Diabete
Il diabete mellito (dal greco διαβήτης, derivato da διαβαίνω, "passare attraverso", e dal latino mellitus, "dolce come il miele") è un'alterazione del metabolismo energetico che comprende condizioni morbose molto differenti tra loro, contraddistinte dalla presenza di un denominatore comune: l'iperglicemia (aumentata e patologica concentrazione degli zuccheri nel sangue), causata da un deficit assoluto o relativo dell'insulina prodotta dall'organismo.
Il diabete mellito è una malattia cronica eterogenea che comprende almeno tre varietà distinte: il diabete di tipo 1, il diabete di tipo 2 e il diabete secondario. A parte vengono classificate inoltre la ridotta tolleranza ai carboidrati e il diabete gestazionale. Il diabete di tipo 1 e il diabete di tipo 2 sono le forme più comuni, rappresentando la quasi totalità delle forme di diabete. Il diabete mellito è la malattia endocrina più frequente; negli Stati Uniti attualmente rappresenta la quarta condizione morbosa per cui si faccia ricorso al medico e la prima causa di mortalità prematura e di invalidità. Indipendentemente dai fattori che lo determinano, il diabete è caratterizzato dallo sviluppo tardivo di complicanze vascolari e a carico dell'occhio, del rene e dei nervi: è infatti la prima causa di cecità fra la popolazione in età lavorativa; di insufficienza renale con necessità di dialisi o trapianto di rene; di amputazione degli arti inferiori non conseguente a traumi. È inoltre da rilevare che la popolazione affetta da diabete è più esposta alle malattie cardiovascolari, soprattutto alla cardiopatia ischemica. Il numero di pazienti affetti da diabete è in aumento in tutti i paesi industrializzati. Negli Stati Uniti la prevalenza (ossia il numero di casi espresso in percentuale in un determinato momento) è del 4-6%; in Italia la prevalenza del diabete noto è di circa il 3%. Tuttavia, quando venga considerata la popolazione di età superiore ai 40 anni, questa proporzione di casi noti sale al 5,5%; si può ritenere inoltre che circa il 2% della popolazione sia affetto da diabete senza esserne a conoscenza e che il 10% abbia una ridotta tolleranza ai carboidrati. Il diabete il tipo 1 è più frequentemente riscontrabile presso le popolazioni di razza bianca caucasica con notevoli differenze in rapporto non solo alle etnie, ma anche alle regioni di appartenenza. L'incidenza (numero di nuovi casi riscontrati in una popolazione per anno) nei paesi scandinavi si aggira intorno ai 30-35 casi per ogni 100.000 abitanti per anno, mentre in Italia corrisponde a circa 4-12 casi per ogni 100.000 abitanti per anno. L'eccezione è costituita dalla Sardegna che ha un'incidenza di diabete di tipo 1 tra le più alte d'Europa. Il diabete di tipo 2 costituisce la quasi totalità del diabete mellito (oltre il 90% nel mondo e oltre il 95% nel nostro paese). Nella popolazione europea la prevelenza varia dal 2% al 4%; per quanto riguarda l'incidenza i dati attualmente sono piuttosto scarsi. Il diabete di tipo 2 è frequente e precoce soprattutto in alcuni gruppi di indiani americani (indiani pima), nelle popolazioni ispanico-messicane, negli afroamericani, nei polinesiani-micronesiani, negli aborigeni australiani e nei giapponesi.
Le cause che determinano il diabete di tipo 1 e il diabete di tipo 2 sono differenti. Il diabete di tipo 1 è il risultato di un processo cronico autoimmune che distrugge specificamente le cellule del pancreas deputate alla sintesi e alla secrezione dell'insulina (cellule β). Anche altri fattori concorrono con l'autoimmunità nel determinare tale processo: tra di essi, la suscettibilità genetica e l'ambiente svolgono un ruolo di primo piano. Il diabete di tipo 1 non è una patologia geneticamente determinata, tuttavia particolari assetti genetici si traducono in una più elevata suscettibilità a sviluppare tale malattia. Il ruolo di fattori ambientali nell'insorgenza del diabete di tipo 1 non è accettato da tutti. Sono stati chiamati in causa il virus della parotite, della rosolia, il citomegalovirus e il coxsackie virus B, come agenti in grado di indurre in individui predisposti la distruzione delle cellule β pancreatiche; bisogna tuttavia sottolineare che i dati presenti in letteratura al riguardo sono controversi. L'evidenza di un ruolo importante dei meccanismi immunitari si è invece consolidata negli ultimi anni. Il processo autoimmune sarebbe caratterizzato dalla produzione di anticorpi e di cellule immunocompetenti, in grado di attaccare e distruggere le cellule β del pancreas; quando si è perso il 90% di tali cellule compaiono le manifestazioni legate alla malattia. Fattori genetici giocano invece un ruolo molto importante nel diabete di tipo 2. Un terzo dei fratelli di pazienti con diabete di tipo 2 sviluppa la malattia o almeno una ridotta tolleranza ai carboidrati; la proporzione è del 30% nel caso di figli di un genitore diabetico, raggiungendo il 60% nella situazione in cui entrambi i genitori siano affetti da questa patologia. Se la predisposizione genetica è importante, alcuni fattori ambientali cooperano nel determinare la malattia: in particolare, l'incremento del peso corporeo concorre alla sua insorgenza, procurando una riduzione dei recettori per l'insulina e della loro funzione a livello dei tessuti periferici su cui agisce l'insulina stessa (insulinoresistenza). Si ritrovano comunque nel diabete di tipo 2 anche altri fattori di rischio, che non necessariamente si identificano con quelli responsabili della malattia, ma che sono frequentemente associati a essa: tra questi possiamo annoverare la sedentarietà, la pluriparità, la macrosomia fetale, l'età senile, la pregressa intolleranza glucidica, il diabete gestazionale, l'ipertensione arteriosa, l'ipertrigliceridemia e l'iperuricemia. Nel diabete di tipo 2 l'alterazione alla base dell'iperglicemia non è quindi indotta dalla sola riduzione della secrezione insulinica, ma anche e soprattutto dalla insulinoresistenza. Con il passare del tempo il pancreas non riesce più a far fronte alle esigenze determinate dall'insulinoresistenza e si verifica uno stato di insulinodeficienza, inizialmente relativa, quindi assoluta.
