Vedi DIADEMA dell'anno: 1960 - 1994
DIADEMA (v. vol. Ill, p. 85)
Il d. è menzionato per la prima volta da Senofonte (Cyr., VIII, 3, 13) quale segno di distinzione. In mancanza di un'espressione greca corrispondente, come pure dell'oggetto stesso, tale denominazione neutra indicava una componente dell'acconciatura dei re medi, a forma di benda. Esso era portato in aggiunta a un copricapo, la tiara, non solo dal re, ma anche dall’élite dei suoi parenti.e dei satrapi. Rappresentazioni di questi ultimi su monete del IV sec. a.C. mostrano il d. come una fascia legata sulla nuca, portata al di sopra della tiara, con le estremità, perlopiù brevi, che formano un fiocco. Si discute ancora sul valore e il significato di tale benda e sulla sua attribuzione ai parenti (συγγενείς) o ai satrapi. Il d. divenne il contrassegno dei re achemenidi solamente in relazione alla speciale tiara regale. Dopo il 330 a.C., Alessandro Magno, nel quadro della sua politica di assimilazione, adottò alcuni ornamenti regali medi e persiani, fra cui il d. che inizialmente venne portato in maniera tradizionale unitamente a un copricapo, anche se Alessandro probabilmente non indossò la tiara ma la causia macedone, contraddistinta dal colore porpora, proprio della regalità (Efippo di Olinto in Ath., XII, 53, p. 537 e FGrHist, 126, F 5). Nel periodo successivo l'abbinamento di d. e causia è documentato da molte fonti letterarie fino al 34 a.C. con Tolemeo Filadelfo, figlio di Cleopatra VII e Marco Antonio (Plut., Ant., 54). Raffigurazioni della kausìa diadematophòros su monete dei dinasti battriani mostrano ima fascia sottile, che corre lungo l'apertura del berretto ed è annodata sulla nuca, analogamente a quel che risulta in altre immagini di d.; le lunghe estremità, che terminano con tagli rettangolari, pendono sulle spalle. Una delle impronte di sigilli tolemaici provenienti da Edfu reca come motivo unico la causia ornata del d., sottolineando in tal modo il carattere simbolico di questo abbinamento. La personificazione della Macedonia nei «ritratti di principi» di Boscoreale porta una benda avvolta attorno alla testa, al di sotto della causia, che viene spesso identificata come un diadema. Tuttavia, in quest'ultimo caso, le estremità pendono ai lati della testa come una stoffa ricca di pieghe, dunque in contrasto con le altre raffigurazioni di d. attestate. Non sono rimaste immagini coeve di Alessandro con il d.; una sua effìgie con corazza sulle decadramme commemorative della vittoria sul re Poros, del 326 a.C., non è contraddistinta infatti dal d., come si è spesso pensato, poiché l'estremità appuntita con cui esso è stato scambiato è in realtà la parte finale del pennacchio dell'elmo.
Inizialmente il d. presso gli Achemenidi non possedeva ancora il significato di un segno distintivo di priorità, il cui possesso indicava l'onore regale o lo legittimava. Lo stesso Alessandro, in punto di morte, stabilì la propria successione consegnando il suo anello personale col sigillo. Come emerge dai fatti che hanno accompagnato la morte del re - la composizione della salma con tutti gli effetti ornamentali e la vestizione con l'abito cerimoniale da parte di Filippo Arrideo - i d. erano più di uno. L'assolutizzazione del d. quale simbolo regale fu introdotta da Eumene di Cardia, il quale, accanto alle insegne tradizionali del trono e dello scettro, pose anche il d. del re defunto in una tenda per mostrarlo alle truppe macedoni (Plut., Eum., II s.). L'assestamento e il consolidamento definitivi dell'iconografia monarchica ebbero luogo nella fase iniziale dei regni dei diadochi. Per primo, Tolemeo I fece incidere sul diritto delle proprie tetradramme l'immagine di Alessandro divinizzato ornato di varí attributi divini, e analogamente si comportò Lisimaco. Quest'ultimo scelse il corno di Ammone e il d. per caratterizzare la divinità e il regno, ponendo così la benda regale come simbolo cui fare riferimento, differenziandosi tuttavia dalle immagini di sovrani di epoca anteriore. Dal 306 a.C., con Tolemeo I, ha inizio la serie delle effigi su monete di principi viventi provvisti di d. come simbolo della regalità. All'interno di tale processo diventa decisiva la tipizzazione della forma del d. e della sua disposizione, cosicché può diventare un simbolo di riconoscimento noto ovunque. La grande risorsa formativa di tale convenzione si può riscontrare dove il d. viene accettato come insegna, pur in assenza (p.es. presso Gerone II di Siracusa) di un legame diretto con la successione alessandrina o la tradizione achemenide.
