Devianza
A differenza di molti concetti della sociologia ('status', 'società', 'classe sociale') e delle scienze sociali in genere ('povertà', 'personalità', 'democrazia'), il concetto di 'devianza' non viene usato, nella vita quotidiana, in modo ben definito o conforme all'uso specialistico. Di fatto il termine è utilizzato per indicare più una categoria sociologica che una categoria sociale; i rari contesti specifici nei quali esso è comunemente usato (per esempio 'devianza sessuale') aiutano poco a capire il suo significato più astratto e generale. Per questo motivo qualsiasi analisi del concetto di devianza deve cominciare tracciandone la genesi nell'ambito delle scienze sociali e in particolare della sociologia.
Le definizioni attualmente accettate di 'devianza' ('deviance', 'deviancy') ovvero di 'comportamento deviante' ('deviant behavior') sono utili per delineare il campo di ricerca, ma non esprimono la travagliata storia del concetto. Quasi tutte queste definizioni riflettono i punti di vista relativistico e interazionistico, secondo i quali la devianza non è una qualità intrinseca di un certo modo d'agire, ma un'interpretazione che se ne dà. Ecco alcune definizioni standard di devianza, riportate nei libri di testo: "comportamento che alcuni membri di una società trovano offensivo e che, in costoro, suscita - o susciterebbe, se fosse scoperto - disapprovazione, condanna o ostilità" (v. Goode, 1981, p. 25); "comportamento, idee o aspetti di uno o più individui che alcuni membri di una società - non necessariamente tutti - reputano sbagliati, cattivi, stravaganti, disgustosi, eccentrici o immorali: in altre parole, offensivi" (v. Higgins e Butler, 1982, p. 2); "qualsiasi comportamento considerato più o meno gravemente deviante dall'opinione pubblica" (v. Thio, 1988, p. 22).
Queste definizioni sono relativistiche, in quanto implicano l'ovvia constatazione che non si può compilare un elenco universale dei 'comportamenti devianti', poiché non tutti i gruppi sociali concordano su ciò che è normale e normativo. La devianza è un dato di fatto universale, in quanto inerente all'idea stessa di organizzazione sociale: non ci può essere organizzazione sociale senza regole e norme, e non ci possono essere regole e norme senza la possibilità di infrangerle o di deviare da esse. Ma non c'è un accordo universale sulla sostanza della devianza, non esiste un elenco standard di comportamenti considerati ugualmente devianti in tutte le società. Analogamente anche la reazione all'infrazione delle regole (il 'controllo sociale', come viene generalmente chiamata) è un dato di fatto universale, ma può assumere le forme più disparate: ostracismo, isolamento, terapia, ecc.
Le stesse definizioni sono anche interazionistiche, in quanto implicano, oltre all'ovvio elemento del comportamento (il fenomeno 'grezzo' puro e semplice), anche la reazione a esso (la definizione, l'interpretazione e la classificazione dell'atto in termini cognitivi particolari). La devianza, in altre parole, non è una qualità obiettivamente data dell'atto, ma è un'attribuzione soggettiva (o politica): è sempre il prodotto di un processo interattivo. Questa tesi (riflessa nelle definizioni sopra riportate) costituisce il messaggio principale lanciato dalle nuove sociologie della devianza affermatesi verso la metà degli anni sessanta (v. cap. 5).
Sostenere questa tesi significa respingere altre concezioni della devianza, che sono probabilmente più vicine al punto di vista suggerito dal senso comune e certamente più profondamente radicate nei vari sistemi organizzati per il controllo della devianza - sistemi pubblici, privati o professionali, legali, assistenziali o psichiatrici. Così il teorico più famoso di quel periodo, Howard Becker (v., 1963), prima di giungere alla concezione relativistico-interazionistica, respinge altre tre definizioni di devianza: quella che riduce la devianza a uno stato patologico, quella che la descrive in termini statistici e quella che l'identifica come condotta trasgressiva. Secondo la prima definizione, la devianza è una qualità 'intrinseca' di una persona o la qualità 'oggettiva' di un atto (questa definizione è insostenibile, perché i criteri medico-biologici obiettivi usati per stabilire stati di salute o patologici non sono evidentemente applicabili all'azione sociale, se non per vaga analogia).
In base alla seconda definizione, la devianza è uno scostamento da una distribuzione normale, in senso statistico (questa definizione è stata proficuamente utilizzata da diversi studiosi - v. Wilkins, 1964 -, ma chiaramente non tiene conto di un elemento fondamentale: il giudizio sociale negativo di disapprovazione). Secondo la terza definizione, la devianza consiste nell'infrangere regole e norme sociali stabilite, ovvero nel non seguirle. Solo questa terza definizione ha un significato sociologico. Il suo difetto è che ignora sia i numerosi atti che infrangono le regole, ai quali non si reagisce negativamente, sia (cosa di minore importanza) i casi di atti considerati devianti anche se non comportano alcuna infrazione di regole.
Becker pervenne dunque a una quarta definizione: la qualità della devianza consiste nella reazione sociale (etichettamento, codifica, denominazione, interpretazione, classificazione). La devianza diventa una categoria ambigua, variabile: la sua identità risiede nell'occhio dell'osservatore (una 'società' vagamente concettualizzata) piuttosto che nella sostanza dell'azione. Inoltre, considerando la devianza come uno status attribuito anziché conseguito, se ne estende la definizione fino a comprendere, oltre alle forme lampanti di infrazione delle regole, fenomeni in cui la natura della regola non è chiara (per esempio la malattia mentale) o il cui status è già di per sé svalutato (vecchiaia, handicap fisico, ritardo mentale, perfino l'appartenenza a una minoranza etnica): sono tutti casi di stigmatizzazione o di 'identità negata' (v. Goffman, 1963).
Dopo aver presentato una definizione ampia e deliberatamente aperta di devianza, analoga a quella proposta da Becker, i libri di testo standard o i corsi sull'argomento passano ad applicare la teoria implicita in tale definizione a tutta una serie di esempi.
