbe ridurre al minimo gli addetti da licenziare. Si può obiettare che ogni persona non completamente utilizzata (comunque addestrabile meglio che in qualunque scuola tecnica) costituisce un aggravio economico per l'azienda, ma meglio questo parziale costo sociale, distribuito azienda per azienda, magari sostenuto da una facilitazione fiscale, che non la formazione di una vasta manodopera disoccupata e per giunta non in grado di specializzarsi. In breve, il programma ecologico come l'etica del d. vanno oltre il dato meramente economico: l'una e l'altra ci dicono che non tutte le potenzialità tecnologiche sono un bene, che non tutto il possibile è al tempo stesso positivo e auspicabile.
Ma al di là di questa importante questione sociale, veniamo al più modesto tema morfologico dei prodotti industriali. I settori a più avanzata tecnologia sembrano puntare a un'immagine del prodotto che deriva la sua forma da procedimenti tecnologici ormai divenuti sofisticati sistemi. Come osserva G. Dorfles: "si parla di forma e funzione senza essersi resi conto che, per moltissimi prodotti ancora ieri rispondenti a questo imperativo, oggi non esiste neppure una forma! Per portare semplici esempi: si pensi all'infinita gamma degli elementi basati su microprocessori, su minime lamine di silicio grandi come un'unghia, capaci di registrare, mettere in moto, ordinare, ecc., interi organismi automatizzati, laboratori, fabbriche [....] o si pensi all'infinita gamma degli strumenti Hi-fi [...] ormai ridotti a minute cassette nere che albergano solo qualche piccola lamina su cui sono stampati misteriosi circuiti. Dove sta la forma in questi casi? La forma non esiste più o è inventata di sana pianta e senza nessuna relazione con quanto essa 'ricopre' o nasconde, solo per dare all'utente, al compratore, un simulacro di quel contenente che è in realtà privo di un contenuto morfologicamente corrispondente" (Dorfles 1983, p. 6).
Il design nella storia
In un quadro certamente non confortante che va dalle aporie del d. storico alle contraddizioni della nuova tecnoscienza, non vale invocare una condizione postmoderna o postindustriale che in realtà significa preindustriale. Può forse essere utile all'azione critica cominciare a ricucire lo strappo con la storia che la cultura del d. si porta dietro sin dalla sua origine. Lo storicizzare la produzione industriale di qualità diventa quindi il fatto veramente nuovo di questi ultimi vent'anni del secolo. Tuttavia, se la storiografia, che notoriamente è altra cosa dalla storia, viene intesa anche come attività progettante, riteniamo che essa possa incidere sia come chiarimento del passato, sia come ausilio attuale per la storia nel suo farsi, sia soprattutto come previsione del futuro del design. Ecco allora che, se consideriamo come punto indiscutibile che la storia si articola in tre tempi - il passato, il presente e il futuro -, abbiamo lo schema più certo in cui collocare gli sviluppi del design.
L'applicazione dello schema suddetto va tuttavia preceduto da un cenno sulla questione dei valori e delle valutazioni. E poiché stiamo considerando oggetti di d. appartenenti a tre eterogenei tempi storici, dobbiamo parlare dei valori, sia nella storicità di ciascuno di tali tempi, sia in una loro dimensione metastorica. Chi ha familiarità con la riflessione concettuale sulla storia sa bene che prima o poi spunta la problematica questione del valore, che comporta anzitutto l'esigenza di distinguere i fatti dai valori, per non incorrere in un appiattimento degli uni sugli altri e nella giustificazione di ogni evento e opera storica, con la paralisi dello stesso giudizio sia storico sia valutativo.
Introducendo la nozione di 'significato', che comporta inevitabilmente un atto di interpretazione, la cultura storica fa riferimento non tanto a criteri di valutazione quanto a criteri di scelta entro la molteplicità estensiva e intensiva dei dati empirici, ovvero dei fatti storici. Che oltre la storicità di un evento nel suo tempo vi sia la sopravvivenza del suo valore al di là di quel periodo è un fenomeno che trova il caso più emblematico in quello dell'arte. La produzione artistica è certamente condizionata dal contesto del momento in cui nasce, ma è anche portatrice di valori e significati che restano costanti nel tempo. Una conferma si ha in quanto scrive Panofsky: "l'opera d'arte - come tutti i prodotti dello spirito creativo - ha per sua natura la duplice proprietà di essere, da un lato, determinata de facto dalla situazione temporale e locale, e, dall'altro, di costituire, riguardo alla sua idea, una soluzione atemporale, assoluta e a priori dei problemi posti - di prodursi nel flusso del divenire storico e di raggiungere tuttavia una sfera di validità sovrastorica" (Panofsky 1925; trad. it. 1961, pp. 205-06).
Ora, è proprio questo fattore metastorico, ovvero di invarianza di valore al variare della storicità, che ci consente di ipotizzare, prevedere, progettare gli oggetti che, con ragionevole estensione delle tendenze in atto, saranno prodotti nel futuro, grazie anche alla citata proprietà dell'arte che vale anche oltre il luogo e il tempo in cui sono state realizzate le sue opere. Applichiamo ora lo schema dei tre tempi della storia ai prodotti del design. Rispetto al passato, in esso il vero e proprio d. non esisteva perché notoriamente è nato con la rivoluzione industriale, con i fenomeni socioeconomici a essa legati, con i moti del gusto e dell'arte databili tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento. Tuttavia, possiamo dire che il d. ha una più antica genealogia, se si pensa che alcuni settori merceologici sono rimasti quasi immutati nei secoli (i prodotti ceramici), che altri si sono modificati nella forma ma non nella sostanza (la scrittura e la grafica), che altri ancora, pur totalmente nuovi, hanno per vari motivi conservato una dimensione artigianale (i mobili e gli altri oggetti d'arredo). Insomma, il d. in molti casi non si è mai completamente affrancato dall'artigianato, restando in tal modo legato al passato. Non solo, ma sarebbe auspicabile recuperare da esso, se non una morfologia, almeno una tipologia di manufatti, frettolosamente abbandonata, ma non uscita dall'uso, tant'è che, in mancanza di prodotti moderni, ricorriamo spesso a oggetti di antiquariato.