La diagnosi di diabete mellito non presenta, il più delle volte, difficoltà data la presenza di sintomi e segni poco numerosi, ma molto caratteristici. Il diabete di tipo 1 esordisce nel 50% dei casi a un'età inferiore ai 20 anni, più frequentemente nella fase della pubertà; è possibile comunque che si manifesti anche durante il primo anno di vita. L'esordio può essere drammatico: comparsa della chetoacidosi e spesso stato di coma. Quando è più blando i sintomi sono costituiti dall'aumento della quantità di urine emessa nelle 24 ore (poliuria), da un incremento della sete e dell'introduzione di liquidi (polidipsia) secondaria alla poliuria. Un malato diabetico può urinare da 2 a 10 l al giorno. Tipica è anche la polifagia, ossia un aumento dell'appetito e dell'assunzione degli alimenti, il quale però si accompagna a dimagramento piuttosto che a un incremento del peso corporeo. Il malato spesso accusa anche un senso di spossatezza. Nelle donne, inoltre, si riscontra di frequente il prurito vulvare, accompagnato da manifestazioni di tipo eczematoso. Un fenomeno curioso che viene spesso osservato è costituito dall'apparente regressione spontanea dello stato diabetico dopo un periodo iniziale di scompenso metabolico, regressione che può perdurare per alcuni mesi (cosiddetta luna di miele). Il fenomeno può essere attribuito al fatto che nelle prime fasi di malattia non esiste un deficit assoluto di insulina; tuttavia il deficit insulinico si rende manifesto quando interviene un evento acuto (infezione, intervento chirurgico); la secrezione di insulina ritorna poi a essere adeguata quando l'evento è regredito, salvo deteriorarsi successivamente con il passare del tempo e divenire costantemente insufficiente, indipendentemente da episodi acuti scatenanti. I dati di laboratorio permettono di confermare la diagnosi, dimostrando l'iperglicemia a digiuno e postprandiale, la glicosuria e il deficit insulinico. Il diabete mellito di tipo 2, o dell'adulto, insorge invece intorno ai 40 anni e, talvolta, anche dopo i 60 (diabete senile); nella maggioranza dei casi presenta un esordio più subdolo e i sintomi descritti per il diabete di tipo 1 sono più sfumati, tanto che il paziente tende a non dar loro la dovuta importanza; per questo motivo accade, talora, che la diagnosi venga posta quando ormai sono sopraggiunte le complicanze croniche e sono stati proprio i sintomi a esse collegati a spingere il paziente a sottoporsi all'osservazione del medico. Anche in questo caso i dati di laboratorio che dimostrano l'iperglicemia a digiuno e postprandiale sono uno strumento fondamentale per confermare la diagnosi. Per la diagnosi di diabete mellito si utilizza uno dei seguenti criteri: a) sintomi tipici di diabete mellito associati al riscontro di glicemia superiore ai 200 mg/dl in un qualsiasi momento della giornata; b) riscontro di glicemia a digiuno (da almeno 8 ore) superiore ai 126 mg/dl; c) glicemia superiore a 200 mg/dl 2 ore dopo assunzione orale di 75 g di glucosio (test del carico orale di glucosio). Per la diagnosi di alterata tolleranza ai carboidrati si utilizza uno dei seguenti criteri: a) glicemia a digiuno superiore o uguale a 110 mg/dl, ma inferiore a 126 mg/dl (alterata glicemia a digiuno); b) glicemia maggiore o uguale a 140 mg/dl, ma inferiore a 200 mg/dl 2 ore dopo assunzione orale di 75 g di glucosio (alterata tolleranza ai carboidrati). La diagnosi di diabete mellito deve essere confermata in due differenti occasioni. È opportuno sottolineare che in un'elevata percentuale di casi il riscontro di diabete è occasionale, non accompagnato a sintomatologia e avviene in seguito all'esecuzione di esami ematochimici di routine. I criteri diagnostici elencati sono stati proposti dal Comitato di esperti sulla diagnosi e classificazione del diabete (Report of the Expert commettee on the diagnosis and classification of diabetes mellitus 1997). Rispetto a quelli precedenti, in uso dal 1979, i valori di glicemia in base ai quali si pone diagnosi di diabete sono inferiori (126 rispetto ai precedenti 140 mg/dl). La formulazione dei nuovi criteri è derivata dall'osservazione che le complicanze croniche del diabete si sviluppano anche per valori glicemici di poco superiori alla norma.