Nonostante si ritenga, comunemente, che anche l'infrazione delle regole quotidiane costituisca una forma di devianza (per esempio cattive maniere a tavola, abbigliamento inadatto, indisciplina a scuola, violazione delle norme sessuali), i comportamenti addotti a esempi di devianza sono, in genere, quelli tradizionalmente etichettati come devianti, quelli pubblicamente 'costruiti' come problemi sociali. Esistono molte classificazioni differenti, ma quasi tutte comprendono: la criminalità, la delinquenza giovanile, la violenza, il suicidio, l'abuso di droghe, l'alcolismo, la malattia mentale, la devianza sessuale, ecc. Testi e corsi di studio influenzati dalle idee femministe e radicali mettono in rilievo esempi quali la violenza contro le donne, la devianza di élite e corporativa, gli abusi di potere e i crimini dello Stato.In genere ogni esempio è illustrato e analizzato precisando quattro punti:
a) la definizione del fenomeno (per esempio la 'violenza' o la 'devianza sessuale');
b) l'estensione e la struttura del fenomeno (la percentuale di diffusione, la distribuzione sociale);
c) le spiegazioni avanzate (le diverse teorie causali concorrenti, biologiche, psicologiche, sociologiche, economico-politiche, ecc.);
d) il controllo sociale del fenomeno (le principali forme di reazione sociale, rieducativa, punitiva, terapeutica, assistenziale, ecc.).
Quanto più tali testi (o corsi di studio o progetti di ricerca) sono sofisticati, tanto più è probabile che seguano il paradigma della reazione sociale per tutta la trattazione (anziché citarlo soltanto nel capitolo introduttivo, in sede di definizione). Attualmente si tende - sia nei libri di testo (v. Pfohl, 1985) sia nelle pubblicazioni specialistiche (v. Scull, 1988) - a studiare la devianza facendo costante riferimento al controllo sociale. È impossibile, per esempio, studiare la diffusione, le cause e le forme dell''abuso dei minori' senza riferirsi continuamente ai problemi duali della definizione e della individuazione. In altre parole: com'è definita questa categoria e come sono classificati i singoli casi/incidenti che rientrano in tale definizione?
I fenomeni specifici che costituiscono la nostra categoria astratta - la devianza - erano naturalmente già compresi in sistemi culturali che esistevano prima che la categoria stessa divenisse oggetto di studio delle scienze sociali. Termini come 'peccato', 'male' e 'immoralità' esistevano in sistemi religiosi, di tradizioni e di superstizioni premoderni o prescientifici, e continuarono a essere usati anche dopo che lo Stato moderno sovrappose a essi la propria potente terminologia legale e legislativa. Prima che fosse definito il concetto di 'crimine' esisteva il comportamento deviante, dannoso, indesiderabile, cattivo, problematico o peccaminoso; prima del concetto di 'ritardo mentale' c'erano le persone stupide, prima del concetto di 'depressione' c'era la tristezza e prima del concetto di 'alcolismo' l'ubriachezza.
La nascita di un discorso specificamente moderno sulla devianza risale a tre radicali trasformazioni che si verificarono verso la fine del XVIII secolo (v. Cohen, 1985, cap. 1):
a) l'attribuzione al concetto di 'crimine' di un ruolo egemone nella categorizzazione delle forme fondamentali di devianza, che rafforzò il potere del sistema legale centralizzato dello Stato moderno;
b) il prevalere di modi di controllo consistenti nella segregazione in istituzioni specializzate chiuse (prigione, ospedale psichiatrico, ecc.);
c) il perfezionamento dei metodi per classificare popolazioni e fenomeni devianti, ognuno col proprio sistema di definizioni e di spiegazioni (che cos'è 'questo'? che cosa lo determina?) e col proprio apparato burocratico e professionale.
Quest'ultimo sviluppo - il consolidamento delle forme moderne di potere/conoscenza (v. Foucault, 1981) - è cruciale. Noi interpretiamo tutte le forme di devianza ufficialmente riconosciute attraverso i tre principali schemi di regolazione e repressione: lo schema legale/giuridico, lo schema assistenziale e lo schema salute/malattia (v. Edwards, 1988). Gli scritti di carattere storico su questi temi (v. Cohen e Scull, 1983) trattano della nascita di schemi specifici: per esempio il manicomio e la prigione (v. Rothman, 1971; v. Foucault, 1976; v. Ignatieff, 1978), o il successivo complesso 'punizione e assistenza' (v. Garland, 1985). Altri scritti analizzano schemi contemporanei, come la 'decarcerazione' (v. Scull, Decarceration..., 1984), la 'medicalizzazione' (v. Conrad e Schneider, 1980) o la 'dispersione' (v. Cohen, 1985).
Sono studi che trattano dei conflitti di competenza e delle controversie 'interdisciplinari' circa la natura della devianza e il modo in cui reagire a essa. Alcuni tipi di devianza attraversano 'passaggi morali' (v. Gusfield, 1967), ovvero fasi successive in cui non solo sono sottoposti a forme di controllo differenti, ma sono anche percepiti in termini morali e cognitivi diversi. L'omosessualità, per esempio, è passata - in un arco di tempo relativamente breve - attraverso le fasi del peccato, del crimine, della malattia, della diversità e della liberazione.All'inizio del XX secolo i maggiori conflitti di competenza sembravano risolti: la devianza doveva essere di pertinenza di esperti e professionisti (operatori sociali, psichiatri, avvocati), e fu separata dalla questione più generale del potere politico. L'insieme delle attività assistenziali, educative, legali e terapeutiche riguardanti la devianza costituì un nuovo ambito 'sociale' (v. Donzelot, 1977), separato dal sistema politico.
La devianza criminale, per esempio, doveva essere spiegata dalla criminologia positivista, che 'sottraeva' il soggetto del crimine alle competenze dello Stato (v. Matza, 1964). Tutto ciò non impedì, comunque, che si continuassero a usare, per connotare la devianza, espressioni appartenenti al linguaggio della morale. I nuovi sistemi di potere/conoscenza non riuscirono a sottrarre le categorie devianti alla disapprovazione morale, alla stigmatizzazione e alla condanna sociale.