L'indispensabile rifondazione disciplinare del d. deve iniziare dalla rimozione di alcuni miti indicati precedentemente che, pur generosi e stimolanti, hanno di fatto impedito il suo processo storico. Probabilmente abbiamo caricato di troppe intenzioni socioculturali e moralistiche il generale campo manifatturiero, perché potesse trovare un riscontro nella sua complessa e talvolta irrazionale storicità. Senza tutte queste valenze 'moderne', il vecchio metodo artigianale offriva un panorama assai più omogeneo stilisticamente di quanto abbiamo preteso programmare di recente. Nelle epoche passate un dettaglio architettonico, un elemento d'arredo, una suppellettile, un costume di dama e cavaliere, una bandiera, uno stemma ecc., pur espressioni di mani diverse e produzioni di diverse botteghe, avevano un'impronta epocale, tanto da porsi come oggetti storici, vale a dire individuali e in pari tempo portatori di una inconfondibile unità stilistica propria del loro tempo. In tal senso ci sarebbe molto da imparare dal d. ante litteram.
Rispetto al presente, il d. va visto come storia nel suo farsi, un farsi che tiene conto sia delle esigenze attuali, sia dell'eredità della tradizione, sia dei prevedibili sviluppi futuri. Appare chiaro che nel presente coesistono in un certo senso tanto la storia, appunto nel suo farsi, quanto la sua storiografia, come ricordo e come previsione. Considerato in tal modo, il presente costituisce il tempo privilegiato sia della storia che della storiografia. Esso infatti è il tempo in cui operiamo, quello della storia-realtà o, per dirla in altri termini, il tempo delle res gestae; contemporaneamente, esso è il tempo dal quale guardiamo al passato e ipotizziamo il futuro: è il tempo della storia-studio, della storiografia, della historia rerum gestarum. Dal presente guardiamo al passato, lo interpretiamo, lo giudichiamo secondo i nostri interessi attuali; come ogni storia, anche quella del d. si fa dal presente verso il passato, donde il precetto crociano che "ogni storia è storia contemporanea", dove beninteso al termine storia va sostituito il termine storiografia. Il precetto va corretto nel senso che, per la storia dell'arte, quella storiografia non nasce solo da altro materiale storiografico, da altri studi, ma anche e soprattutto dalla storia vera e propria, essendo la storia dell'arte una storia speciale che si fa in presenza degli oggetti; un conto infatti è la storia dell'unità d'Italia, un altro quella della sedia Thonet n. 5, del modello T della Ford, della poltrona Barcellona di Mies van der Rohe ecc.
Rispetto al futuro non possiamo che fare delle previsioni. Alla classica domanda su come evolverà il d., si può ipotizzare anzitutto che avrà un alto livello tecnologico e che, nonostante s'insista tanto sul carattere e il valore delle informazioni, sarà comunque fatto di conformazioni, di oggetti, di prodotti materiali. Più difficile dire che forma avranno tali oggetti. Sarà in tal senso ancora la tecnologia a dominare, non lasciando grandi speranze su uno sviluppo armonico di forma e contenuto, di forma e funzione, di utile e di bello, di efficiente e duraturo, visti e considerati gli attuali squilibri fra tali proprietà, l'assenza di peculiari caratteristiche dei prodotti (solo un occhio esperto sa distinguere un modello di auto dagli altri, quello di un televisore dall'altro, quello di un personal computer dall'altro ecc.).
Ciò nonostante, poiché riteniamo che la stessa storia si progetti, specie in un settore in cui la componente progettuale ha il ruolo che si è detto, non rinunciamo ad avanzare l'ipotesi di tre possibili orientamenti futuri.
Il primo è quello di un 'minimalismo' morfologico totalmente a vantaggio dell'efficienza funzionale. Abbiamo visto Dorfles sostenere che, specie nel settore dell'elettronica, quanto più avanzata sarà la tecnologia, tanto più saranno 'aformali' i prodotti di questo campo; microprocessori e altri elementi elettronici saranno sempre più miniaturizzati, al punto da vanificare qualunque tipo di contenitore: tutto sarà ridotto a scatole simili a quelle dei fiammiferi, capaci di proiettare immagini, scritture, calcoli; in grado di produrre caldo, freddo, aprire e chiudere, superare, oltre alle attuali porte e cancelli, qualunque altro tipo di ostacolo, persino di catturare e dar forma al nostro pensiero. Altri autori hanno rilevato che, per le stesse motivazioni tecniche, gli oggetti perderanno la loro terza dimensione a vantaggio di superfici piatte, proprie degli schermi, dei monitor, dei visualizzatori in generale.