Le principali complicanze acute del diabete mellito sono: la chetoacidosi diabetica, il coma iperglicemico iperosmolare non chetoacidosico, l'acidosi lattica, l'ipoglicemia.
a) Chetoacidosi diabetica. Prima che la somministrazione di insulina a scopi terapeutici si affermasse, la tappa terminale del diabetico era molto spesso il coma. Attualmente tale emergenza metabolica si presenta più di rado, tuttavia la presenza di una sindrome metabolica definibile come chetoacidosi diabetica è rimasta una delle principali complicanze acute della malattia diabetica e spesso costituisce addirittura il 'corteo' sintomatologico d'esordio del paziente diabetico di tipo 1. Si calcola che il 30% dei giovani diabetici vada incontro almeno a un episodio di chetoacidosi. Essa consiste in un grave scompenso metabolico causato da un deficit assoluto o relativo di insulina, eccesso di ormoni controregolatori (glucagone), con iperglicemia (>300 mg/dl), depauperamento idroelettrolitico, acidosi (pH del sangue 〈7,3) sostenuta da un aumento della concentrazione ematica di chetoni (acido acetoacetico e betaidrossibutirrico), definita chetonemia, e presenza di tali sostanze nelle urine (chetonuria). Quando vi è carenza di insulina vengono rilasciati dal tessuto adiposo acidi grassi liberi che vengono trasportati al fegato. Se coesiste un eccesso di glucagone in carenza di insulina, gli acidi grassi vengono ossidati e il risultato è una produzione di corpi chetonici in grado di indurre acidosi metabolica. In tali condizioni l'organismo produce a livello epatico glucosio, mentre a livello dei tessuti periferici è inibita l'utilizzazione del glucosio stesso; si determinano conseguentemente iperglicemia e glicosuria. Le cause scatenanti della chetoacidosi diabetica sono condizioni di stress: infezioni, traumi, interventi chirurgici, patologie concomitanti, farmaci, abusi dietetici, gravidanza. I primi sintomi a comparire sono di origine gastrointestinale: mancanza di appetito, nausea, vomito, dolori addominali; è fondamentale che la chetoacidosi venga riconosciuta in questa fase per evitare di commettere errori fatali. Il paziente diabetico, infatti, teme la somministrazione di insulina quando non è in grado di alimentarsi, e in tali circostanze la mancata somministrazione di essa porta all'ulteriore evoluzione della chetoacidosi. Il progredire dello scompenso metabolico prevede turbe della coscienza che possono giungere fino al coma; il paziente presenta il caratteristico respiro rapido e profondo (respiro di Kussmaul), l'odore dell'alito è acetonico dolciastro, simile a quello della frutta matura, il paziente è disidratato con la cute e le mucose secche, la lingua è riarsa e desquamata, spesso coesiste uno stato di collasso con diminuzione della pressione arteriosa, tachicardia, cute fredda.
b) Coma iperosmolare. Il coma iperglicemico iperosmolare non chetoacidosico è un'evenienza più frequente nei pazienti con diabete di tipo 2; attualmente si preferisce definirlo sindrome iperglicemica iperosmolare non chetoacidosica, in quanto le alterazioni della coscienza non compaiono in tutti i soggetti; si tratta tuttavia di una complicanza grave, con mortalità che può raggiungere il 40-70% dei casi. Colpisce spesso le persone anziane, nelle quali coesistono altre patologie (infezioni, ictus cerebrale, riduzione della funzionalità renale, menomazione della capacità di assumere liquidi). È probabilmente l'incapacità di compensare le perdite idriche, secondarie alla diuresi osmotica causata dalla glicosuria, che induce le tipiche alterazioni della sindrome iperglicemica. Solitamente si può identificare un periodo prodromico di alcuni giorni in cui si manifestano debolezza, mancanza di appetito e nausea; il paziente orina molto e spesso, inizia uno stato di ottundimento psichico fino a raggiungere il coma negli stadi più avanzati. Il quadro neurologico può complicarsi anche con la comparsa di convulsioni, emiparesi, afasia, rigidità nucale, midriasi o miosi (dilatazione o contrazione delle pupille). È spesso presente febbre, anche in mancanza di infezioni documentabili, mentre è assente il tipico respiro di Kussmaul del coma chetoacidosico. Coesistono spesso segni di disidratazione (cute e mucose secche, lingua arida, ipotensione).