Ciò che resta di questa storia complessa figura nelle discipline accademiche delle scienze sociali (specialmente nella sociologia), che hanno fatto della devianza il proprio argomento di studio.Tra tutti i fondatori della teoria sociale classica, Durkheim fu quello che più chiaramente anticipò i problemi concettuali che sarebbero in seguito diventati di pertinenza della sociologia della devianza (e delle sue branche, come la criminologia). Il suo interesse pionieristico per la questione dell'ordine sociale lo condusse ad affrontare proprio quegli argomenti (la funzionalità della devianza, la relatività delle regole, la natura della regolamentazione morale) che poi divennero, come si vedrà, le questioni teoriche centrali della sociologia della devianza.
Nelle concezioni sociologiche della devianza Matza (v., 1969) individua tre contrapposizioni ricorrenti:
a) tra correzione (studiamo i fenomeni devianti perché vogliamo estirparli) e comprensione (il nostro interesse è capire, perfino empaticamente, i fenomeni devianti);
b) tra patologia (la devianza è una variante intollerabile e intrinsecamente indesiderabile della normalità) e diversità (la devianza è una variante, o un mutamento, tollerabile, che, per ragioni estrinseche, è considerata negativamente); c) tra semplicità (la devianza, in quanto scostamento dalla normalità, è un fatto ovvio) e complessità (la devianza è un fenomeno difficile da definire, dati i suoi rapporti talvolta paradossali con la normalità, cui spesso si sovrappone).Queste contrapposizioni figurano in ogni importante discorso sociologico sulla devianza.
La devianza era una questione di importanza cruciale per la prima generazione di sociologi, soprattutto americani e inglesi. Fenomeni come il crimine, la delinquenza e il 'vizio' erano considerati minacce alla moralità dominante e alle concezioni vigenti dell'ordine sociale. La devianza denotava un cattivo funzionamento dei sistemi di socializzazione primari/informali (la famiglia, la scuola, la moralità). Gli scienziati sociali appoggiavano movimenti di riforma miranti a rendere più efficienti, umane e 'progressiste' le istituzioni ufficialmente deputate al controllo sociale (correzionalismo). Le loro teorie si basavano sul paradigma della patologia e della semplicità. Questa "ideologia professionale dei patologi sociali" (v. Mills, 1943), col suo insieme di criteri morali assoluti in base ai quali valutare la devianza, con le sue teorie causali individualistiche o situazionali, con la sua riluttanza a pensare in termini politici o storici, dominò il pensiero sociologico per decenni.La Scuola di Chicago degli anni venti e trenta ereditò parte di questa ideologia, ma cercò di affrontare il tema della devianza in modo più 'scientifico' e meno moralistico.
I suoi seguaci usavano dati statistici (riportando la distribuzione dei tassi di devianza su mappe della città), ma furono anche i primi a utilizzare metodi etnografici: l'osservazione diretta, la ricostruzione di storie individuali, lo studio di singoli casi. Le loro descrizioni, molto dettagliate, delle bande giovanili, della criminalità organizzata, della prostituzione, del vagabondaggio, ecc. inaugurarono una tradizione metodologica duratura.
Questi resoconti, apparentemente tesi a suffragare una concezione della devianza come fenomeno semplice e patologico (un sottoprodotto indesiderabile dei rapidi mutamenti sociali, della mobilità sociale, dell'immigrazione, del conflitto fra culture, della crescita urbana), paradossalmente fornirono prove a favore della tesi della diversità e della complessità (v. Matza, 1969). La delinquenza faceva parte del 'crescere nella città'; vizio e criminalità organizzata erano pienamente integrati nell'apparato politico e in quello preposto all'applicazione della legge. La città era il laboratorio dove studiare tutto ciò, ed era la fonte del male.
I bassifondi della città - le 'zone di transizione' contrassegnate dalla precarietà, dalla mobilità, dalla marginalità - erano anche le aree dove risultavano più concentrate le categorie del degrado morale e della patologia sociale, dove si registravano le più alte percentuali di atti criminali, suicidi, divorzi, malattie mentali, casi di prostituzione, vagabondaggio, ecc.Queste correlazioni furono spiegate in tre modi: in termini di 'ecologia' (la crescita urbana crea 'ambienti naturali' favorevoli al costituirsi di rapporti simbiotici fra varie forme di devianza), in termini di 'trasmissione culturale' (le norme devianti vengono trasmesse da una generazione all'altra attraverso un processo di apprendimento), in termini di 'disorganizzazione sociale' (la devianza dipende dalla debolezza - in casi estremi dal crollo - delle forme tradizionali di controllo sociale di fronte ai conflitti fra culture, ai mutamenti sociali dirompenti e all'instabilità sociale).
I punti deboli della Scuola di Chicago sono stati rilevati già da tempo: il fatto di concentrarsi su micromodelli piuttosto che sulla struttura sociale, il fatto di basarsi su una nozione di disorganizzazione sociale affetta da circolarità logica (v. Downes e Rock, 1988²), ecc. Essa ha, comunque, fornito un contributo importante e tuttora valido allo studio della devianza: l'impostazione metodologica imperniata sulla descrizione puntuale e fedele degli universi devianti (stili, culture, carriere) inseriti nel contesto della vita urbana.
Il funzionalismo in auge dopo gli anni quaranta non era interessato né a una descrizione dettagliata degli universi devianti, né ad alcun tipo di assistenzialismo o correzionalismo. Tali questioni erano respinte come provinciali e riformiste, irrilevanti ai fini dello studio della società 'normale'. Richiamandosi alla teoria sociale europea classica (specialmente alle teorie di Durkheim e Weber), i funzionalisti si interessavano dei macromodelli dell'ordine sociale. Nella teoria di Parsons la devianza era uno scostamento dagli standard normativi, da spiegarsi in termini di socializzazione difettosa o di aspettative di ruolo. Comunque, malgrado la loro dichiarata mancanza di interesse per la devianza in sé (considerata il prodotto di scarto di una macchina mal funzionante), il funzionalismo e le concezioni a esso ispirate contribuirono allo studio del fenomeno con due idee estremamente importanti.