Il secondo orientamento, in reazione al 'minimalismo' quasi bidimensionale e quale vendetta dell'immaginario fantastico contro l'iperrazionale, sarà probabilmente quello di forme voluminose, ricche, ridondanti, superdecorate, di gusto neobarocco. L'ipotesi è confortata dall'attuale successo dei fumetti, degli 'effetti speciali' filmici e televisivi, dell'iconografia degli UFO, degli animali preistorici, di molte specie di esseri viventi scelti fra i più sgradevoli: i serpenti, le rane, le tartarughe, peraltro deformati, ingigantiti, resi più violenti e aggressivi di quanto non siano in realtà ecc. Ma forse la prova più convincente del successo recente del mostruoso sta nel fatto che esso informa il vasto campo dei giocattoli; è molto amato dai bambini, che saranno gli uomini di domani, e a costoro probabilmente resterà caro ancora per qualche tempo, non foss'altro che come nostalgia della loro infanzia. Si aggiunga che dal mostruoso al Kitsch il passo è talmente breve che talvolta il secondo ingloba il primo. Non meravigliamoci pertanto se avremo coltelli con manico a forma di serpente, auto con teste di tartaruga e coda di balene, poltrone a mo' di fauci aperte, tappeti dentati in plastica molle e simili, come del resto già qualcuno ha proposto. Nell'arte il 'mostruoso' esiste da sempre: le antiche decorazioni romane, ribattezzate 'grottesche' nel Rinascimento; le sculture delle cattedrali gotiche; l'opera di H. Bosch; il bosco di Bomarzo e altre manifestazioni manieristiche; una componente dell'espressionismo, del surrealismo e via via fino alla Body Art. Per ciò che attiene al d. moderno si può dire che finora non è stato quasi toccato dal mostruoso, ma con buona probabilità esso farà ben presto la sua comparsa. Tuttavia la differenza fra il concetto del mostruoso nel manierismo e quello nuovo, aventi in comune il desiderio dell'inusitato, sta nel fatto che quello cinquecentesco era opera di geniali quanto stravaganti artisti, che adottavano una tecnica artigianale, mentre quello attuale e probabilmente futuro sarà, grazie alla tecnologia, più iterato, invadente, clonato, appannaggio di anonimi designer e decoratori, realizzato con i nuovi materiali, segnatamente la plastica; non è escluso che le nostre case saranno simili alle stanze degli orrori immancabili in ogni Luna Park. Certo, per quanti di noi sono stati educati al gusto del buon d. (Werkbund, Bauhaus, Ulm) non sarà un ambiente bello da vivere, e il famoso detto di Goya - "il sonno (o il sogno) della ragione genera mostri" - riceverà un'ulteriore conferma.
Il terzo orientamento sarà quello contrassegnato da prodotti usa e getta. Che questa sia l'ipotesi più probabile riguardante la nostra cultura materiale è provato dall'attuale crisi dei valori, dall'edonismo diffuso, dal mito del funzionalismo assoluto, dalla mancata esigenza di conservare alcunché, dall'etica, per così dire, dell'oblio, dal gusto del nuovo per il nuovo, dall'inettitudine a gestire le situazioni determinate da quest'ultimo. L'usa e getta alimenterà la gran massa dei rifiuti, cancellerà ogni segno della nostra esistenza e, al limite, la nostra stessa storia. Che cosa sia una civiltà che distrugge ogni traccia di sé è facile immaginarlo; corriamo forse il rischio di fare realmente esperienza di quanto non si è mai verificato nel corso della storia.
A questo punto si comprende meglio la nostra digressione sulla questione dei valori e delle valutazioni, che abbiamo sintetizzato dicendo che i valori non consistono mai o raramente in qualcosa che è, per così dire, in re, bensì in qualcos'altro che trascende i fatti, le opere, gli oggetti, altrimenti identificheremmo fatti e valori. E se per l'arte, che abbiamo visto avere sia una dimensione storica, sia una metastorica, questo qualcosa vale oltre la storicità del suo tempo, altrimenti le opere del passato ci sarebbero oggi incomprensibili, per l'arte applicata, il d., il problema è più complesso. Infatti, il concetto di arte applicata - nell'aggettivo più che nel sostantivo sta tutto il suo interesse sociale, economico, produttivo ecc. - implica una componente estetica e una pratica; per la prima vale il valore metastorico suddetto, per la seconda, quello legato alla storicità dei prodotti. Nonostante questa maggiore complessità, relativamente ai prodotti del passato, siamo in grado di capire ancora quale valore e quali significati ebbero gli oggetti d'uso del mondo classico, medievale, rinascimentale e così via. Al contrario, avvicinandoci ai prodotti più recenti, la storicità di tali oggetti si è affievolita; fino a quelli della categoria usa e getta, in cui, oltre l'ovvia ragione funzionale, non riusciamo a cogliere alcun valore, verificandosi il caso della coincidenza della povertà del fatto con la povertà del suo valore.
Di fronte all'ipotesi più probabile sul d. del futuro tempo storico e alla sua squallida prospettiva, che rischia, come si è detto, di cancellare le tracce della storia dell'uomo, è possibile forse un solo tentativo di modificazione: puntare, oltre che all'ecologia della natura, anche alla cosiddetta ecologia dell'artificio, dove il termine indica sia la proprietà non inquinante della fabbricazione degli oggetti industriali - e bisogna ammettere che tutto quanto nuoce all'ambiente a causa della tecnologia trova in questa stessa i relativi ripari - sia criteri di difesa, di salvaguardia, di restauro e conservazione degli stessi prodotti artefatti. Questo compito è assai più arduo perché non si possono invocare a difesa le ragioni della salute, del patrimonio naturale ecc.; né le ragioni della tutela e conservazione dei monumenti e delle opere artistiche, in quanto il d. è e resta un'arte applicata, soggetta all'usura e al consumo, pertanto minacciata oltre modo dalla programmatica distruzione, di tanti suoi prodotti, una volta usati. Se anche questo tentativo risulterà vano, non resta che la speranza di un futuro in cui la dimensione razionale si avvicini a quella reale.