c) Acidosi lattica. L'acidosi lattica è la più grave delle complicanze acute; la mortalità a essa legata si aggira intorno all'80%. Il paziente diabetico, specialmente se anziano, è un malato con una situazione vascolare circolatoria il più delle volte compromessa e quindi con una perfusione e ossigenazione tissutale non efficiente. Quando al deficit di ossigenazione tissutale si sovrappone un deficit di insulina, si riduce l'ossidazione di sostanze come il piruvato (composto chiave nel metabolismo dei glucidi) che viene così trasformato in acido lattico; inoltre i corpi chetonici e gli acidi grassi liberi (aumentati in corso di deficit insulinico) inibiscono l'ossidazione del lattato ad acido piruvico; tale situazione può essere favorita anche da farmaci di comune impiego nel trattamento del diabete mellito di tipo 2, come le biguanidi, che possono indurre un aumento della glicolisi anaerobia e ridurre l'escrezione renale degli acidi. Questi meccanismi nel paziente diabetico portano a un aumento della lattacidemia e talvolta a una chiara acidosi, che si manifesta rapidamente con astenia, respiro di Kussmaul e alterazioni dello stato di coscienza che possono variare dal torpore al coma. Nelle fasi terminali è possibile che compaiano ipotermia, ipotensione, shock.
d) Ipoglicemia. Non è una complicanza in senso stretto della malattia diabetica, bensì una complicanza della terapia, specialmente se insulinica. Le ipoglicemie hanno un importante impatto sociale, e a livello personale possono diventare la più grande paura dei pazienti, inducendo i diabetici e talvolta anche i medici a optare per un controllo glicemico meno ottimale. È dovuta a una rapida discesa della glicemia plasmatica con comparsa, quando la glicemia è sotto i 50 mg/dl, di un corteo sintomatologico che il paziente diabetico impara a conoscere, permettendogli di mettere in atto quegli accorgimenti che spesso gli impediscono di raggiungere lo stadio di coma. I sintomi consistono in irritabilità, sudorazioni, senso di fame, cefalea, tremori, astenia, disturbi visivi, convulsioni fino al coma. Un'ipoglicemia grave e prolungata può causare danni cerebrali irreversibili. Può capitare che i pazienti con lunga durata di malattia diabetica perdano la capacità di avvertire i sintomi tipici dell'ipoglicemia e per essi il rischio di entrare improvvisamente in coma costituisce una minaccia sempre presente. La diagnosi va confermata con la determinazione della glicemia plasmatica e la terapia si basa sulla somministrazione di zuccheri per bocca, se il paziente è in grado di assumerli, o endovena se è in coma. Utile può essere anche la somministrazione intramuscolare o endovenosa di glucagone.
I pazienti affetti sia da diabete di tipo 1 sia da diabete di tipo 2 hanno la tendenza a sviluppare complicanze a lungo termine, che per la loro frequenza possono essere considerate facenti parte della storia naturale della malattia diabetica. Come ricordato precedentemente (v. sopra), il diabete è la prima causa di cecità fra la popolazione in età lavorativa, di insufficienza renale con necessità di dialisi o trapianto, di amputazione degli arti inferiori non conseguente a traumi. Inoltre le malattie cardiovascolari, soprattutto la cardiopatia ischemica, colpiscono più frequentemente la popolazione affetta da diabete. Si deve comunque rilevare che in alcuni pazienti tali complicanze si sviluppano più rapidamente, mentre in altri possono manifestarsi dopo molti anni di malattia o addirittura non manifestarsi mai, a conferma della grande eterogeneità clinica del diabete, soprattutto di quello di tipo 2. Le complicanze croniche riconoscono un'eziologia multifattoriale, in cui fattori genetici non ancora noti interagiscono con le alterazioni metaboliche che caratterizzano il diabete. L'iperglicemia è sicuramente determinante per lo sviluppo delle complicanze croniche. Ciò è dimostrato da importanti studi su alcune coppie di gemelli monozigoti, in cui un fratello fosse affetto dal diabete e uno no, che hanno riscontrato danni agli organi bersaglio soltanto nei gemelli diabetici. Le complicanze croniche infatti compaiono con maggior frequenza e gravità nei pazienti che presentano uno scadente controllo glicemico. È altrettanto vero comunque che, nonostante un cattivo controllo glicemico, alcuni pazienti non sviluppano complicanze. Questa osservazione, assieme al fatto che esiste un'aggregazione delle complicanze all'interno di famiglie con più di un soggetto affetto da diabete mellito, ha portato numerosi studiosi a ipotizzare l'importanza di fattori genetici nel conferire rischio o protezione nei confronti dei danni d'organo indotti dal diabete. I geni coinvolti in questi processi non sono ancora noti e numerosi studi al riguardo sono in corso in tutto il mondo. È di fondamentale importanza sottolineare che è possibile prevenire o rallentare lo sviluppo delle complicanze croniche del diabete mediante il mantenimento di un buon controllo glicemico. Due importantissimi studi longitudinali, della durata di oltre 10 anni, hanno inequivocabilmente dimostrato gli effetti benefici di uno stretto controllo glicemico sullo sviluppo di tutte le complicanze del diabete: il primo studio (DCCT, Diabetes control and complication trial) è stato condotto, nel 1991, negli Stati Uniti in pazienti con diabete di tipo l, il secondo (UKPDS, United Kingdom prospective diabetes study), nel 1998, nel Regno Unito in pazienti con diabete di tipo 2. Oltre al controllo metabolico, il mantenimento di valori di pressione arteriosa nella norma ha un impatto positivo sullo sviluppo e soprattutto sulla progressione delle complicanze croniche del diabete.