Il primo contributo del funzionalismo allo studio della devianza è l'idea - paradossale - che la devianza, lungi dall'essere un fenomeno puramente negativo e patologico, svolga un ruolo fondamentale e addirittura positivo nel mantenimento dell'ordine sociale. Questa idea si fa immancabilmente risalire alle prime tesi di Durkheim sulla "normalità del crimine". Il crimine, secondo Durkheim, è un fatto sociale non solo in senso statistico, ma anche in quanto esso svolge precise funzioni sociali: "Classificare il crimine tra i fenomeni della normale sociologia non vuol dire solo affermare che esso è un fenomeno inevitabile, sebbene deplorevole, dovuto all'incorreggibile debolezza dell'uomo, ma anche che esso è un fattore di salute pubblica, una parte integrante di tutte le società sane" (v. Durkheim, 1895).Una società senza devianza è impossibile da immaginare. Le "funzioni positive" della devianza sono: rafforzare la coscienza collettiva, segnare i confini di ciò che è lecito e anticipare mutamenti sociali desiderabili. Il crimine, lungi dall'essere puramente distruttivo, mantiene la stabilità sociale. (Marx aveva notato lo stesso paradosso che tanto affascinava Durkheim; Marx, però, si chiedeva non come fosse possibile la società, ma come fosse possibile la società capitalistica, dove il crimine svolgeva un ruolo necessario nel mantenimento dello status quo).
Lungo queste linee di pensiero sociologi di diverse scuole (v. Erikson, 1966; v. Box, 1971) precisarono le funzioni positive della devianza: la devianza rafforza la solidarietà (aggregando l'opinione pubblica nella comune condanna del deviante) e chiarisce i confini della morale (la denuncia del male ci informa su ciò che è bene). La devianza è dosata in modo tale che ogni società ottiene la quantità e il tipo di devianza di cui 'necessita'. Più precisamente e più proficuamente tutte queste funzioni dovrebbero essere considerate funzioni non della devianza ma delle reazioni alla devianza.
Altri teorici sostennero un paradosso parallelo: la distinzione tra funzioni manifeste e funzioni latenti. Sotto la superficie visibile negativa - l'unica dimensione accessibile agli occhi del moralista - ci sono le funzioni sociali occulte della devianza, che possono essere rivelate solo da un analista più raffinato. Così la corruzione presente nelle istituzioni cittadine offre possibilità di ascesa sociale; così la prostituzione aiuta a preservare la famiglia monogama. I funzionalisti non sembravano rendersi conto del fatto che tali conclusioni erano influenzate dai valori in cui essi credevano; inoltre sottovalutavano le divisioni sociali, i conflitti e le disuguaglianze di potere che rendono sospetta ogni formula sulle funzioni positive della devianza. "Funzionale a chi?" resta il quesito.
Anche il secondo importante contributo del funzionalismo allo studio della devianza trae ispirazione da Durkheim. In questo caso non si tratta degli aspetti della devianza ritenuti 'normali' o 'sani', ma delle sue origini nella 'anormale divisione del lavoro', in certi tratti patologici della società moderna emergente. Il famoso termine durkheimiano 'anomia' si riferiva alla caratteristica dissociazione, nella società moderna, dell'individualità dalla coscienza collettiva. I desideri individuali, che emergono dal loro "abisso insaziabile e senza fondo", non sono sufficientemente regolati o controllati. L'anomia era lo stato di mancanza di norme (o di deregulation) prodotto dalla rapida fuoriuscita dalla società tradizionale, ed esacerbato dalle crisi sociali ed economiche.
Nel Suicide - forse il primo 'classico' di sociologia della devianza - Durkheim (v., 1897) prese in esame il suicidio, la forma di devianza più individuale di tutte, per costruire un modello di causazione sociale. Egli individuò le cause sociali del suicidio (e, implicitamente, di altre patologie) nella debolezza della regolamentazione morale delle società moderne. I settori vulnerabili della popolazione - avulsi dalle fonti tradizionali della coercizione e della solidarietà sociale - erano lasciati in preda ad ambizioni illimitate, e quindi condannati all'"infelicità perpetua", che, in casi estremi, poteva sfociare in un comportamento autodistruttivo o in altre forme di comportamento patologico. Tali 'devianti anomici' potevano essere distinti sia dal 'deviante biologico', presente anche nella società più perfetta, sia dal 'ribelle funzionale', una persona normale che sceglie di reagire a un ordine sociale anormale o ingiusto.
In quello che è considerato il più importante scritto di sociologia della devianza, Merton (v., 1938) trasformò la nozione di anomia di Durkheim in una nuova formula sociologica in grado di spiegare l'esistenza della devianza nelle società democratiche moderne. Per Merton l'anomia non era più l'assenza di norme, ma la conseguenza non voluta di un divario strutturale tra fini e mezzi. In una società che dà troppa importanza al successo personale, al raggiungimento di traguardi cui tutti dovrebbero aspirare ('il sogno americano'), e che tuttavia possiede una struttura che non offre a tutti uguali opportunità o uguali mezzi per raggiungere questi traguardi, si determina una tensione permanente. La risposta più comune a questa situazione sarà sempre il conformismo, cioè l'accettazione dei mezzi legittimi e culturalmente prescritti (come l'impegno individuale), nonché dei traguardi approvati. Esistono però anche adattamenti devianti, di cui i più importanti sono l'innovazione e la rinuncia. L'innovazione consiste nel perseguire i fini culturali prescritti (in particolare il successo materiale), facendo però uso di mezzi illegittimi (per esempio il furto, la frode, la violenza); la rinuncia (una categoria di comportamenti nella quale Merton includeva gli 'adattamenti devianti' come il suicidio, la malattia mentale e la tossicomania) consiste nel rifiuto sia dei fini prescritti sia dei mezzi convenzionali.La formula mertoniana "l'anomia porta alla devianza", nonostante le numerose critiche cui è stata sottoposta, perché non tiene conto del processo attraverso cui si perviene alle soluzioni devianti (v. Cohen, 1965), perché reifica la struttura sociale, perché presuppone il consenso sui valori e perché trascura la questione del controllo sociale (v. Clinard, 1964), ha tuttavia esercitato un'influenza duratura. La più importante conseguenza della concezione mertoniana, per lo studio della devianza, è stata lo sviluppo delle teorie delle subculture, specialmente a proposito della delinquenza giovanile. Queste teorie, pur notevolmente diverse tra loro (v. Cloward e Ohlin, 1960; v. Downes, 1964), hanno in comune due caratteristiche: si basano tutte sul presupposto che la delinquenza sia una soluzione culturale condivisa di problemi indotti strutturalmente, e tutte rappresentano un tentativo di combinare un macromodello derivato da una teoria sul tipo di quella dell'anomia (che chiama in causa le tensioni, le pressioni, le frustrazioni e le ineguali opportunità di successo generate dalle democrazie industriali avanzate) con un micromodello derivato da una teoria sul tipo di quella della Scuola di Chicago (che mette in luce i processi sociali concreti attraverso i quali si giunge agli adattamenti devianti, li si impara e li si adotta come stili di vita).
