Devianza
Si indicano come devianti i comportamenti che implicano una trasgressione rispetto ai modelli culturali prevalenti di un gruppo sociale, in una direzione disapprovata dalla comunità e con un'intensità tale da superare la soglia di accettabilità sociale della deviazione stessa, propria di un contesto e di un'epoca particolari. Le manifestazioni della devianza possono riguardare la condotta sociale, e si parla allora in qualche caso di disadattamento, possono concernere la messa in atto di comportamenti che le leggi sanzionano in quanto reati (definiti spesso nel linguaggio comune come atti delinquenziali), o all'opposto configurarsi come trasgressioni ritualizzate; possono infine riguardare l'aspetto fisico e lo stato di salute sanciti dai modelli culturali di riferimento: si parlerà allora in questo caso di mostri, anomalie e malattie.
l. Norma e devianza
Le nozioni di norma e devianza, concepite per inscrivere individui, corpi o comportamenti dentro l'ordine di un discorso scientifico, morale o religioso, non sembrano a un primo esame ovunque le stesse, e anche nel medesimo contesto socioculturale sono mutati i saperi e le pratiche ai quali veniva attribuito il compito di istituire queste categorie e i corrispondenti principi normativi. Nel costruire la loro delimitazione e la loro reciproca articolazione, ogni società rivela pertanto la sua cifra più segreta, la struttura sulla quale fonda il proprio funzionamento. Definendo i modelli del giusto comportamento insieme a quelli della cattiva condotta, è come se ogni cultura dicesse all'individuo: "non devi farlo, ma se lo fai, ecco come devi farlo" (Devereux 1970).
Il profilo dell'uomo normale, la misura e le qualità che ne definiscono lo statuto, sono d'altronde desumibili solo a partire dall'indagine e dalla comprensione di quelle ombre che ne assediano costantemente l'opera: come se la devianza, comunque definita, non si lasciasse mai del tutto respingere nell'insignificanza statistica, ma, al contrario, costituisse il presupposto stesso della norma e dei suoi valori. Questi sembrano infatti misurarsi di continuo proprio con l'eccezione, con quelle figure di criminali, individui improduttivi e idioti che hanno percorso le sale dei tribunali o i gabinetti medici: quasi che solo in questa prossimità la legge e la regola riprodotte nelle condotte sociali o inscritte nei corpi potessero trovare il loro fondamento.
Era questo, sostanzialmente, il modello elaborato, agli inizi del 19° secolo, da F.-J.-V. Broussais e C. Bernard, per i quali la fisiologia dell'organismo umano poteva essere compresa solo a partire dallo studio delle irregolarità e della patologia, tra la prima e quest'ultima non essendovi distinzione assoluta; non diversamente pensava S. Freud: la verità della psicoanalisi è un uomo rivelato nella totalità del suo essere solo dalla malattia, dal lapsus, dal sintomo. Così infine hanno proposto G. Canguilhem e M. Foucault, per i quali i rispettivi saperi (medico e giuridico, in particolare) hanno potuto costruire il mondo della norma e, insieme, la propria ideologia e il proprio potere appunto dalla preliminare definizione e regolamentazione della devianza e della marginalità.
I due termini, norma e devianza, inestricabilmente connessi l'uno all'altro, schiudono dunque l'aporia costitutiva di esperienze e conoscenze, di discorsi e di valori la cui logica antinomica è stata talvolta immaginata come naturale. Ha osservato P. Bourdieu a tale proposito che "le categorie di percezione del mondo sociale, essendo conformi alle divisioni dell'ordine costituito [...], si impongono con tutte le sembianze di una necessità oggettiva" (Bourdieu 1979, trad. it., p. 466). Il carattere di naturalità, di autoevidenza che riconosciamo alle norme e alla realtà sociale, così come ai codici culturali che regolano il comportamento, sarebbe allora solo il riflesso di una particolare organizzazione di gerarchie, fatti e rapporti, di un sistema di distinzioni e classificazioni che ordina (o meglio istituisce) il mondo umano e morale così come viene esperito e riprodotto.