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La produzione del design
di Carlo Martino
La produzione del d. negli anni Novanta è stata condizionata dalla complessa interazione tra fattori economici, sociali, tecnologici e culturali: fattori che ne hanno sempre indirettamente influenzato il processo ma che, in questi ultimi anni, sono stati integrati nel suo sviluppo. Il tradizionale product d. (la progettazione del prodotto) è divenuto uno dei componenti del processo, ma non l'unico. A esso si sono affiancati prima il d. management (attività di gestione e sviluppo del prodotto), basato sull'analisi e la rielaborazione di fattori socio-economici, e poi il d. strategico (attività progettuale riferita all'insieme di prodotto, servizio e comunicazione), fondato sugli spazi operativi che scaturiscono dall'integrazione dei diversi fattori. Sul fronte stilistico, il d. di questi anni è stato caratterizzato da una pluralità di espressioni, leggibile attraverso alcune grandi linee di tendenza culturali. Tra queste ha assunto notevole rilievo quella verso una "nuova semplicità" (Pasca 1997) nella concezione dell'oggetto, associabile sia agli esiti formali della ricerca sui nuovi materiali (leggerezza e riduzione degli spessori) sia alle esigenze del d. sostenibile. Sul piano economico, infine, la recessione che ha coinvolto l'Italia e l'Occidente a partire dal 1992 sollevando aspetti etici del mercato, prima sconosciuti, ha avuto profonde ripercussioni sul comportamento del consumatore, sempre più esigente nei confronti della qualità del prodotto e del servizio a esso collegato.
Nel settore dell'arredamento domestico vengono riscoperti i materiali e le forme della tradizione; alle brillanti laccature in poliestere dei mobili degli anni Ottanta sono sostituite strutture e bordure in legno naturale (ciliegio, acero ecc.) e pannelli con laccature opache nei colori pastello. Il d. organico scandinavo con i suoi materiali naturali e il d. americano degli anni Cinquanta con le sue forme bombate hanno costituito un repertorio iconografico cui si è fatto ampio ricorso. Si ricordano i mobili disegnati da L. Meda per la Molteni & C (sistema Piroscafo 1991, sedia Ticino, 1992), e la cucina Americana, disegnata da M. Iosa Ghini (1995). Anche nel settore delle auto e delle motociclette si registra un ritorno alla tradizione. Già nel 1989 la Mazda aveva introdotto sul mercato, con un inaspettato successo, la spider MX-5 Miata. La risposta europea non si è fatta attendere. Nel 1994, infatti, sono entrati in produzione il nuovo coupé della Fiat disegnato dal Centro Stile Fiat e la nuova spider dell'Alfa Romeo, disegnata da Pininfarina. Entrambe si presentano caratterizzate da svettanti incisioni associabili alle linee di una muscolatura in tensione. L'anno successivo viene presentata, ancora dalla Fiat, la Barchetta, nuova spider ispirata agli anni Venti, che rappresenta un esempio di raffinata combinazione tra citazioni (è il caso dei fari anteriori) e innovazioni stilistiche. Degli stessi anni sono il progetto della Motò (1995), motocicletta da strada disegnata da Ph. Starck per la Aprilia, e il nuovo modello della Vespa (1996), progettato da Struttura Dueruote e dal Centro Stile Piaggio per la Piaggio. Entrambi i progetti, per la definizione dei caratteri morfologici, guardano apertamente al passato. Ancora nel 1998 viene proposta al salone di Detroit la New Beetle, versione attualizzata del 'Maggiolino', di cui riprende gli elementi caratterizzanti (premio North American car of the year, 1999).
Come ha affermato A. Branzi (1994), "la crisi è sempre stata l'occasione per varare un nuovo 'sviluppo', attraverso una profonda ristrutturazione industriale". Per rispondere alla nuova domanda di qualità, le imprese hanno dovuto infatti rivedere il loro modo di operare sul mercato. Molte aziende, tra cui quelle storiche, spesso a conduzione familiare, hanno ridotto gli investimenti per l'innovazione lavorando solo sul miglioramento stilistico, spesso firmato da noti designer, del prodotto esistente. Le più coraggiose hanno invece intuito che bisognava ristrutturare profondamente il processo di gestione del prodotto, rivedere l'organizzazione della produzione per adeguarla agli standard richiesti dalla certificazione di qualità (indispensabile per accedere a nuovi mercati), e impostare il prodotto sui bisogni specifici del singolo consumatore. Si sono così create le premesse per la cosiddetta mass-customization, ovvero personalizzazione di massa, un nuovo modo di concepire la produzione di design.
Molto importante dal punto di vista concettuale è stato il lavoro di G. Pesce (ne è una dimostrazione la mostra Le temps des questions, organizzata sulla sua opera al Centre national d'art et de culture Georges Pompidou di Parigi nel 1996). Sostenitore da tempo della 'serie diversificata', ne ha dimostrato le possibilità applicative attraverso numerosi progetti che utilizzano le materie plastiche. Tra questi si ricordano la sedia 543 Broadway del 1993, prodotta dalla Bernini, costituita da seduta e schienale in resine epossidiche e da una struttura in tondini di acciaio saldati. Questo progetto, riprendendo un concetto artistico, si propone come pezzo unico non ripetibile poiché, nelle parti in resina, la miscela di colore si dispone in maniera casuale nella generale trasparenza della plastica. I progetti di Pesce con le materie plastiche aprono nuove problematiche sulle qualità estetiche della materia. Categorie quali l'omogeneità, la trasparenza e l'opacità vengono messe in discussione e sostituite da altre intermedie, come la semiopacità o la semitrasparenza, e inducono a una riflessione più ampia sull'espressione della densità della materia.