Le teorie delle subculture godono ancora di notevole credito; a esse si contrappone una teoria nota come 'teoria del controllo' (v. Hirschi, 1969). Rifacendosi (quasi) alla nozione di Durkheim, secondo cui l'anomia è l'effetto di un controllo insufficiente, questo modello sostiene che, siccome la tensione è un fatto universale (ognuno ha i suoi problemi), la questione non è come spiegare la devianza, ma come spiegare il conformismo. Anziché postulare che la maggior parte della gente segua le regole a meno che non accada qualcosa di speciale (anomia, tensione, frustrazione, alienazione, ecc.), si dovrebbe partire dal presupposto che i desideri devianti sono normali. La maggior parte delle persone infrangerà le regole a meno che delle circostanze speciali - per esempio un forte legame sociale, uno stretto controllo sociale e un forte attaccamento alle istituzioni convenzionali - non glielo impediscano. Si diventa devianti perché si è liberi di diventare tali, non perché vi si sia costretti da problemi strutturali. Oltre alle differenze teoriche tra questi modelli, vanno notate le loro diverse implicazioni politiche e pratiche (un importante terreno su cui confrontare le varie teorie della devianza). Le teorie che fanno riferimento al binomio 'tensione'/'opportunità' si prestano a ispirare riforme come quelle che propugnano una maggiore uguaglianza nel campo dell'istruzione o in quello del lavoro; la teoria del controllo suggerisce programmi più conservatori, come quelli che auspicano l'introduzione di una disciplina più severa a scuola o in famiglia.
Verso la metà degli anni sessanta, dapprima negli Stati Uniti e poi in Gran Bretagna e nell'Europa occidentale, si affermò una nuova concezione della devianza, una combinazione - talora incoerente - di svariati principî teorici e pratici, che assunse diverse denominazioni: teoria interazionista, transazionale, scettica, della reazione sociale, della reazione societaria, o - più comunemente - teoria dell'etichettamento.
A livello teorico, la nuova concezione traeva diversi spunti dalla Scuola di Chicago (la nozione di devianza come comportamento appreso, l'uso di metodi etnografici) e dal funzionalismo (la relazione paradossale tra devianza e controllo), nonché dall'interazionismo simbolico, dalla fenomenologia e - a volte - dalla teoria del conflitto. Anche Durkheim può essere considerato un precursore della teoria dell'etichettamento, come lo è stato di molti concetti oggi usati nello studio della devianza. Famoso, al riguardo, è il suo esempio della società di santi - il "convento perfetto di individui esemplari" -, dove, benché non esista il crimine vero e proprio, " le più piccole mancanze" saranno considerate devianti. Non è la natura intrinseca di un certo atto che ne determina la condanna, ma il fatto che l'atto violi le regole che lo vietano. "Uno stesso atto, compiuto nello stesso identico modo e con le stesse conseguenze materiali, è oggetto di riprovazione o meno a seconda che esista o no una regola che lo proibisce".Il concorso di spunti teorici così eterogenei ha dato luogo a una concezione relativistica della devianza piuttosto che assoluta, soggettivamente o politicamente aperta piuttosto che effettivamente data; espressione di diversità piuttosto che di patologia, e di complessità piuttosto che di semplicità; una proprietà conferita piuttosto che inerente a qualsiasi comportamento.
La tesi principale dei nuovi teorici era che la variabile cruciale nello studio della devianza non fosse l'attore (il suo patrimonio genetico, la sua personalità, il suo status sociale, o altro) e neppure l'atto (la sua presunta pericolosità), ma piuttosto la pubblica opinione. Le due formulazioni seguenti, tratte dalla teoria della reazione sociale, sono riportate in quasi tutte le analisi teoriche della devianza comparse negli ultimi vent'anni.
1. "La devianza è creata dalla società. Con ciò non intendo dire - come si fa di solito - che le cause della devianza risiedono nella situazione sociale del deviante o nei 'fattori sociali' che lo spingono all'azione. Intendo invece dire che i gruppi sociali creano la devianza stabilendo le regole la cui infrazione costituisce la devianza e applicando queste regole a persone particolari, che etichettano come outsiders. Da questo punto di vista, la devianza non è una qualità dell'azione commessa, ma piuttosto la conseguenza dell'applicazione, da parte di altri, di regole e sanzioni al 'trasgressore'. Il deviante è uno cui l'etichetta è stata applicata con successo; il comportamento deviante è il comportamento così etichettato dalla gente" (v. Becker, 1963, p. 9).
2. "La vecchia sociologia tendeva a basarsi massicciamente sull'idea che la devianza porti al controllo sociale. Io sono giunto a pensare che l'idea opposta, cioè che il controllo sociale porti alla devianza, è ugualmente sostenibile e costituisce l'ipotesi potenzialmente più feconda per lo studio della devianza nella società moderna" (v. Lemert, 1967, p. V).Queste affermazioni ingannevolmente semplici hanno dato origine a numerose varianti e hanno suscitato diversi interrogativi: quando la devianza è 'realmente' devianza? che cosa sono esattamente questi 'gruppi sociali'? esistono delle regole che riscuotono un consenso così universale che infrangerle costituisce in effetti un atto intrinsecamente deviante? quanto dev'essere estesa, intensa o formalizzata la 'reazione'? in che modo, esattamente, il controllo 'porta' alla devianza? ecc. A prescindere dalle risposte date a questi interrogativi, il semplice fatto che essi siano stati posti dalle nuove teorie degli anni sessanta rivoluzionò lo studio della devianza.
