devianza
Comportamento non conforme alle norme
La devianza è la condotta di chi viola le regole giuridiche, religiose, morali o sociali della comunità in cui vive. Spesso vengono etichettati come devianti anche i comportamenti diversi da quelli accettati dalla maggioranza. Poiché norme e modelli di condotta variano nello spazio e nel tempo, un comportamento che in alcune culture ed epoche storiche è considerato deviante e quindi punito o oggetto di riprovazione, in altre sarà considerato 'normale' e socialmente accettato. Al concetto di devianza è legato quello di controllo sociale: la devianza è percepita come una minaccia per la collettività e per neutralizzarla vengono messi in atto meccanismi di prevenzione, repressione e punizione
In ogni società esistono complessi di norme, regole e modelli di condotta imposti dai sistemi del diritto, della religione e della morale, oppure accettati e riconosciuti come giusti e 'normali' dalla società. Chi infrange queste regole, rifiuta questi modelli di condotta o non li adotta viene etichettato come deviante. Tradizionalmente sono o sono state considerate forme di devianza la criminalità, la delinquenza giovanile, la violenza, il suicidio, l'abuso di droghe, l'alcolismo, l'omosessualità, la malattia mentale.
Esistono diverse forme di devianza a seconda del tipo di norme che viene infranto: giuridico, religioso, morale, sociale. Inoltre, poiché i sistemi del diritto e della morale e i modelli di condotta ritenuti socialmente giusti e accettabili variano nelle epoche e culture, anche i tipi di comportamento considerati devianti mutano nello spazio e nel tempo. Si potrebbe dire che uno stesso atto, compiuto nello stesso identico modo e con le stesse conseguenze materiali, è considerato o meno deviante a seconda che esista o no una regola che lo proibisce.
La devianza in tutte le sue forme è sempre percepita come una minaccia e un pericolo per la società, e quindi innesca diversi meccanismi di controllo sociale che hanno lo scopo di neutralizzare questa minaccia: i soggetti devianti vengono spesso isolati dal resto della comunità (per esempio, con la segregazione nelle carceri e nei manicomi) oppure sono oggetto di condanna morale, di riprovazione ed esclusione sociale.
Molti studiosi, in diverse epoche e con diverse metodologie, hanno cercato di spiegare le cause della devianza. All'inizio del Novecento un gruppo di medici, psichiatri e penalisti di varie nazionalità come Cesare Lombroso, Raffaele Garofalo, Enrico Ferri, Ernst Kretschmer e William Herbert Sheldon tentarono di stabilire un rapporto tra aspetti fisici e mentali e alcune tendenze alla criminalità. Un approccio analogo è stato adottato di recente anche da coloro che riconducono la devianza a disfunzioni di carattere endocrino, a malattie o a malformazioni congenite, attribuendole a volte anche un carattere ereditario. Su questa teoria, peraltro, sono state avanzate molte riserve, perché è difficile dimostrare che esiste una relazione di causa ed effetto tra caratteristiche biologiche e comportamenti devianti.
Un altro tipo di spiegazione della devianza la riconduce a cause psicologiche. Nonostante le loro diversità, gli approcci psicologici alla devianza mettono sempre in relazione i comportamenti considerati devianti con la struttura della personalità.
Non sono mancati i tentativi di ricondurre la devianza a cause economiche. La miseria è stata spesso considerata una causa determinante di molti comportamenti devianti fin dalle prime analisi degli economisti classici; per esempio Adam Smith e David Ricardo indicavano l'indigenza come causa di comportamenti abnormi quali prostituzione e alcolismo. Al giorno d'oggi le difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro o la precarietà degli impieghi sono considerate ancora tra le principali cause dell'instaurarsi di condotte devianti.
L'approccio sociologico alla devianza analizza questo fenomeno nei termini di una 'malattia sociale' frutto della disintegrazione tipica delle grandi aree urbane. I primi studi su questa malattia sociale di alcuni quartieri delle grandi aree urbane furono condotti negli Stati Uniti, intorno agli anni Venti del 20° secolo, dalla cosiddetta Scuola di Chicago. Secondo gli esponenti di tale scuola la devianza nasce e si rafforza in alcuni quartieri 'ghetto' tra i gruppi di emarginati; all'interno di questi gruppi i comportamenti contrari alle regole sociali vengono interiorizzati e considerati 'normali', in quanto condivisi e accettati da tutti i loro membri. I comportamenti contro le regole della società diventano quindi stili di vita trasmessi culturalmente di generazione in generazione. Nascono così le cosiddette subculture devianti.
Una particolare teoria della devianza è stata sviluppata dal sociologo americano Robert K. Merton, secondo il quale in una società che dà la massima importanza al successo personale e al raggiungimento di traguardi cui tutti dovrebbero aspirare ‒ e che tuttavia possiede una struttura che non offre a tutti uguali opportunità o uguali mezzi per raggiungere questi traguardi ‒ si determina una tensione permanente. La risposta più comune a questa situazione sarà sempre il conformismo, cioè l'accettazione dei mezzi legittimi e culturalmente prescritti (come l'impegno individuale), nonché dei traguardi approvati. Esistono però anche risposte devianti, le cui forme più importanti sono l'innovazione e la rinuncia. L'innovazione consiste nel perseguire i fini culturali prescritti (in particolare il successo materiale), facendo però uso di mezzi illegittimi (per esempio il furto, la frode, la violenza); la rinuncia (una categoria di comportamenti nella quale Merton include gli adattamenti devianti come il suicidio, la malattia mentale e la tossicomania) consiste nel rifiuto sia dei fini prescritti sia dei mezzi convenzionali.
Alla teoria di Merton si ispirano quegli approcci che considerano la devianza come un problema di classe. Il disadattamento, cioè, fiorirebbe tra gli strati inferiori della società in cui, fin da bambini, gli individui si trovano in conflitto con obiettivi propagandati dalla classe media come possibili per tutti e che invece potranno essere raggiunti solo da pochi. A scuola, nel tempo libero, nel lavoro, i ragazzi della classe sociale più svantaggiata pensano che non potranno mai conseguire determinate mete; per garantirsi un minimo di prestigio e di autostima essi si rivolgono quindi alle mete e ai mezzi che la loro classe sociale offre, e che spesso sono in contrasto con le regole della società.
Tra i meccanismi di controllo sociale che hanno lo scopo di neutralizzare la devianza in quanto minaccia per l'ordine e la stabilità della collettività, oltre alla prevenzione e alla sanzione ‒ cioè la punizione più o meno severa dei comportamenti devianti ‒ vi è la riprovazione sociale, o stigmatizzazione: una forma di biasimo e di condanna che 'marchia' il soggetto deviante (il termine greco stigma indicava infatti il marchio impresso a fuoco sul bestiame o, come punizione, sugli schiavi fuggitivi). Questo atto di condanna produce molti effetti negativi nel soggetto stigmatizzato: a livello psicologico si osservano sentimenti di deprivazione, autosvalutazione, crisi d'identità, che a lungo andare bloccano il deviante nel suo comportamento e canalizzano sempre di più la condotta verso modelli non conformi. Talora questo comportamento è rafforzato dall'appartenenza e dalla partecipazione a gruppi in cui la devianza è l'essenziale ragione di vita. Per questo accade frequentemente che il deviante venga escluso anche da gruppi e attività per i quali la devianza non dovrebbe essere motivo sufficiente di esclusione, per esempio dal lavoro. Bollato come 'diverso' e come tale condannato, il deviante viene isolato dalla società in quanto considerato incapace di integrarsi conformemente alle regole.