Etimologicamente trasgredire significa 'passare oltre' e deviare 'allontanarsi dalla via'. I limiti oltrepassati dalle devianze incarnate nel corpo o agite da comportamenti trasgressivi non possono essere però identificati soltanto con i vincoli fissati dalle norme scientifiche o dai valori estetici e morali propri di una certa società. Le eccezioni sono qualcosa di più del semplice rovescio della norma o della storia: a quest'ultima esse sembrano imprimere il suo stesso movimento. Che l'anomalia o la devianza siano state pensate spesso come il peculiare motore della vita e dell'evoluzione trova infatti conferma nei molti miti che proprio in un atto di trasgressione, o semplicemente nella rottura di una consuetudine, situano l'origine della vita sociale o dell'esistenza stessa e dei suoi inesorabili cicli.
È il caso di un mito tini dama (Papua-Nuova Guinea), che racconta come le donne, prive di sesso, concepivano un tempo per opera di spiriti della foresta e non conoscevano la morte sino al momento del parto, quando il feto doveva lacerarne il ventre per venire alla luce; una ninfa ebbe pietà d'una di esse e le perforò il grembo con un bambù; sopravvissuta al parto, la donna insegnò agli uomini l'amplesso, insieme al quale comparvero nel mondo il furto e l'omicidio; le donne avevano però cessato di morire, con grande dispetto dell'orca Bana che, non paga di divorare i neonati, cominciò a uccidere le donne; quando finalmente venne anche il suo turno, il coltello che ne attraversò il ventre lo fece scoppiare in pezzi: i brandelli volarono in cielo diventando stelle, il clitoride luna. Bana-volta notturna chiama da allora le donne ogni 28 giorni facendole sanguinare e morire un poco, sino alla menopausa, quando comincia la vera agonia (Zolla 1994, pp. 174-75).
Altrettanto eloquenti sono i miti tatuyo (Amazzonia) che narrano come l'incesto fra Luna e sua sorella abbia causato il primo morto e, di seguito, dato origine al sapere degli sciamani, o quelli africani che ricordano come siano stati il primo furto, la prima menzogna, la violazione di un interdetto ad aver introdotto la morte fra gli esseri umani. Una trasgressione avrebbe costituito dunque l'universale premessa perché al disordine dell'origine si sostituissero poi le regole sociali.
Per meglio decifrare il senso di quei limiti che conferiscono alla devianza il suo valore sociale e simbolico, come pure l'ambiguo significato di trasgressioni che sembrano avere come paradossale effetto proprio la legittimazione e la riproduzione sociale delle norme, è perciò necessario riflettere sulla mutevole percezione e rappresentazione di trasgressioni e devianze, non meno che sulla dimensione indicibile, in qualche caso intollerabile, alla quale sempre esse alludono. Quando si pensi al corpo, ai suoi gesti e ai suoi ritmi, alle sue misure, la devianza che vi si manifesta sembra cancellare in primo luogo qualsivoglia differenza fra soggetto ed enunciato: il corpo è già, in un medesimo tempo, discorso e oggetto di discorso, soggetto e oggetto di memoria, segno e superficie d'inscrizione.
Il suo essere materiale ne fa il luogo per eccellenza della devianza persino più di quanto non possano fare i comportamenti: questi sembrano anzi poter essere ricondotti, in buona parte e comunque nella loro essenza, a una devianza che sempre e necessariamente si esprime nel corpo, nei suoi organi, nella sovversione di quell'ordine immaginario che ha ispirato tante analogie fra cosmo e organismo umano o fra società e corpo individuale.
Se il corpo è il luogo nel quale convergono e parlano tutte le devianze possibili (quelle naturali, prodotte dalle imprevedibili increspature che introduce il caso nelle leggi della natura, quelle rituali (v. oltre), quelle infine che la legge identifica come atti di ribellione), esso ha costituito specularmente anche il territorio privilegiato per l'esercizio di norme igieniche o di condotta, di logiche repressive e coercizioni rivolte a regolare e ricondurre a misura un corpo sempre prossimo a tradire gli ideali etici della tradizione e mostrare i segni del sovvertimento, bisognoso di continua 'manutenzione'.