a) Macroangiopatia. Con il termine macroangiopatia ci si riferisce alla tendenza del paziente diabetico ad andare incontro all'aterosclerosi più precocemente e intensamente della popolazione generale, con tendenza quindi a presentare più frequentemente le malattie coronarica, cerebrovascolare e vascolare periferica. Queste rappresentano la maggior causa di morbilità e mortalità nei pazienti diabetici. La causa della più elevata frequenza di aterosclerosi nel diabete è da imputarsi soprattutto alle alterazioni dei lipidi plasmatici, che comporta aumento del colesterolo totale e della frazio-ne LDL (Low density lipoproteins), diminuzione delle HDL (High density lipoproteins) e aumento dei trigliceridi (già nella popolazione genera-le l'aumento dell'1% del colesterolo porta a un incremento del 2% di cardiopatia ischemica). All'aumento del colesterolo plasmatico si associano spesso, nel paziente con diabete mellito, altri fattori di rischio per l'aterosclerosi, rappresentati dall'ipertensione arteriosa che è in grado di danneggiare direttamente la parete delle arterie con un danno meccanico, dal sovrappeso e dall'obesità. Recenti acquisizioni inoltre indicano come nel diabete di tipo 2 anche la microalbuminuria (perdita con le urine di piccolissime quantità di albumina) sia un fattore di rischio per malattia cardiovascolare, mentre taluni autori ipotizzano che l'esistenza di anomalie della funzione dell'endotelio vascolare possano assumere un ruolo nello sviluppo dell'aterosclerosi in tali pazienti. Il risultato di tutte queste anomalie è un importante aumento nei soggetti diabetici di infarti del miocardio e di angina pectoris, che in tali pazienti risultano a prognosi più grave rispetto a quella riscontrabile in individui non affetti da diabete. A ciò sicuramente contribuisce la maggior frequenza sia di infarti silenti (in assenza di sintomatologia), sia di aritmie, shock cardiogeno, scompenso cardiaco congestizio e reinfarto. La malattia cerebrovascolare contempla forme diverse, da quadri sfumati e cronici all'ictus cerebrale conclamato; anche per essa non solo la morbilità ma anche la mortalità risultano aumentate nel diabete. La malattia vascolare periferica coinvolge, nel paziente diabetico a differenza del non diabetico, preferenzialmente le arterie della gamba (arterie tibiali e peroneali) e si ferma alla caviglia risparmiando le arterie del piede; tuttavia non è rara nemmeno l'occlusione dell'arteria femorale superficiale. La compromissione delle arterie che portano il sangue agli arti inferiori determina lo sviluppo di ulcere e di aree di gangrena che nella peggiore delle ipotesi possono richiedere anche l'amputazione dell'arto.