L'impresa, nell'ambito del generale processo di ristrutturazione, ha dovuto ripensare anche ai meccanismi di vendita, incalzata dalle innovazioni sul tema della distribuzione introdotte sul mercato dai gruppi industriali europei. Significativa dell'orientamento del mercato verso tale fenomeno è stata l'affermazione, in Italia, del gruppo scandinavo IKEA (Ingvar Kamprad Elmtaryd Agunndryd). La domanda di prodotti di qualità dal prezzo contenuto ha finito per influenzare le strategie di mercato di altre aziende, elitarie per vocazione, le quali hanno affiancato alla produzione di alta gamma quella di oggetti più flessibili ed economici. In questa ottica il prodotto è diventato sempre meno impegnativo, le grandi collezioni e i programmi hanno lasciato il posto all'oggetto dalle dimensioni ridotte, ai 'complementi d'arredo', sia per la casa che per l'ufficio. Anche il d. del packaging è diventato uno strumento promozionale per influenzare un acquisto rapido, come è avvenuto per i prodotti di largo consumo. Intervengono progettisti specializzati in questo settore, e i materiali 'poveri' dell'imballaggio vengono utilizzati per la realizzazione dell'oggetto stesso, come, per es., nei prodotti in cartone pressato.
Sono gli anni del successo di aziende quali Driade, Fiam, Kartell, Rexite, Robots e Tonelli. Lo spostamento del mercato verso la grande distribuzione è stato avvertito in modo particolare dalla Driade, fondata nel 1968, che ha saputo trasformare le mutazioni del mercato in originali occasioni produttive. Negli anni Novanta, attraverso le collezioni Atlantide e D-House, ha rilanciato alcuni principi fondamentali del design. Completezza, chiarezza e polifunzionalità sono le caratteristiche dichiarate nel catalogo del 1996 della collezione Atlantide, di cui si ricordano la fioriera a sospensione Erbale in plastica trasparente di F. Bortolani, W. Becchelli e S. Maffei, il guardaroba Castello di M. Laudani e M. Romanelli e i contenitori Blister I e II degli inglesi C.Y. Platt & R.P. Young. La semplicità e il rigore sono invece alla base dei progetti della collezione D-House del 1996, come nella lampada Lio, nei bicchieri Can I e II e nella gruccia in acciaio zincato di S. Bergne, nel vaso in ceramica Trellis di L. Burckhardt e nel porta-CD Soundtrek II di A. Häberli. Interessante per l'uso innovativo delle materie plastiche e per la rielaborazione tipologica è il sistema di cassettiere e contenitori Mobil del 1994, prodotto dalla Kartell e disegnato da A. Citterio e O. Low. Restando sul tema dei complementi si ricorda il progetto di R. Arad, già affermato designer israeliano di formazione inglese, la flessibile e sinuosa libreria in tecnopolimero Bookworm della Kartell, del 1994, traduzione in prodotto industriale di un prototipo-scultura in nastro di acciaio del 1993. L'abat-jour in tecnopolimero colorato Miss Sissi del 1991 e la lampada da sospensione in PVC autoestinguente termoformato Lightlite del 1992, entrambi disegnati da Ph. Starck, rappresentano invece i primi progetti della Flos, nota azienda italiana di apparecchi per l'illuminazione di alto d., verso il prodotto di largo consumo dal prezzo contenuto. Nella prima lampada il packaging esalta l'immagine, quasi archetipica dell'oggetto, mentre nella seconda, venduta in una grande busta di plastica contenente il kit di montaggio, il materiale utilizzato è proprio quello degli imballaggi industriali.
Nel settore dell'arredamento domestico, che ha avuto anche in questo decennio una funzione trainante nella definizione di nuove linee di tendenza stilistiche, si è confermato il ruolo dell'impresa come struttura sensibile e aperta ai nuovi talenti.
Il Centro Studi Alessi, costituito in seno all'azienda omonima da A. Alessi, A. Mendini e L. Polinoro, ha svolto il ruolo di fucina di nuovi talenti nel design. Tra il 1991 e il 1993 si è svolto il workshop dal titolo Family follows fiction, a cui hanno partecipato, tra gli altri, S. Giovannoni, G. Venturini e P. Caramia. Il risultato del lavoro del gruppo è stata una collezione di piccoli oggetti per la casa dall'aspetto ludico, in cui il recupero della plastica come materiale espressivo si presta perfettamente alle esigenze del linguaggio neo-organico, anche perché essa, come afferma F. La Cecla (1996), è la materia dei 'soldatini', dei 'pupi', dei gadget, portatrice indiscutibile di una memoria ludica. Tra gli oggetti di questa collezione, tutti realizzati nel 1993, si ricordano il fallico accendigas elettronico Firebird, di Venturini, il fumettistico servizio per sale e pepe Lilliput, di Giovannoni, e la teiera zoomorfa Penguin tea, di Caramia.
G. Cappellini, titolare dell'omonima azienda, ha avuto il merito di lanciare a livello mondiale il d. britannico, che è risultato il più vivace nel panorama internazionale, sia per l'effervescenza dell'ultima generazione, sempre in stretto contatto con il mondo dell'arte, sia per la presenza in Inghilterra di validi ambiti formativi, come il Royal College of Art o della scuola di moda St. Martin (Londra). V. Pasca (1998) ha individuato in questo scenario tre grandi tendenze entro cui è possibile inserire il lavoro dei designer inglesi: il Minimalismo, il Neo-organicismo e il Neo-pop.