Lo sviluppo di scienze come la callistenia, che s'incarica di dare forme armoniose al corpo, della cinesiologia, che vuole educarne i movimenti, e più in generale il moltiplicarsi dei manuali di ginnastica, testimoniano alla fine del 19° secolo lo sforzo di razionalizzare un corpo il cui equilibrio sembra potersi incrinare fra i nuovi ritmi di vita imposti dai processi di massiccia industrializzazione e inurbazione. Allo sguardo dello scienziato, come a quello del moralista, ogni piccola deflessione dalla norma attesa, suggerita o prescritta, viene a costituire allora un segnale d'allarme. Ma le norme igieniste, preoccupate di costruire una mente e un corpo produttivi, misurarne la fatica e l'energia nel corso del lavoro, colgono anche nella semplice inerzia il significato di una possibile ribellione che rischia di far inceppare l'ordinata grammatica che coniuga bisogni e desideri, fatica e riposo, rinuncia e piacere. L'otium ha rappresentato a lungo una zona ambigua dove medicina, dottrina morale e religione si sono sovrapposte contendendosi la sua definizione e il suo trattamento.
Nel trattato Médecine des passions (1848), che fa esplicita menzione dell'utilità di trovare un accordo fra questi diversi saperi, J.-B.-F. Descuret accosta alla pigrizia la scioperatezza, l'inerzia e l'ozio, tutti in varia misura 'flagelli sociali': il pigro diventa oggetto d'attenzione del legislatore perché incline al vizio, al furto e all'omicidio. Nell'apatia, nel silenzio, nella ruminazione mentale sembra potersi sviluppare un'inquietante separazione dal mondo. Andando a ritroso nell'immaginario comune e scientifico si trovano segni di questa minaccia nella rappresentazione del malinconico: nel suo corpo sconvolto dagli umori si celava una eccezionalità preoccupante che, se da un lato aveva condotto a identificare nei secoli precedenti genio e malinconia, dall'altro lasciava presagire sotto le spoglie del male la possibilità di un corpo e di uno spirito ribelli. È forse in relazione a questo aspetto che, nel Libro delle Fondazioni, s. Teresa d'Avila aveva suggerito di associare alle cure per questo male 'astuto' che era la malinconia il ricorso alla paura e perfino ai castighi, invitando a proibire di pronunciare nei monasteri anche solo il nome di una malattia che sembrava implicitamente suscitare l'idea di libertà.
Corpi malati, quelli dei malinconici, disarmonici nella loro 'inerzia morbosa' che fa da contrappunto a un'attività mentale troppo rapida, da curare ma anche da governare perché - ostinatamente recalcitranti alla disciplina del tempo e del dettaglio - essi infrangono la norma sociale e sono percepiti come la fisionomia stessa dell'antagonismo. L'indifferenza verso il mondo, propria di queste condizioni, la distanza da una vita collettiva e sottomessa alla 'regola' rappresentano infatti un pericolo per la norma e per il potere: interrogati e messi in discussione in minor misura dalla critica dei loro fondamenti o dall'aperto dissenso piuttosto che dal vagabondaggio di spiriti erranti, dal non-senso della loro inerzia. Se i corpi apatici e silenziosi sono di per sé disobbedienti, si può meglio comprendere perché il potere abbia sempre sollecitato i corpi, esaltato le loro energie per poi assoggettarle o renderle spettacolari (dunque immaginarie): il potere non tollera nei corpi la resistenza e il silenzio, né permette che si producano oltre una certa soglia nicchie sociali sottratte al suo sguardo.
L'impegno profuso nel definire nuove rappresentazioni della salute, dell'igiene e della norma nell'Europa del 19° secolo, porta dunque a compimento, su un versante speculare, i tentativi di razionalizzare e categorizzare quell'insieme confuso e oscuro che nei secoli precedenti aveva caratterizzato lo spazio della malattia, della follia e della marginalità. Fino alla fine del 18° secolo vagabondi, mendicanti maleodoranti e folli si confondono in uno spazio dominato da ombre, abitato da esseri umani temuti che, nel luogo caotico di un'alterità minacciosa, figurano ciò da cui si chiede d'essere protetti. Nel 1790 una legge francese associava ancora folli e bestie feroci, affidando ai corpi municipali l'incarico di rimediare agli "spiacevoli incidenti che potrebbero essere causati dagli insensati o dai furiosi lasciati in libertà, e dall'aggirarsi di animali nocivi e feroci" (Foucault 1963).