Le teorie 'positiviste' convenzionali studiano il comportamento, di cui cercano di individuare le cause alla luce di un qualche modello deterministico (biologico, psicologico o sociale). Le nuove teorie non solo hanno messo in discussione il determinismo in nome di un modello meno rigido dell'azione umana (basato sui concetti di 'deviazione', 'processo', 'significato soggettivo', 'carriera', 'identità negoziata'), ma hanno evitato ogni tipo di spiegazione causale; inoltre hanno integrato (a volte sostituito) lo studio del comportamento con quello della reazione sociale.La reazione sociale si esplica a tre livelli: a livello di definizione, a livello di classificazione e a livello di effetti; perciò studiare la reazione sociale equivale ad affrontare e risolvere i tre problemi seguenti.Il problema della definizione: perché e come, in primo luogo, viene creata una categoria deviante? di che tipo di categoria si tratta?
Il problema della classificazione: come sono classificati i singoli casi che rientrano nella suddetta categoria? Nel modello medico della devianza la 'classificazione' si chiama 'diagnosi': per esempio, data la categoria 'psicopatico', si tratta di stabilire se un determinato individuo presenta i sintomi di una psicopatia. Nel modello criminale la classificazione dell'atto (questo atto particolare è veramente un caso di furto?) costituisce l''applicazione della legge'.Il problema degli effetti: quali sono le conseguenze sociali del fatto di aver etichettato come deviante un atto, un attore o un gruppo? In particolare, per quale strana concatenazione di eventi i tentativi di eliminare la devianza a volte sortiscono l'effetto opposto, ovvero incoraggiano, amplificano e istituzionalizzano proprio il comportamento 'incriminato'?
A loro volta anche le possibili risposte agli interrogativi elencati si situano a tre diversi livelli: il primo è quello strutturale e storico, il secondo è quello organizzativo, il terzo è quello interazionale o psicologico. Così, per esempio, le origini di una categoria deviante come l'abuso di droga potrebbero essere studiate a livello storico (quali erano le pressioni politiche che in origine crearono la legislazione antidroga?) oppure in termini organizzativi (quali interessi burocratici spingono le istituzioni preposte all'applicazione della legge a sostenere particolari definizioni del problema?). Al quesito della classificazione si potrebbe rispondere politicamente (perché sono stati presi di mira i gruppi più marginali e privi di potere?) oppure in termini di potere esercitato da determinate categorie professionali. Gli effetti potrebbero essere descritti in termini psicologici: i cambiamenti nell'identità e nell'immagine di sé prodotti dall'etichettamento, dalla stigmatizzazione o dalla segregazione.
La maggior parte delle ricerche nel campo della devianza fatte dopo gli anni sessanta segue l'una o l'altra di queste direzioni. Esistono quindi moltissimi studi su argomenti quali: le origini storiche di particolari sistemi di controllo; le dinamiche delle 'crociate morali' che cercano di creare nuove categorie devianti o di cambiare le vecchie; il funzionamento quotidiano delle istituzioni preposte al controllo sociale; la rappresentazione della devianza nei mass media (v. Cohen e Young, 1981); la dipendenza delle statistiche ufficiali sulla devianza da strati di significati costruiti socialmente; i modi in cui le forme problematiche della devianza diventano proprietà pubblica di gruppi professionali (v. Gusfield, 1981); la formazione di stereotipi sulla devianza; il processo in base al quale vengono create e gestite le identità e le carriere devianti.
A livello politico queste idee sono state integrate e affiancate da diverse concezioni alternative riguardanti le modalità di controllo della devianza (v. Cohen, 1985). Gli anni sessanta hanno visto l'affermarsi di numerosi movimenti sociali volti a indebolire, scavalcare o perfino abolire le strutture convenzionali di controllo appartenenti ai diversi sistemi: legale, assistenziale, psichiatrico. Sono state propugnate e anche adottate alternative innovative e radicali alle strutture e alle ideologie vigenti. In alcuni casi questi movimenti (per esempio il movimento per la liberazione degli omosessuali) sono stati promossi dagli stessi gruppi devianti nelle loro lotte contro modi di categorizzazione e di controllo che consideravano ingiusti e oppressivi. In altri casi sono stati i professionisti stessi che hanno dato vita a movimenti per riformare o perfino abolire le discipline o i monopoli di loro competenza. Così, nell'ambito della criminologia, del diritto, dell'assistenza sociale e della psichiatria sono nate varie concezioni critiche o controculture (per esempio l'antipsichiatria). A volte l'iniziativa del cambiamento è venuta da gruppi politici più convenzionali o - più tardi - dal movimento femminista.
Ciò che accomunava quasi tutti questi gruppi era la volontà di imporre una qualche forma di destrutturazione: le strutture e le ideologie fossilizzate del controllo sociale ereditate dal secolo precedente dovevano essere smantellate. A volte l'oggetto dell'attacco era 'il potere': le procedure, le istituzioni e l'apparato attraverso cui si esercitava ufficialmente il controllo sociale. Per esempio:
a) contro il controllo della devianza attraverso il monopolio burocratico centralizzato del modello penale, nacquero movimenti per la decentralizzazione, la decriminalizzazione, la giustizia informale, la diversione, ecc.;
b) contro la classificazione dei gruppi devianti in categorie distinte, ciascuna di competenza di particolari esperti, considerati ufficialmente i depositari esclusivi delle conoscenze al riguardo, sorsero movimenti per la deprofessionalizzazione, la demedicalizzazione, l'antipsichiatria, ecc.;
c) contro la segregazione e l'incarcerazione dei devianti in istituti chiusi di pena, trattamento o custodia, si levarono movimenti a favore della decarcerazione, dell'abolizione di tali istituti, dell'affidamento dei 'devianti' alla comunità, ecc.
A volte l'oggetto dell'attacco era 'la conoscenza': teorie e paradigmi alternativi furono contrapposti ai modelli accademici convenzionali della devianza, come quello della criminologia positivista, la teoria giuridica liberale, i modelli medici della malattia mentale o dell'abuso di droga, ecc.