Il rigore geometrico e l'asciuttezza del linguaggio sono gli elementi che hanno caratterizzato i prodotti minimalisti di J. Morrison disegnati per l'inglese SCP e per la Cappellini. Per es., l'Universal system del 1991, prodotto da quest'ultima azienda, è un sistema di contenitori per la casa in legno compensato naturale, dalle geometrie molto rigorose, in cui l'unico spazio per la decorazione è limitato al disegno del foro che funge da presa per l'apertura dei cassetti e delle ante. I piccoli complementi di arredo disegnati per la Driade e per la Cappellini rappresentano bene, invece, l'approccio al progetto di K. Grcic, come nel caso della sedia Start del 1994, prodotta da Cappellini, in tubolare e lamiera di acciaio verniciato, e dei sistemi di scaffali Dinamico e Zig-Zag, prodotti da Atlantide. In tutti i progetti è leggibile una semplice concezione costruttiva dell'oggetto e la presenza dell'acciaio verniciato come elemento rappresentativo di una poetica dell'understatement. Di T. Dixon sono interessanti i progetti della famosa S. Chair del 1992, derivante da una sedia-scultura in gomma e ferro del 1987, che racchiude in un unico sinuoso segno le componenti della seduta, e l'ultimo oggetto pluriuso Jack (lampada/sgabello/base da tavolo ecc.), in polietilene, del 1997, che rappresenta bene le ultime espressioni del d. pneumatico e neopopolare verso cui Dixon si è orientato. Un altro personaggio che negli anni Novanta è emerso con tutta la carica espressiva dei suoi oggetti, caratterizzati da esuberanti rotondità, è l'australiano M. Newson. Già conosciuto negli anni Ottanta grazie alla collezione POD, ha collaborato in questi anni con aziende quali Flos (lampada Helice, 1992), Cappellini (tavolino Orgone, 1991, Wooden chair, 1992, Felt chair, 1993) e Moroso (collezione Gluon, Tv chair, Tv table, Bone del 1993).
Un fenomeno proprio degli anni Novanta, relativo al rapporto impresa-d., è rappresentato dall'apertura dei centri di R&D (Ricerca e Sviluppo), interni alle grandi industrie, alla collaborazione con centri di sperimentazione autonomi. La collaborazione si è concretizzata in una serie di workshops che hanno trattato temi diversi con l'obiettivo di individuare nuove tipologie merceologiche o nuovi concepts (nodi problematici verso cui indirizzare la progettazione del d.).
Molto interessanti da questo punto di vista sono stati i workshops organizzati dalla Philips, guidati da S. Marzano, per trovare nuove applicazioni alle tecnologie possedute e confrontarsi con altre sperimentali realtà industriali. Si ricordano quello del 1992 con l'Alessi, sul tema dei piccoli elettrodomestici; del 1993 con la Olivetti rappresentata da M. De Lucchi, sul tema delle nuove applicazioni dell'elettronica nelle attrezzature per l'ufficio; quelli sul televisore, del 1994, guidati da Marzano, Mendini e Branzi, e infine Vision of the future nel 1996. Quest'ultimo ha portato all'elaborazione e selezione di 60 'concetti-oggetti' (Zanco 1996) divisi in quattro ambiti: spazi personali, casa, aree pubbliche e mobilità. Il comune denominatore dei lavori, riferibile alla personalità di Marzano, è rappresentato dalla volontà di addomesticare la tecnologia attraverso un attento studio delle relazioni da essa generate. Anche se non sempre i risultati di questi workshops sono stati tradotti in prodotti, tranne nel caso dell'Alessi, il loro valore sperimentale si è dimostrato molto elevato; per alcuni ricercatori, essi hanno rappresentato un livello avanzato a cui tendere anche sul piano stilistico.
In ambito sociale si è assistito all'affermazione di una maggiore sensibilità collettiva verso grandi problematiche planetarie, quali gli squilibri ambientali e l'emarginazione sociale, che ha contribuito, insieme alla crisi economica, a modificare sostanzialmente gli obiettivi della produzione industriale. Si è aggiunta una riflessione sul ciclo di vita del prodotto, che ha assunto così un ruolo centrale (durata dell'oggetto, costo energetico, disassemblaggio a fine vita, riciclabilità). La sensibilità verso le problematiche ambientali ha però agito su due livelli: uno più superficiale, che ha generato un'estetica ecologica, fatta di materiali e colori naturali, forme rigorose ed essenziali, lasciando invariato il sistema della produzione industriale; e un altro più profondo che, attraverso una nuova elaborazione teorica, ha mirato a ricostruire un sistema produttivo coerente con gli obiettivi della sostenibilità ambientale.
Rappresentativi del primo livello sono: la mostra Neolite, metamorfosi delle plastiche, organizzata nel 1991 dalla Domus Academy, in cui sono stati proposti i risultati di esperimenti condotti da designer europei sul neolite, un materiale ottenuto dal riciclaggio delle materie plastiche e caratterizzato dalla disomogeneità, da colori spenti e da superfici scabre; e il progetto del televisore Jim nature (1993), disegnato da Starck per la Saba, un interessante esempio di utilizzo della tecnologia del legno riciclato.
L'approccio più profondo alla sostenibilità ambientale è partito da un'attenta analisi dello stato attuale dei processi industriali, da cui è emersa l'inderogabile necessità di ridurre il consumo di risorse naturali nella produzione di beni, o attraverso una transizione volontaria della società verso modelli di consumo diversi (riduzione della domanda), oppure attraverso un drastico passaggio causato da eventi accidentali (Manzini 1995). Il lavoro dei ricercatori che hanno assunto i principi teorici della sostenibilità si è concentrato sull'elaborazione di nuove strategie culturali e tecnologiche per poter operare una graduale transizione verso forme più equilibrate di consumo, che tuttavia non inducano nei consumatori un senso di privazione.
Tra i grandi scenari progettuali individuati dai ricercatori, i più realistici sono: quello della leggerezza e miniaturizzazione, che vede nella riduzione di peso e di materia (meno materia meno consumo) un'alternativa alla produzione attuale; quello della materia coltivata (materiali che si compongono dagli scarti di lavorazione di frutti come, per es., lo spagnolo Maderon, prodotto dalla macinazione dei gusci di mandorle); quello sull'integrazione delle funzioni (non più tanti oggetti monofunzionali ma un solo oggetto polifunzionale); infine quelli che si concentrano sul ciclo di vita dell'oggetto (prodotti usa e getta programmati e prodotti durevoli; Doveil 1995).