I corpi devianti sono qui semplicemente corpi non più riconoscibili come umani, inquietanti perché estranei e familiari a un tempo. Sebbene non possa essere trascurata la differenza fra senso comune, linguaggio giuridico e discorso medico (che, in quegli stessi anni, comincia ormai a produrre distinzioni diagnostiche e differenze), sembrano essere ancora presenti in quel decreto tracce di un antico topos che, in culture diverse, assimilava alla ferinità i corpi e i destini di profeti, eremiti, eroi folli: confusi con le bestie a condividere lo spazio non addomesticato dalla cultura e dalla coscienza. Non solo la follia, ma anche la malattia fisica (tanto più quanto più il corpo viene segnato dai suoi effetti devastanti) testimonia di trasgressioni o eccessi, talvolta commessi dai propri ascendenti e che, lasciati nell'incertezza di una definizione spesso prevalentemente morale, sono per ciò stesso più difficili da confutare. Nel corso dell'Ottocento tubercolotici e lebbrosi abitano ancora questa zona indefinita dell'immaginario dove segregazione, illiceità e piacere effimero sono in pari misura distribuiti.
Tara e degenerazione contribuiscono così a delineare nel 19° secolo l'incerto paradigma che colloca il folle, l'epilettico, il sifilitico, il mattoide alla confluenza di colpa e istinti atavici, permettendo di far convergere le parole dell'antropologia fisica e quelle della psichiatria in un comune punto di osservazione da cui finalmente misurare e delimitare alterità e devianza. Malattie e deformità come metafore di un ordine tradito, corpi dai quali la vita fugge giorno dopo giorno in conseguenza di un errore: sono immagini che scandiscono tempi e culture senza troppe distinzioni. Oggi sono altri i mali nei quali si vuole cogliere il segno di una maledizione che si abbatte sui corpi e rende visibile il prezzo di una trasgressione, di un eccesso sanzionati dalla natura ancor prima che dalla legge (un esempio per tutti: l'AIDS).
Ma l'atto deviante, nella stessa misura in cui minaccia o turba, evoca anche la presenza di una segreta fascinazione o, secondo i casi, di una verità inenarrabile che schiude un'altra pista, non meno complessa e tuttavia rivelatrice. A cercare nel significato di termini come monstrum, si respira infatti un'aria di famiglia fra corpi mostruosi ed eventi singolari, devianti in ogni caso rispetto al corso naturale dei fatti e delle cose, nel loro insieme portatori di un senso il cui riconoscimento non è nel potere dell'uomo comune: tali occorrenze, dotate per gli antichi di significati particolari, preannunciavano o ammonivano, invocavano comunque una decifrazione da parte degli esperti. Anche etimologicamente il senso del monstrum era meno connesso all'idea di deformità che non a quella di annunzio o di avvertimento divino.
Corpi perturbanti e devianti per eccellenza, nel difetto o nell'eccesso, i mostri sembrano così sfidare l'ordine naturale e, insieme, l'ermeneutica. Testimoni della trasgressione nella loro stessa forma, essi attivano un meccanismo paradossale. Se infatti chiedono una decifrazione e una collocazione nell'ordine delle cose, lo scandalo della loro forma condanna tuttavia ogni tentativo classificatorio a una precarietà indomabile: la tassonomia dei mostri rimane di fatto impossibile, come ogni tassonomia dell'anomalia. Ma i mostri esibiscono con la loro sfida morfologica anche un ulteriore profilo, forse quello più oscuro: in essi si avverte cioè il germe di una crisi che si estende a ogni possibile partizione (umano/inumano, visibile/invisibile, animato/inanimato, vivo/morto). Considerati in questa prospettiva, i mostri, come in fondo ogni atto di devianza, incarnano la caduta dei confini, sono l'epifania e insieme la conseguenza di un'ibridazione intollerabile fra domini della natura: confusione prodotta dal caso o, più spesso, dalla violazione di un tabu (come nel caso dell'incesto, o dell'unione illecita tra esseri umani da un lato e divinità o animali dall'altro).
Non molto diversamente, anche il divieto che impedisce l'unione fra membri di caste diverse intenderebbe impedire un altro tipo di confusione e di mescolanza: la trasgressione sarebbe equivalente in questo caso a una 'trasversalità sociale', a un nomadismo inquietante che rimette in discussione la sintassi dello scambio e i confini fra ordini clanici fondati sul principio dell'organizzazione e distribuzione della terra.