b) Microangiopatia. Il termine indica un'alterazione dei capillari che produce le sue massime conseguenze a livello dell'occhio (retinopatia diabetica) e del rene (glomerulopatia diabetica). La retinopatia diabetica è la causa più importante di cecità nelle persone tra i 30 e i 65 anni; si verifica con il tempo e le sue varie tappe possono essere seguite molto bene attraverso l'esame del fondo oculare. Si divide in due varianti principali: la retinopatia semplice, o background, e la retinopatia proliferante. La retinopatia background raggiunge il 95% dei soggetti con diabete di tipo 1 con più di 15 anni di malattia e il 78% dei soggetti con diabete di tipo 2 con la stessa durata di malattia; si caratterizza per la presenza nel fondo oculare di piccole dilatazioni dei vasi sanguigni (aneurismi sacculari), successivamente compaiono piccole emorragie retiniche ed 'essudati duri' dovuti allo stravaso rispettivamente di sangue e di lipoproteine; si possono formare inoltre dei microinfarti che gli oculisti definiscono per il loro aspetto 'essudati cotonosi'. La retinopatia proliferante si caratterizza essenzialmente per la presenza di neoformazione di vasi che facilmente si rompono residuando cicatrici; può portare a gravi complicanze come il distacco della retina e le emorragie nel vitreo. È bene ricordare comunque che nel paziente diabetico la diminuzione dell'acuità visiva può essere dovuta anche ad altre cause (per es., alla maculopatia, frequente nel diabete di tipo 2, alla cataratta o al glaucoma). La nefropatia diabetica si sta rivelando una delle più terribili complicanze a lungo termine sia nel diabete di tipo 1, sia nel diabete di tipo 2. La storia naturale di questa complicanza è stata ben caratterizzata nel diabete di tipo 1, mentre un minor numero di dati è disponibile nel tipo 2. Nel diabete di tipo 1, inizialmente, si verifica un aumento della capacità del rene di filtrare le sostanze prodotte dall'organismo (iperfiltrazione glomerulare), che si accompagna anche a un accrescimento delle dimensioni del rene stesso (ipertrofia renale); successivamente, dopo qualche anno di malattia, possono comparire delle lesioni istologiche documentabili soltanto mediante biopsia renale, in quanto in questa fase il paziente non presenta né sintomi né segni di malattia renale. Tale fase può durare anche decenni; è importante comunque sottolineare che il 60-80% dei pazienti non supera mai questa seconda fase. I primi segni di malattia renale sono caratterizzati dalla comparsa della microalbuminuria, che consiste nell'escrezione con le urine di piccole quantità di albumina, tra 20 e 200 µg/min, rilevabili solamente con tecniche diagnostiche assai sensibili. Solitamente tale fase si presenta dopo 10-20 anni di malattia e si associa spesso alla comparsa di ipertensione arteriosa. Nei pazienti in cui il danno renale progredisce può comparire proteinuria, ossia perdita con le urine di quantità superiori di albumina (>200 µg/min). Se il danno renale avanza ulteriormente, si assiste a un importante decremento della funzionalità renale che conduce alla totale perdita della capacità del rene di filtrare ed eliminare le sostanze tossiche prodotte dall'organismo (insufficienza renale terminale). Giunti a questo stadio, è necessaria la terapia sostitutiva mediante dialisi o trapianto renale. Va nuovamente ricordato che sia la retinopatia, sia soprattutto la nefropatia diabetica possono essere in parte prevenute mediante il mantenimento di un buon controllo metabolico. Qualora siano presenti i segni iniziali di queste complicanze, il buon controllo glicemico ha un impatto favorevole nell'arrestarne o rallentarne la progressione. Al controllo attento dei valori glicemici deve essere associato un altrettanto stretto controllo dei valori della pressione arteriosa che devono rimanere nel range di normalità (valori inferiori a 130/85 mmHg). Numerosi studi hanno dimostrato la capacità del trattamento anti-ipertensivo, e soprattutto dei farmaci Ace (Angiotensin-converting-enzyme)-inibitori, di rallentare lo sviluppo e la progressione soprattutto della nefropatia.
c) Ipertensione arteriosa. L'ipertensione arteriosa non è una complicanza cronica in senso stretto del diabete mellito, tuttavia si trova spesso a esso associata. Nei pazienti con diabete di tipo 2 è due volte più frequente rispetto alla popolazione non diabetica, nel diabete di tipo 1 è spesso presente nei pazienti con nefropatia. L'ipertensione, l'ipercolesterolemia, il fumo di sigaretta agiscono in sinergia con il diabete moltiplicando il rischio di infarto del miocardio. L'ipertensione tuttavia non accelera solamente l'avvento dell'aterosclerosi, ma favorisce anche lo sviluppo della nefropatia e della retinopatia, divenendo un fattore di rischio molto importante nello sviluppo delle complicanze croniche del diabete. Essa rappresenta un nemico molto temibile, contro il quale però esistono attualmente armi farmacologiche efficaci. A testimonianza dell'importanza in clinica dell'ipertensione nel diabete, basti pensare che le più recenti linee guida nel trattamento dell'ipertensione nel diabetico indicano, come traguardo terapeutico, il raggiungimento di valori di pressione inferiori a 130/85 mmHg, valore considerato ancora normale nella popolazione generale. In letteratura esistono attualmente confortanti studi sull'efficacia di alcune classi di farmaci; in particolare gli Ace-inibitori, i calcioantagonisti e i betabloccanti si sono rivelati efficaci, da soli o in associazione, nel trattamento dell'ipertensione nel paziente diabetico.