Interessante è anche il ruolo svolto da gruppi sociali di minoranze coincidenti, in alcuni casi, con le minoranze etniche presenti nei paesi occidentali e provenienti da paesi sottosviluppati. Tali gruppi, con i loro oggetti e le loro tradizioni, hanno finito per influenzare in larga misura il nostro stesso modo di concepire i prodotti. In realtà "l'eclettismo cosmopolita" nel d., come lo definisce F. Morace (1996), ha evidenziato come sia forse proprio il nostro sistema di oggetti a essere parzialmente in crisi, per aver probabilmente esaurito parte del suo valore semantico.
Il progetto Creolo, sviluppato dal Centro Studi Alessi nei primi anni Novanta, ha avuto come obiettivo quello di trovare delle risposte agli interrogativi che nascono intorno al d. etnico. Tra i prodotti, tutti del 1992, si ricordano le scatole da cucina Kalistò 1, 2 e 3 di C. Brass, il cestino rotondo traforato in acciaio colorato con resine epossidiche Cohncave di S. Cohn e il portagrumi in acciaio traforato Helmut di C. Cassina. Di indubbio interesse nell'ambito del d. etnico è stata la collezione Mondo prodotta dalla Cappellini, che ha raccolto mobili e complementi di arredo in materiali tradizionali, quali legno, ferro, vetro, chiaramente ispirati a modelli delle culture tribali africane e sud-americane.
A livello sociale si è affermato definitivamente il ruolo decisionale della donna nel processo di acquisto. Il modo femminile di percepire le cose ha fortemente influenzato il d. di diverse tipologie di prodotti, dagli oggetti per l'ambiente bagno al d. delle auto. Nel settore del d. automobilistico, molto attento alle evoluzioni sociali, si è assistito all'affermarsi di tipologie di auto familiari dalle linee morbide e seducenti, quali le monovolume e le station wagons. Una tendenza partita dal Giappone verso l'Europa ha poi riproposto un approccio stilistico ispirato al mondo dei fumetti, caratterizzato dalla riduzione al minimo delle linee costruttive delle forme e dall'arrotondamento degli spigoli.
Nel settore dei prodotti per il bagno, le sperimentazioni del d. si sono concentrate su soluzioni tipologiche ibride che giocano sulla fusione dell'elemento vasca con l'elemento doccia. A questo si è aggiunto un approfondimento delle qualità tattili ed estetiche dei materiali utilizzati, come, per es., ha fatto M. Sadler con i modelli disegnati per l'Albatros (vasche For me e For you del 1994), sperimentando l'uso in punti particolari di elastomeri, denunciati dalla differenziazione cromatica. La linea curva come sinonimo di fiducia, serenità e sicurezza è stata invece alla base della concezione della Micra del 1992, prodotta dalla Nissan per il mercato europeo. L'auto nel suo insieme ha una coerenza formale nell'essere un tutto tondo, un contenitore associabile al grembo materno, che incarna pienamente i due slogan aziendali 'amichevole' e 'naturale' senza sacrificare la funzionalità. Sulla metafora del grembo materno è stato impostato anche il progetto della Twingo del 1993, prodotta dalla Renault, a cui si è aggiunto il carattere ludico scaturito dal processo di riduzione alla scala dell'auto da città dell'elegante Espace. Le soluzioni che sono state sperimentate negli interni (divano posteriore regolabile, cruscotto con indicatori centrali) suggeriscono un modo informale di vivere l'automobile, sottolineato anche dall'uso innovativo del colore (tinte pastello brillanti della carrozzeria, uso del verde acquamarina nel volante, nelle leve e nei pomelli). Dal contrasto risultante tra "morbido e spigoloso, quadro e tondo, simmetria e asimmetria" (Tumminelli 1999), scaturisce, invece, l'estetica dell'Edge Design che caratterizza le nuove auto della Ford, e in particolare la Ford Ka (1997), connotata da un aspetto spigoloso sovrapposto a un volume tondeggiante.
L'innovazione tecnologica ha giocato un ruolo fondamentale nello scenario del d. di fine secolo. È possibile leggerne gli effetti sia in seno a problematiche proprie dell'innovazione, sia sui risvolti sociali e culturali che essa ha determinato. Una tendenza diffusa è stata quella relativa alla ricerca sui materiali attraverso lo studio e l'utilizzo di nuove sostanze o il nuovo impiego di materiali tradizionali.
A testimonianza di questo interesse sono stati organizzati due eventi culturali di grande rilievo: la mostra Techniques discrètes, organizzata a Parigi nel 1991, dall'ICE (Istituto Nazionale per il Commercio Estero) e dall'Assarredo, presso il Musée des arts décoratifs, sugli oggetti del d. italiano significativi per l'utilizzo di tecnologie e materiali innovativi (gli oggetti sono stati presentati in modo insolito, smontati, scomposti, sezionati e corredati da immagini relative al ciclo produttivo); e la mostra Mutant materials in contemporary design, inaugurata al MOMA (Museum of Modern Art) di New York nel 1995 e curata da P. Antonelli. La mostra, organizzata per famiglie di materiali (le plastiche, le ceramiche, le fibre e i compositi, le gomme e gli schiumati, il vetro, il legno e i metalli), ha messo in evidenza che la ricerca sui materiali è più avanzata nei settori delle attrezzature sportive e dei mezzi di trasporto, ma in realtà ha aperto spazi interessanti anche per materiali tradizionali come il legno e il vetro.