In alcuni casi questi movimenti propugnavano programmi liberali moderati, tesi a riformare determinati sistemi di controllo o a modificare teorie in voga: in nome di un pluralismo liberale e tollerante - 'la cultura della diversità' - gli effetti dannosi e controproducenti dell'etichettamento dovevano essere rimossi o mitigati. In altri casi l'obiettivo era più politico e utopistico: l'abolizione completa delle categorie cognitive, dei paradigmi propri delle singole discipline e delle strutture di potere.
La teoria dell'etichettamento e i modelli di strategia politica implicitamente associati ad essa sono stati fatti oggetto di numerose critiche negli ultimi due decenni. La teoria è stata di volta in volta accusata di un eccessivo relativismo e pluralismo, di eludere le questioni della motivazione e della causazione, di attribuire potere causale all'atto dell'etichettamento. Si è sostenuto che, col suo concetto di devianza deliberatamente ambiguo e mutevole, la teoria perda di vista l'aspetto obiettivo dell'atto e le sue varianti dipendenti da variabili sociologiche standard, quali la classe, il sesso, il potere, la cultura, ecc. Alcuni critici reputano banale e ovvia la duplice insistenza sulla relatività delle regole e sul fatto che tutti gli eventi sociali sono costruiti socialmente. Da un punto di vista opposto (fenomenologia ed etnometodologia), la teoria è considerata troppo poco attenta alle problematiche della costruzione sociale. Da un'altra prospettiva ancora, i critici radicali sottolineano la presunta difficoltà che la teoria incontrerebbe nel passare da un'analisi interazionistica a un discorso in termini di potere e di tipo storico; questa difficoltà dipenderebbe dal fatto che la teoria considera la sequenza 'comportamento-reazione' come una coppia di eventi contrapposti ed episodici, isolati dalle regole e dai modelli di infrazione dominanti in un certo periodo storico.
Le repliche a tali critiche (v. Plummer, 1979; v. Goode, 1981; v. Schur, 1971) riconoscono che alcune di esse sono giustificate, mentre altre dipendono da un fraintendimento. La teoria era semplicemente una 'prospettiva' sulla devianza e non ha mai preteso di offrire un'alternativa alle spiegazioni convenzionali del comportamento. Non si possono negare né le differenze 'obiettive' di manifestazione, distribuzione e portata dei vari comportamenti giudicati devianti, né l'importanza di spiegare queste differenze; ma la classificazione deve sempre essere considerata problematica. Se l'esistenza di una regola non significa che questa sarà seguita - e le diverse infrazioni saranno modellate socialmente secondo la classe, l'età, il sesso, ecc. -, allora anche l'esistenza di tali infrazioni non significa che esse saranno universalmente riconosciute nello stesso modo da chi le commette o da altri soggetti interessati.Alcune delle politiche associate a questo gruppo di teorie sono state attuate con successo (per esempio vari progetti di 'autotutela' e la fondazione di comunità); altre hanno portato a risultati non sempre in linea con le intenzioni originarie (per esempio la decarcerazione); alcune (per esempio la decategorizzazione) sono state respinte perché vaghe e irrealizzabili; altre sono ancora oggetto di dibattito (per esempio la decriminalizzazione dei 'crimini senza vittime', come l'uso di droga).
Alla fine degli anni sessanta le nuove teorie della devianza - già radicali per le loro implicazioni culturali e per la loro contestazione delle teorie positiviste ortodosse - assunsero un tono più radicale anche nel senso politico convenzionale del termine. In Gran Bretagna, specialmente, alla teoria dell'etichettamento si diede una netta svolta: a) annoverando la reazione sociale fra i meccanismi più generali del potere statale; b) considerando gli adattamenti devianti come comportamenti razionali, significativi e implicitamente di carattere politico (v. Pearson, 1975).
Il passo successivo - ispirato all'ideologia della Nuova Sinistra, alla teoria critica di tipo marcusiano e alla tradizione marxista classica - consistette nell'inquadrare la dialettica devianza/controllo nel contesto dell'ordine sociale capitalista. I radicali sostenevano che il concetto generico di 'devianza' non fosse adatto per comprendere la natura del potere statale. Secondo loro il capitalismo moderno aveva generato due categorie di devianti (v. Spitzer, 1975): i 'rifiuti della società' (social junk, forme di comportamento che non costituivano una minaccia per l'ordine sociale vigente e che potevano essere affidate alle cure di assistenti sociali o psichiatri oppure essere benevolmente ignorate) e la 'dinamite sociale' (social dynamite, forme di comportamento percepite come una minaccia per l'ordine politico, la sicurezza individuale o la proprietà privata, e che quindi erano strettamente sorvegliate e severamente punite dallo Stato). Furono fatti alcuni tentativi per reinterpretare certe forme di devianza 'leggera' (sessualità, uso occasionale di droga, malattia mentale) in termini politici, ma l'attenzione si era chiaramente spostata sul crimine.
I teorici radicali (v. Greenberg, 1981) si muovevano lungo due direzioni. La prima li portò a elaborare una sociologia giuridica di stampo storico, tesa a scoprire le origini e le funzioni del diritto penale nell'economia politica del capitalismo. Ideologie come 'il governo della legge' furono spiegate come modi per proteggere la proprietà privata, per mantenere l'ineguaglianza e la gerarchia di classe (perfino legittimandole come giuste), per piegare l'opposizione politica, per dividere la classe lavoratrice e per ottenere una forza lavoro ben disciplinata. Questa stessa analisi dell'origine e del contenuto della legge fu poi estesa alla questione dell'applicazione della legge (per esempio, denunciando forme di discriminazione selettiva praticate dalla polizia e dai tribunali) e al problema della punizione (per esempio, ricostruendo la storia politica dell'incarcerazione). La maggior parte degli studiosi di ispirazione marxista si dedicò a questi argomenti (la legge e la punizione). Si giunse a sostenere che l'insistenza con cui l'opinione pubblica e il mondo accademico mettevano sotto accusa i crimini della strada (i reati tipici dei deboli, dei poveri e degli emarginati) era un atteggiamento di carattere ideologico, una mistificazione che mirava a celare i 'veri' crimini, cioè i crimini commessi dai detentori del potere economico e politico e la categoria, ancor più generale, delle violazioni dei diritti umani.