d) Neuropatia diabetica. Una neuropatia sintomatica colpisce il 50% dei pazienti diabetici. Si suppone che l'iperglicemia abbia un ruolo diretto nel determinare la neuropatia, ma pare avere un'incidenza anche il danno di natura ischemica, legato quindi ad alterazioni vascolari. La neuropatia diabetica può interessare un solo nervo (mononeuropatia) oppure, più spesso, molti nervi (polineuropatia). I disturbi sono prevalentemente di natura sensitiva, si manifestano con alterazioni della sensibilità soggettiva (formicolii, dolori crampiformi notturni, soprattutto agli arti inferiori). Rara è una forma dolorosa acuta, che tipicamente si sviluppa dopo un periodo di cattivo controllo metabolico (è descritto che talvolta il solo contatto con gli indumenti può causare dolore fortissimo), ma che solitamente si autolimita. Infrequente è anche una forma particolare di neuropatia, che è denominata amiotrofia diabetica; essa predilige gli uomini anziani affetti da diabete di tipo 2, è caratterizzata da esaurimento e debolezza dei muscoli prossimali della pelvi e può associarsi a deficit sensoriali con distribuzione al territorio femorale. Le mononeuropatie sono invece lesioni isolate e hanno solitamente un esordio improvviso: colpiscono prevalentemente tra i nervi cranici l'oculomotore, il trocleare e l'abducente, tra i nervi periferici il radiale, il mediano e il popliteo laterale. Una particolare attenzione va posta alla neuropatia autonomica, ossia alla compromissione del sistema nervoso vegetativo che determina molti problemi e ha una cattiva prognosi. Le lesioni del sistema autonomico possono causare danni ai sistemi cardiovascolare, gastrointestinale, cutaneo e genitourinario. I pazienti possono presentare così tachicardia, diminuzione improvvisa della pressione arteriosa nel passare dal clino- all'ortostatismo (ipotensione ortostatica) e maggior frequenza di infarti silenti. La compromissione dell'apparato gastrointestinale si manifesta con alterazioni della motilità gastrica, digestione lunga e difficoltosa, stipsi o diarrea; i difetti della motilità intestinale inoltre favoriscono lo sviluppo di batteri e il malassorbimento. Le alterazioni dell'apparato genitourinario, infine, determinano eiaculazione retrograda, impotenza, minzioni poco frequenti con svuotamento vescicale incompleto o incontinenza.
e) Piede diabetico. Il piede diabetico è una sindrome dovuta a molti fattori. Si caratterizza per la comparsa di ulcere plantari che guariscono con grande difficoltà e che sono conseguenti a traumi apparentemente insignificanti. In alcuni casi si sviluppa addirittura gangrena che può richiedere l'amputazione del piede. La causa principale è la neuropatia sensitivomotoria agli arti inferiori che causa una perdita della sensibilità periferica; il paziente non è quindi in grado di prevenire e avvertire gli eventi traumatici; si possono così verificare piccoli traumatismi senza che egli accusi dolore e quindi senza che possa porvi immediato rimedio. Sicuramente, anche le variazioni della funzione motoria e propriocettiva del piede vi contribuiscono, sviluppando la tendenza a poggiare il piede in modo anomalo. Il paziente diabetico, come abbiamo già sottolineato in precedenza, si caratterizza per un ridotto apporto di sangue agli arti inferiori a causa della malattia vascolare periferica e, indubbiamente, anche la conseguente ridotta ossigenazione dei tessuti concorre allo sviluppo del piede diabetico. Se trascurate, spesso le ulcere plantari si infettano determinando la comparsa di ascessi che tendono ad approfondirsi nei tessuti del piede, causando addirittura infezioni a livello osseo (osteomieliti), che guariscono con estrema difficoltà. Tuttavia, la manifestazione più grave a carico del piede è una patologia osteoarticolare su base neuropatica che è nota in letteratura come piede di Charcot. In passato veniva descritta in pazienti affetti da lebbra, da tabe dorsale e da siringomielia; attualmente il diabete ne è divenuto la causa principale. Nel determinare il piede di Charcot assume importanza l'associazione tra il danno del sistema nervoso autonomo e quello sensitivo e motorio. La neuropatia autonomica vi contribuisce, causando l'apertura di collegamenti tra arterie e vene con aumento del flusso locale di sangue, che determina rimaneggiamento osseo e indebolimento dell'osso stesso. A causa della debolezza dei muscoli provocata dalla neuropatia motoria e della perdita di sensibilità determinata dalla neuropatia sensitiva si possono verificare fratture a carico delle ossa del piede che ne alterano profondamente e permanentemente la struttura.
Il primo atto terapeutico del medico nei casi di diabete consiste nell'educazione del paziente, che deve diventare attivo nella gestione della propria malattia. È ampiamente dimostrata l'utilità di un programma di educazione nella prevenzione delle complicanze, sia acute sia croniche, della malattia diabetica. È importante, quindi, all'inizio introdurre il concetto di malattia, di inguaribilità, ma di possibilità di un trattamento adeguato. È fondamentale, una volta che il paziente ha accettato la malattia, informarlo sulle complicanze croniche e sulla loro prevenzione, ribadendo che solo seguendo strettamente i consigli dietetici, potenziando l'attività fisica e assumendo correttamente la terapia, tali temibili complicanze possono essere evitate. Tutto questo richiede un impegno da parte del paziente; pertanto è importante che questi acquisisca la consapevolezza che, se trascurato, il diabete mellito conduce precocemente verso eventi che possono mettere in serio pericolo la vita. Con l'introduzione del monitoraggio domiciliare della glicemia la terapia del diabete è stata rivoluzionata, in quanto, da una parte, il paziente si sente più coinvolto, dall'altra, sono possibili aggiustamenti terapeutici più rapidi che gli consentono, se impara a gestirsi in modo adeguato, di mantenere uno stile di vita compatibile con le sue esigenze di natura individuale e sociale. Il trattamento del diabete mellito coinvolge variazioni dello stile di vita e interventi farmacologici.