La modalità di raffigurazione del d. in tutta la monarchia dei diadochi è, ove compare, sempre la stessa: una fascia sottile, portata fra i capelli e annodata alla nuca; solo di rado vengono aggiunti copricapi come la causia o l'elmo. L'orlo della benda avvolta sul capo accenna ad arrotondarsi, mentre le estremità sono tagliate di netto e ornate di frange a fili intrecciati, la cui disposizione è accennata tramite strisce oblique. Ingrossamenti globulari alle estremità delle frange possono rappresentare nodi dei fili, fatti a scopo decorativo. Il colore era in prevalenza bianco, come emerge dall'associazione frequente di strisce bianche col d. (Val. Max., VI, 2, 7; Ael., Nat. an., XV, 2), ma talora anche porpora a fare da contrasto col bianco (Curt., VI, 6, 4). La fascia ornamentale, a forma di d., posta sulla corona in foggia di nave che porta una regina della dinastia tolemaica raffigurata come dea della città sui mosaici di Thmuis, mostra strisce oblique bianche e dorate. Intarsiato d'oro era il d. di Demetrio Poliorcete (Plut., Demetr., 41), così raffigurato simile alla mitra degli orientali (Douris in Ath., XII, 535 E e ss. = FGrHist, II, A 142). Nel ritratto di Cleopatra VII (v.) la forma della benda fa supporre la realizzazione in oro di tale elemento, che poteva essere a nastro continuo oppure a piastre.
La forma-base del d. rimane identica in tutte le dinastie sviluppatesi nell'ambito dei successori di Alessandro, tuttavia alcune forme particolari sono legate a varI attributi. Così il ritratto del Filetero, che non ebbe nemmeno il titolo di re, sulle tetradramme del suo erede Eumene I ha il d. inserito in una corona di alloro; Antioco III è indicato come monarca eroizzato grazie alla combinazione di «bende eroiche» a cercine con il d. avvolto intorno. Le estremità piatte, ornate di frange, sono realizzate in maniera plastica come dettaglio dal significato rilevante. Ulteriori aspetti dell'assimilazione del principe a divinità possono essere rappresentati tramite l'aggiunta di raggi di sole, spighe o ali.
Un allargamento notevole della benda, originariamente stretta, è caratteristico della tarda età tolemaica. Anche le regine portano il d. a conferma del rango di basilissa, come p.es. Arsinoe II Filadelfo (lust., XXIV, 3, 2) e Monime, consorte di Mitridate VI (Plut., Luc., 18, 3). Esso ha la medesima forma di quello dei re ed è portato da solo oppure, più frequentemente, assieme a una corona e/o un velo: in tal caso è visibile unicamente la parte che corre al di sopra di questo. Quanto il d. poteva simboleggiare la regalità è dimostrato dalla scena visibile sulle coniazioni degli uccisori di Cesare, dove una Vittoria calpesta lo scettro e strappa il d. con le mani. Legato ad altri simboli, come la cornucopia doppia dei Theòi Philàdelphoi o la causia, il d. caratterizza anche questi attributi in senso regale.