La seconda direzione lungo cui si muovevano i teorici radicali verteva sull'eziologia del crimine: essi cercarono di dimostrare che il capitalismo in sé è 'criminogeno'. Nozioni quali quelle di 'tensione', 'anomia' e 'opportunità bloccata' furono ricondotte nell'ambito dell'economia politica. Si trattava, secondo i radicali, di caratteri intrinseci, non correggibili, del capitalismo moderno. Le cause del crimine risiedono nell'ineguaglianza, nell'abbrutimento, nel lavoro degradante, nella disoccupazione e nell'alienazione. I radicali aspettavano l'avvento di una 'società libera dal crimine'; ciò poteva significare o che le condizioni che generano il crimine sarebbero state eliminate, o che il potere dello Stato di criminalizzare la diversità e la devianza sarebbe stato indebolito, o entrambe queste cose.
Tutte queste tesi sono state criticate sulla base del fatto che i legami esatti tra devianza e capitalismo restano indimostrati e forse sono indimostrabili. Il modello radicale si risolve in una sorta di 'funzionalismo di sinistra', in cui tutta la complessa dialettica della devianza e del suo controllo è ridotta alle necessità dell'ordine sociale capitalistico. In risposta a queste osservazioni, alcuni radicali hanno cercato di perfezionare ulteriormente l'analisi marxista tradizionale (v. Lynch e Groves, 1986): alcuni si sono dedicati all'analisi comparativa delle società socialiste, altri hanno rivisto le proprie posizioni originarie e hanno finito per riconoscere la 'realtà' del crimine e della vittimizzazione convenzionali (v. Young, 1989). L'intera tradizione radicale è ora in corso di riconsiderazione (v. Cohen, 1988).
Come un sito archeologico, il discorso in atto sulla devianza contiene in pratica le tracce di tutti i suoi strati precedenti. Nell'ambito del senso comune, della politica, dei mass media, della pratica professionale e delle teorie sociologiche si incontrano tutte le combinazioni possibili delle concezioni moralista, patologica, funzionale e radicale.Il modello sociologico dominante della devianza resta quello delineato dalle teorie degli anni sessanta. Le polemiche suscitate dalla teoria dell'etichettamento continuano tuttora - senza alcun costrutto, secondo alcuni critici (v. Scull, 1988) -, ma non si vede alcuna alternativa effettiva a tale teoria. La tradizione etnografica (che studia singoli casi di devianza e le culture devianti) ha perso di importanza. Si propende a studiare le vittime piuttosto che gli aggressori, specialmente le donne che hanno subito violenze sessuali. Si sta manifestando una certa rinascita di interesse per la devianza come categoria morale, come dimostra, per esempio, un recente studio sulla attrazione che esercita il 'comportarsi male' (v. Katz, 1988). Il concetto originario di devianza come status attribuito piuttosto che conseguito conserva la sua importanza nello studio di varie categorie socialmente svalutate - i vecchi, i disabili, i ritardati, le minoranze etniche -, ma questi soggetti tendono ora ad avere i loro 'propri' sociologi piuttosto che essere studiati nell'ambito della sociologia della devianza.Gli sviluppi teorici più promettenti potrebbero venire da quattro concezioni affini:
1) la teoria critica del controllo sociale;
2) il costruzionismo sociale;
3) il femminismo;
4) il pensiero di Foucault.
1. In sede di revisione critica della teoria del controllo sociale (v. Cohen, 1989) si sta abbandonando il modello centrato sullo Stato e la concezione secondo cui il controllo sociale si ridurrebbe esclusivamente all''insieme delle reazioni organizzate alla devianza'. È in corso di elaborazione un modello di controllo più antropologico, che ruota intorno alla nozione di 'controllo della vita sociale'.
2. Il problema di come siano costruite e gestite socialmente determinate categorie, quali la 'devianza' e il 'problema sociale', viene affrontato dal costruzionismo sociale applicando un paradigma derivato dalla sociologia della scienza e della conoscenza. Quale che sia l'argomento - l'AIDS, la guida in stato di ebbrezza o l'incesto -, si fa ricorso a uno scetticismo ontologico radicale per scoprire come vengano costruite le opinioni su ciascun fenomeno.
3. La teoria femminista recente ha attirato l'attenzione sul ruolo onnipresente del sesso nel controllo della vita sociale e nella costruzione di ciò che viene reputato 'deviante' sia per le donne che per gli uomini. Oltre a ciò, la metodologia femminista, trasformando radicalmente le categorie di 'privato' e 'pubblico' e stabilendo un collegamento tra il personale e il politico, offre prospettive più generali per lo studio della devianza e del controllo sociale.
4. Senza dubbio l'eredità di Foucault rappresenta la sfida più radicale lanciata agli studiosi della devianza e del controllo. Le implicazioni delle sue genealogie dei sistemi di controllo sociale, la sua topologia del potere normalizzante in aree come quelle della salute mentale e della sessualità e la sua teoria generale del rapporto tra potere e conoscenza devono ancora essere assorbite da discipline quali la giurisprudenza, la psichiatria, la criminologia e la sociologia della devianza.
Quale che sia la linea di ricerca seguita, lo studio della devianza resta uno dei più creativi delle scienze sociali. Il tema della devianza - perché la gente si allontana dalle norme sociali nei modi più strani, più molesti, più offensivi e più dannosi, e i modi, straordinariamente diversi, di reagire a tutto ciò - sarà sempre un argomento affascinante.Il successo delle scienze sociali nell'affrontare questi argomenti può essere misurato in base a due criteri differenti. Il primo criterio, il più ovvio, consiste nella nostra capacità di comprendere le caratteristiche intrinseche dei vari modelli di devianza e di controllo e (se è questo che ci interessa) di ideare le opportune politiche umane e, appunto, sociali. Il secondo criterio consiste nel confermare la convinzione di Durkheim, di Freud e ora di Foucault secondo cui proprio l'osservazione dell'anormale, del deviante e del patologico ci porta a comprendere il funzionamento 'normale' della società. Siamo ancora lontani dalla possibilità di applicare con successo entrambi questi criteri.
(V. anche Anomia; Controllo sociale; Criminologia; Norme e sanzioni sociali; Pena).
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