Nel diabete di tipo 1 il primo scopo è restaurare il deficit insulinico: i pazienti dipendono dall'insulina esogena, ma sono necessari cambiamenti dello stile di vita per ottimizzare il trattamento insulinico e migliorare lo stato di salute. Nel diabete di tipo 2 le variazioni dello stile di vita sono il cardine del trattamento e l'intervento farmacologico gioca un ruolo soltanto secondario. Dieta ed esercizio fisico svolgono quindi una funzione fondamentale nel trattamento del diabete mellito. Dal punto di vista qualitativo, le diete per diabetici, in linea generale, dovrebbero contenere pochi grassi saturi, un moderato contenuto di carboidrati complessi (amidi), molte fibre vegetali e un adeguato apporto di proteine, minerali e vitamine. I presidi dietetici assieme all'attività fisica sono quindi il cardine della terapia del diabete di tipo 2; tuttavia, quando non è possibile ottenere un buon controllo metabolico è indispensabile ricorrere ai farmaci. Esistono in commercio varie formulazioni di farmaci ipoglicemizzanti orali, appartenenti alle classi delle sulfaniluree o delle biguanidi che trovano utilizzo nella terapia del diabete di tipo 2; qualora anche gli ipoglicemizzanti orali non permettano di raggiungere un buon controllo metabolico, è necessario ricorrere alla terapia sostitutiva con insulina, della quale esistono oggi in commercio varie formulazioni con durata d'azione diversa, nel tentativo di riprodurre il più fedelmente possibile la secrezione fisiologica dell'insulina prodotta in condizioni normali nell'organismo.
I pazienti che presentino un deficit insulinico importante, e quindi siano affetti da diabete di tipo 1, possono essere sottoposti al trapianto di pancreas. Il trapianto può interessare l'intero organo, oppure soltanto le insulae pancreatiche (o isole di Langerhans) che producono l'insulina. In anni recenti, grazie agli sforzi e all'impegno dei ricercatori in questo campo, c'è stato un notevole miglioramento dei risultati del trapianto di pancreas e insulae. Nei centri più accreditati, la maggior parte dei pazienti che si sottopone al trapianto di pancreas supera il periodo postoperatorio senza problemi e rimane insulinoindipendente e quindi non diabetica, per molti anni. Il paziente, tuttavia, per evitare il rigetto del pancreas trapiantato è costretto ad assumere farmaci immunosoppressori con importanti effetti collaterali, quali la maggiore suscettibilità a infezioni (legata alla riduzione delle difese immunitarie) e a neoplasie del sistema linfatico (linfomi); inoltre uno dei farmaci utilizzati in tutti i tipi di trapianto, la ciclosporina, ha conseguenze tossiche a livello renale. Per questi motivi il trapianto di pancreas viene eseguito quasi esclusivamente in pazienti che, a causa della nefropatia diabetica, necessitino di un trapianto renale, intervento quest'ultimo che comporta molti più benefici che rischi. Questi pazienti infatti richiedono comunque la terapia immunosoppressiva per evitare il rigetto. Il trapianto in tali casi avviene simultaneamente e il paziente, oltre a non necessitare più della dialisi, non è più diabetico. In soggetti siffatti il trapianto di pancreas previene il ripresentarsi delle lesioni di tipo diabetico nel rene trapiantato e ha un'influenza positiva su tutte le complicanze croniche, soprattutto la neuropatia. Se eseguito isolatamente in pazienti che non hanno insufficienza renale, il trapianto viene riservato ai casi di diabete estremamente instabile con frequenti ospedalizzazioni per coma chetoacidosico o ipoglicemico che rendono la qualità della vita inaccettabile. Anche in Italia sono stati eseguiti trapianti isolati di pancreas, ma questa procedura viene adottata in casi molto particolari. Attualmente si stanno studiando farmaci immunosoppressori con minori effetti collaterali rispetto a quelli finora utilizzati; qualora questi agenti entrassero nell'uso comune il trapianto isolato di pancreas potrebbe essere consigliato ed eseguito molto più frequentemente. Uno studio prospettico a lungo termine (10 anni) ha dimostrato che il trapianto isolato di pancreas è in grado di far regredire le lesioni renali indotte dal diabete. Per quanto riguarda il trapianto delle sole insulae pancreatiche, questa procedura porta all'insulinoindipendenza soltanto in una minoranza dei casi e, comunque, in forma non duratura nel tempo. Pertanto, essa deve essere considerata, allo stato attuale, sperimentale e non in grado di garantire la guarigione dalla malattia diabetica.
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