Il d. delle attrezzature sportive ha avuto un grande impulso produttivo per il trasferimento di tecnologie da altri settori, come, per es., quello aeronautico. Le alte prestazioni che molte di queste attrezzature offrono sono state il frutto di una progettazione attenta alla combinazione tra sperimentazione di nuovi materiali e ottimizzazione della forma. È particolarità di questo d. l'aver generato un'estetica dell'artefatto sportivo, caratterizzata da colori brillanti, contrasti molto forti, scritte grandi e dinamiche.
Sono da ricordare il progetto del coordinamento grafico della Nordica (Ski boots e Ski Nordica kastle, 1991-92) di G. Galli; il corpetto per motociclisti e sciatori Safety jacket del 1994 per la Dainese, e il progetto del casco regolabile da bicicletta (1995-96), disegnati entrambi da Sadler; le pinne da sub, in resina poliuretanica liquida, Tan delta force fin del 1994, disegnate da B. Evans; la scarpa da corsa Instantpump fury del 1994, progettata da P. Foley e S. Smith per la Reebok, che utilizza un materiale composito (graphlite) di derivazione aerospaziale.
L'innovazione tecnologica ha continuato a essere interpretata come un bacino di elementi linguistici cui attingere per costruire, attraverso un'adeguata grammatica, un vero e proprio linguaggio del d. High Tech. A differenza degli anni Ottanta, l'high tech di questi anni ha sposato quella tendenza trasversale verso la semplicità di cui si è detto. Il d. degli apparecchi per l'illuminazione, proprio per il suo contenuto tecnico, ha sviluppato maggiormente questo linguaggio; progetti significativi si ritrovano, tuttavia, anche in altri settori.
Si ricordano i prodotti della Luceplan presentati al salone Euroluce di Milano nel 1998: la lampada da tavolo Fortebraccio (A. Meda e P. Rizzato) e il sistema di lampade a sospensione Glass (P. Rizzato), caratterizzati da elementi che migliorano l'interazione con il fruitore. Interessante per la ricerca di nuove qualità ambientali è il programma di apparecchi di illuminazione Metamorfosi, presentato da Artemide nel 1996, e basato su una nuova tecnologia elettronica di variazione di intensità e di colore della luce artificiale per interni. Più tradizionale nel riprendere gli stilemi high tech è invece il sistema di proiettori per esterni Lingotto del 1993, prodotto dalla I Guzzini e disegnata da R. Piano in occasione della ristrutturazione dell'area del Lingotto a Torino. Il vano ottico asimmetrico, più contenuto rispetto ad altri proiettori, è interamente costruito in pressofusione di alluminio e trova nelle architetture delle testate dei motori il suo riferimento iconografico.
Negli anni Novanta la tecnologia applicata ha aperto nuovi spazi al design. La domotica (automazione domestica), per es., ha evidenziato il ruolo centrale del d. nella definizione delle interfacce tra le componenti tecniche, lo spazio architettonico e l'utente. Le innovazioni introdotte dalla rete telematica Internet hanno, invece, evidenziato aspetti progettuali legati sia alle problematiche di fruizione del nuovo mezzo di comunicazione (la navigazione semplificata da un attento 'd. delle interfacce'), sia ai nuovi comportamenti sociali (il telelavoro ha rivoluzionato la concezione degli spazi, non più distinti in luoghi per il lavoro e luoghi per abitare, e i comportamenti a essi associati).
Significativi sono i progetti della serie Living (1994) e della serie Light (1995) sviluppati dalla B-Ticino in risposta alle innovazioni nel campo della domotica. Le due serie, progettate da G. Zecca con la consulenza di C. Trini Castelli per lo studio delle qualità dei materiali, rappresentano un'innovazione sia per aver trasformato l'interruttore in un sistema complesso di 'componenti e comandi', sia per il d. complessivo, "più segnica e formale la prima, più leggera e 'grafica' la seconda" (Casciani 1995). Interessante come tipologia nata dalle esigenze del telelavoro è l'home-office, o ufficio domestico, che trasferisce le esigenze funzionali di uno spazio per il lavoro in un ambiente domestico. Il gruppo di designer finlandesi Valvomo si è posto l'obiettivo di applicare i concetti dell'era di Internet al design per la casa. Infine il loro progetto Netsurfer 'Classic', home-office coniuga le esigenze del lavoro al computer con l'esperienza rilassante di una seduta comoda come una sdraio domestica.
Il confronto con la componente 'immateriale' della vita quotidiana, sempre più ampia e influente se si pensa alla diffusione dell'informatica, ha indotto il bisogno di creare nuovi equilibri con la componente propriamente materiale, attraverso l'enfatizzazione delle caratteristiche tangibili degli artefatti: la forma, la finitura, il colore e in alcuni casi anche l'odore sono divenuti elementi significativi, addirittura centrali per l'arricchimento dell'esperienza dell'oggetto negli ultimi anni Novanta.
Vanno segnalati, per es., i prodotti di R. Lovegrove caratterizzati da morbidezza e piacevole tattilità, tra cui gli accessori per computer disegnati per la Knoll nel 1994, e la macchina fotografica Eye per la Olimpus (1995); la biscottiera Mary biscuit del 1995, disegnata da S. Giovannoni per Alessi, con il tappo profumato al gusto di vaniglia; i prodotti di Droog design come il Soft vase (1994), un vaso da fiori morbido in resina poliuretanica, disegnato da H. Jongherius; la morbida lampada Soft lamp (1997), disegnata da A. Brekveld in PVC termoresistente e il lavandino in pezzi di feltro cuciti e impermeabilizzati disegnato da D. van Hoff; gli oggetti prodotti dall'azienda inglese Inflate, come la lampada gonfiabile in PVC (1995) e la Longue chair (1997), realizzata con cuscini gonfiabili in PVC su struttura in acciaio, disegnate entrambe da N. Crosbi.
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