La trasgressione non è mai puro trionfo dell'anarchia: è essa stessa sottoposta a regole, animata da una logica, normata in alcuni casi sino al paradosso. Nella trasgressione non viene celebrata la libertà ma piuttosto il suo limite, glorificato e nuovamente rappresentato proprio nel tempo in cui il suo attraversamento è consentito o prescritto. La devianza, la trasgressione, diventano allora machines à penser, necessarie all'ordine sociale, non diversamente da quanto fa la logica aleatoria della divinazione quando si misura con l'imprevedibilità del divenire.
Nelle feste comandate, come ricorda questo stesso attributo, le trasgressioni vengono ordinate (Bataille 1957), gli eccessi del corpo accolti, favoriti e attesi, segnalando come un insopprimibile bisogno di consentire un'ordinata illiceità, la cui ambiguità viene appena dissimulata: è solo ai sovrani e alle divinità che tutto veniva concesso, persino l'incesto. Quelle trasgressioni ci dicono dunque che, in sé, esse non hanno nulla di sovversivo: la loro ripetizione conferma che sono previste entro i confini di una legge, all'interno di un dispositivo di cui il potere mantiene per intero la regia. Ma se la trama stabilita, una volta riconosciuta, ci permette di cogliere il senso in cui vanno a collocarsi riti specifici, ciò non autorizza certo a concludere che ogni devianza rituale abbia una sua funzione precisa (e un lieto fine).
Il significato di un comportamento deviante ritualizzato non costituisce, in altri termini, una strategia rivolta al puro mantenimento (consapevole o inconsapevole poco importa) della coesione sociale, alla riconferma di ruoli e gerarchie o alla stabilità del potere: nelle trasgressioni prescritte non è mai esclusa la possibilità che i rituali falliscano, che la loro funzione non venga rispettata. La dimensione arbitraria che sempre caratterizza i simboli (non il loro uso però, o la concatenazione con i fatti della vita quotidiana), lascia in tal modo ipotizzare - nelle cerimonie che celebrano forme di violenza e di devianza rituale - sia l'evocazione di memorie collettive, sia una celebrazione fine a sé stessa della trasgressione e della violenza, che "l'impresa rituale mira a regolare [costruendo una] tecnica dell'acquietamento catartico" (Girard 1972, trad. it., p. 147).
I mostri erano corpi devianti in virtù della loro sfida morfologica ed ermeneutica. Per una ragione non dissimile lo sono i corpi 'travestiti' nei conflitti dell'identità di genere, nei quali l'inversione sessuale non è celebrata e risolta attraverso il rituale ma, dolorosamente goffa e smisurata, è rivolta a catturare il significato stesso della femminilità o della mascolinità. La devianza, come mostrano le tecniche di disciplinamento e di coercizione sviluppatesi nel corso del tempo, è però inscritta anche all'interno di ben più conflittuali e materiali rapporti di forza, funzionale a una dichiarata esigenza produttiva che necessita di corpi docili. L'esuberanza sessuale o il libertinaggio, per es., rappresentavano nel 17° e 18° secolo una minaccia non più soltanto morale e non tanto per i doveri privati (quelli coniugali) quanto per quelli presi con il pubblico.
I trattati sull'onanismo, i manuali rivolti a elaborare il modello della buona famiglia e a porre elementari regole di eugenetica segnano, a questo riguardo, una vera svolta. Essi esprimono infatti la volontà, da parte dello Stato, di occuparsi della vita degli individui, dei loro corpi e delle loro abitudini, della religione e della sicurezza pubblica, e reciprocamente riconducono in modo esplicito questa cura al bisogno che lo Stato moderno ha di individui sani, vigorosi, in grado di lavorare, di riprodursi o di andare in guerra. È questo lo scenario caratteristico delle società industriali, dove la selezione naturale delle specie prospettata dal modello darwiniano e la logica dei nuovi modi di produzione sembravano concorrere a definire, in piena armonia, tempi e scopi delle nuove strategie di disciplinamento.
Nel secolo in cui si afferma la psicologia, la volontà di disciplinare anime e corpi si va facendo più sofisticata, potendo ora contare sui numeri della statistica, sulle misure di crani e corpi, su più complessi rituali discorsivi che, ispirandosi al modello della confessione, rivelano un nuovo desiderio: parlare di sé. All'interno di questo orizzonte sociale e culturale, antagonismo, ribellione e critica sociale offrono a una giovane scienza, l'antropologia criminale, materiali per affermare il paradigma del deviante come di colui che incarna lo spirito d'insubordinazione contro la legge del lavoro.