In particolare nelle raffigurazioni su monete, le lunghe estremità con frange del d. vengono rappresentate con cura in quanto dettagli importanti per il riconoscimento dell'oggetto. Sono rese meno accuratamente, invece, nei rilievi dove spesso il d. è completato dal colore applicato sul marmo. Ampi intagli nella capigliatura e un foro destinato a un perno sulla nuca rivelano invece che la fascia, o le estremità che pendevano libere, erano realizzate come aggiunte in metallo. Poiché in presenza del taglio corto dei capelli, in uso per gli uomini nell'Ellenismo, bende o fasce non sono usuali, molte volte basta l'accenno a una striscia piatta, tipologia ripresa dalle monete, per evocare la presenza e il significato del diadema. Nelle raffigurazioni femminili, l'accenno a una fascia tra i capelli non è sufficiente a identificare con certezza il personaggio come regina. Alcuni gruppi di ritratti regali di epoca tarda, quali quelli dei sovrani numidi e mauretani, esibiscono questo segno distintivo con cura particolare, addirittura con le estremità a frange riportate sulle spalle, sottolineando così il carattere ormai formalizzato delle insegne.
La scoperta del sepolcro regale di Verghina e la sua attribuzione a Filippo II ha sollevato nuovamente la questione della provenienza del diadema. Mentre l'uso di bende per simbolizzare affetto e onore è un'antica tradizione greca, le fonti letterarie legano esplicitamente ad Alessandro l'introduzione di una fascia con il significato specifico di simbolo regale. Il confronto del cercine in lamine d'oro a sezione circolare con le raffigurazioni di un d. nella sua forma tipica mostra che si tratta di un'altra forma di benda: a meno che non sia il resto di una causia regale purpurea. Il cercine contraddistingue divinità ctonie e soprattutto eroi, una caratteristica, quest'ultima, che si adatta perfettamente al re defunto. Anche taluni diadochi sono ritratti su monete con il cercine degli eroi, come Seleuco I nelle coniazioni del Filetero, il quale in tal modo evitò di riconoscere la sovranità dei Seleucidi. Il cercine dorato di Verghina è l'unico esemplare rimasto che possiamo considerare come testimonianza del tipo destinato agli eroi.
Nell'arte figurativa romana della tarda repubblica, sotto la spinta del costume generalmente invalso, il d. diventò anche il contrassegno dei mitici re indigeni, come Anco Marzio e Numa Pompilio. Sui medaglioni aurei di Tarso, di età severiana, anche Filippo II viene raffigurato con il d., come nella testa marmorea a Copenaghen, nella quale il d. si rifa al prototipo dell'inizio del III sec. a.C. Il medesimo riferimento a prototipi anteriori si può osservare nella pittura parietale, dove re mitici come Laodamante e Piritoo ricevono un d. bianco.
Gli imperatori romani inizialmente evitarono il d., anche se era evidente la tendenza a farsi raffigurare nella medesima forma dei sovrani ellenistici. L'identificazione di una statua-ritratto da Atfih (in Egitto) come uno degli ultimi Tolemei o come Marco Antonio è controversa. Le monarchie sopravvissute durante l'impero romano continuarono a mantenere il d. come simbolo regale, soprattutto in Oriente. I re del Ponto, i Parti e i Sassanidi lo portarono di nuovo, assieme a tiare e corone, come simbolo della loro sovranità. Forme miste si crearono nei ritratti imperiali, come NELL’Augusto di Stoccarda, ottenuto rilavorando il ritratto di un re tolemaico, oppure se ne formarono, sempre in Egitto, per un influsso stilistico locale e mediante l'introduzione nello schema di attributi faraonici. La ripresa definitiva del d. tra le insegne imperiali ha luogo con Costantino, ma in una forma significativamente differente: la striscia sottile di stoffa, con estremità ridotte ma ancora visibili, è bordata di perle e fornita di lamine ornamentali di oro e gemme. Ciò pone le basi per la corona regale dei re medievali, ma anche per la mitra dei vescovi e la tiara dei papi. Tuttavia già in precedenza, presso imperatori come Eliogabalo, un d. intarsiato d'oro e tempestato di gemme viene menzionato come oggetto di oreficeria fuori dal comune (SHA, Heliog., 23, 5; Amm. Marc., XX, 4, 17; XXI, 1, 4).