Quando C. Lombroso si preoccupa nell'Italia postunitaria dei troppi riformati che provengono dalle regioni meridionali, di quei corpi inabili alla guerra e allo Stato, esprime l'angoscia - comune a molti medici militari in quegli anni - di trovarsi di fronte a una nuova patologia sociale che sembra confermare in tutto i suoi modelli. Nasceva qui l'urgenza di una medicina politica che pretendeva farsi prevenzione e tracciava una 'geografia nosologica' nella quale nuovamente il corpo sembra sostenere, con i suoi segni (asimmetrie craniche, tatuaggi, differenze razziali ecc.), l'individuazione clinica e oggettiva del diverso e del deviante. Il criminale e il folle definivano così, agli inizi del 20° secolo, le polarità sempre prossime a incrociarsi e sovrapporsi di un'ideologia del controllo sociale totale il cui nucleo duro e residuale sopravvive ancora nell'epoca contemporanea (Basaglia-Basaglia Ongaro 1971).
Nel complesso e disordinato panorama disegnato dall'economia capitalistica postindustriale, le figure del deviante o della 'personalità antisociale' coincidono però solo in parte con quelle che, sino a un recente passato, venivano prevalentemente identificate in rapporto alla loro incapacità di partecipare alla vita produttiva e allo scambio sociale. Mutati i tradizionali dispositivi di esclusione e di marginalizzazione, vagabondi, improduttivi e delinquenti sembrano essere diventati infatti assai più prossimi di un tempo, mescolati a quanti vivono costituendo non più i margini o l'eccezione ma la regola, appena dissimulata, di un ordine sociale dominato dagli effetti perversi dell'individualismo e dalla lenta dissoluzione del legame sociale.
La cura con la quale il corpo viene oggi corretto, mascherato, tatuato, sottoposto a cosmesi non è dunque solo espressione del narcisismo che contraddistingue le nostre società, ma anche della diffusa preoccupazione di assicurare al corpo normale una visibilità e una riconoscibilità - una identità - non più scontate. In questo stesso senso va letta la recente preminenza teorica assunta dal corpo, del quale si riconosce unanimemente la sua duplice natura di oggetto materiale e categoria discorsiva, luogo di attività produttiva e metafora (con i suoi disordini) di conflitti sociali e culturali.
La possibilità di pensare l'alterità e dialogare con essa, dischiusa dalle scienze psicologiche del 19° secolo diventa così - quando situata all'interno del registro corporeo - la difficoltà pratica di potervi sempre distinguere la norma dalla devianza. Il controllo sociale, che un tempo si esercitava prevalentemente attraverso la coercizione e la prescrizione di norme comportamentali o estetiche e la puntuale sanzione delle trasgressioni, ora si perpetua sotto forme impreviste e paradossali che esercitano sui corpi non meno sottili strategie di assoggettamento.
La spettacolarizzazione dei corpi, il controllo dei processi di invecchiamento, le nuove tecnologie riproduttive e la diffusa medicalizzazione dell'esperienza quotidiana ne rappresentano le forme più esemplari, speculari alle immagini di barboni ostinati e muti, di corpi infecondi, di estetiche estreme e trasgressioni che nel silenzio (o nel gesto tragico, come accade per la tossicodipendenza) erodono quello che resta del legame sociale e i discorsi di una razionalità fragile, intollerante o prematuramente abdicata.
I malati di AIDS costituiscono, di queste derive, una metafora particolarmente eloquente: indifesi o agonizzanti, i loro corpi sono tuttavia contagiosi e minacciano il problematico confine che separa in ogni cultura la purezza dalla contaminazione, dunque dal pericolo (Douglas 1966). Ma essi attivano - nel corpo collettivo - anche altre inquietudini, mostrando l'impotenza della medicina e operando un'inconsapevole critica della modernità. Tutto questo prelude a una nuova rappresentazione del corpo deviante, dell'eccentrico, dell'anomalia che, con la loro incoercibile ambiguità, alludono oggi meno all'al di là del limite e della regola, all'oltre rappresentato dalla trasgressione, quanto piuttosto alle contraddizioni e ai limiti insiti nei nostri modelli di vita.
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