Corona. - Nel significato originario e generale di διαδέω sono compresi anche altri emblemi, bende o oggetti di oreficeria che circondano il capo, specialmente quello femminile (Cato, Orig., 120; Isid., Orig., XIX, 31, 1) e in questa accezione il termine d. è stato ripreso nella lingua odierna. Sin dai tempi più remoti sono comuni alle acconciature femminili i d. costituiti da una parte anteriore foggiata ad arco o a cuspide che si assottiglia lateralmente, oppure completamente chiusi, annodati sulla nuca con una fascia. Le statue di kòrai arcaiche portano frequentemente tali d., decorati con meandri, rosette o fiori di loto dipinti. Gemme e fiori di loto sono realizzati in maniera plastica come fa supporre il lavoro sbalzato in oro nella statua di marmo della Phrasiklèia.
I d. dell'epoca micenea, geometrica e arcaica sono ricavati da una sottile lamina d'oro e fanno parte dei corredi funebri. La maggior parte dei ritrovamenti risalenti alla fine dell'età classica e a quella ellenistica proviene dalla Grecia settentrionale, dalla Russia meridionale e dal meridione d'Italia. La loro esecuzione, sicura e risolta dal punto di vista sia tecnico sia artistico, fa presupporre che almeno una parte di questi d. fosse usata realmente. Per tali ornamenti la lingua greca usa l'espressione generale di στεφάνη, da στέφω, «cingo, incorono», ma si trovano anche altre espressioni come àmpyx, stlèngis, sphendòne o pòlos per le diverse varianti formali. L'ultima indica una forma rotonda di altezza costante, con funzione caratteristica di corona divina. Le altre non hanno un significato specifico oltre quello generale di indicazione di lusso. Nel d. prevale il carattere ornamentale, che consente una molteplicità di forme decorative, così varia da non essere riconducibile ad alcuna tipologia precisa.
Forme di oreficeria analoghe si ritrovano nell'arte etrusca. Le kòrai arcaiche in miniatura su placchette da Palestrina e Cerveteri portano stephànai riccamente articolate simili a quelle della Phrasiklèia, mentre forme più semplici presentano quelle a fascia, datate nel IV sec. a.C., provenienti da Spina e ricavate da una sottile lamina d'oro. Un esempio tipicamente etrusco di stephàne presenta una parte anteriore, a forma di cuspide, spesso con una perla alla sommità come un acroterio, e parti laterali, terminanti in volute arrotolate oltre le orecchie. Tale forma di d. è tipica di sacerdotesse, ma si trova anche in immagini femminili, distese su sarcofagi di terracotta come Thanunia Seianti. Recipienti di bronzo in forma di testa, interpretabili come Turan-Afrodite, presentano spesso questo d. a volute. Oggetti di oreficeria per il capo e i capelli, nelle acconciature femminili, cominciano a non essere più usati durante il I sec. a.C. Solo alcuni ritratti della prima età imperiale, a cui appartiene la «fanciulla Torlonia», utilizzano ancora tali elementi, in parte di origine orientale. Nelle regioni alla periferia dell'impero romano, specialmente a Palmira, oggetti di oreficeria a forma di d., portati sui capelli e la fronte, fanno ancora parte dell'acconciatura. Un attributo frequente nella raffigurazione di dee è la stephàne ad arco o a mezzaluna, che viene trasferita in seguito anche all'iconografia delle imperatrici. In pittura viene riprodotta la tonalità dorata del metallo, come nei dipinti costantiniani sul soffitto della basilica di Treviri, ma nessun originale ci è rimasto.
Accanto ai d. dalla forma piatta e semplificata ce ne sono altri più ricchi di decorazioni. I tralci a volute sembrano essere stati assai frequenti in età claudia e adrianea (Sabina); compaiono inoltre palmette, orli rifiniti con perle o con l’opus interrasile formato da fiori di loto e palmette, come nel d. di Antonia Minore proveniente dal ninfeo di Baia. Tale forma ha influenzato le moderne concezioni dei d. e le loro riproduzioni anticheggianti.
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