Vedi DIADEMA dell'anno: 1960 - 1994
DIADEMA
È nel suo significato più generico un nastro, o benda, o cerchio che cinge il capo; specificamente invece, sta ad indicare un emblema di distinzione o di consacrazione o, più semplicemente, un gioiello che trattenga o adorni le chiome soprattutto femminili. Analogo quindi, in questo suo significato vario, alla corona, il d. assume diversi aspetti, in rapporto al suo valore, ed è pertanto da studiare in gruppi. Formalmente più semplici, i d. di consacrazione presentano soprattutto una importanza di carattere antiquario in cui la monotonia della forma è compensata dal valore documentario dell'oggetto, mentre i d. ornamentali, per la loro stessa funzione, appaiono variati e ricchi, in una intera gamma di valori, che va dal semplice nastro ai più compiuti e pregevoli lavori di oreficeria. Come insegna di regalità, il d. fu proprio della Persia, che ne trasmise l'uso ad Alessandro e, pel suo tramite, ai Diadochi; in Persia esso fu una semplice benda tessuta di porpora e bianco che i principi portavano sul turbante o tiara; il d. dei sovrani ellenistici, invece, è un largo nastro bianco, orlato e frangiato d'oro alle estremità, che era portato intorno al capo nudo ed annodato dietro, facendone ricadere sulla nuca i capi liberi. La sua introduzione, comunque, nel mondo greco è precisamente datata alla conquista della Persia, allorquando Alessandro lo adottò portandolo intorno al capo o sulla càusia.
Introdotto dall'ellenismo nel mondo romano, il nastro bianco vi mantenne lo stesso valore di simbolo di regalità e pertanto vi fu odiato nei periodi in cui più forte o più ostentata fu la tutela della libertà repubblicana; scarso e saltuario, pertanto, ne fu l'uso anche in età imperiale perché la benda che sulle monete si accompagna alla corona non ebbe valore di d. e quindi bianca non fu certamente. Notevole è, in proposito, la particolarità che Caracalla appare insignito di d. - benda con doppia fila di perle - su una moneta di Tarso e, quindi, come Parthicus. Lo stesso Eliogabalo non portò il d. come insegna di regalità, pur amando cingersi il capo, in privato, con un gioiello femminile in oro e pietre.
Costantino, in rapporto con la fondazione di Costantinopoli e il nuovo peso dato all'Oriente nella vita dell'Impero, ne introdusse l'uso come segno ufficiale del potere, adottandolo per sé e per la sua famiglia. Dopo la sua morte tuttavia il diritto di portarlo pare si restringa ai soli Augusti, mentre la forma del d. diviene meno semplice e il materiale di cui è costituito più costoso: non più semplice benda, il d. è ora una fascia aurea adorna di perle o di pietre preziose, inserite o agganciate l'una all'altra in catena con flessibili e pesanti maglie d'oro. Vero e proprio gioiello, il d., in questa sua ultima forma, prelude alla corona a placche auree degli imperatori bizantini. Da emblema del Signore della terra, il d. passa presto a emblema del Κύριος celeste (vedine numerosi esempî in: A. Grabar, L'Empereur dans l'art byzantin, Parigi 1936).
Per quanto riguarda l'uso del d. nel campo religioso, la tradizione attribuisce a Dioniso l'idea di cingersi il capo con una benda, e fa quindi risalire a lui l'origine, ugualmente orientale, del d. come simbolo di consacrazione. Tralasciando la particolare forma di d. che è rappresentato dal kàlathos o pòlos, portato dalle divinita, e noto il valore sacrale della benda, o vitta. Con bende (o con corone) si cingevano gli atleti vittoriosi, così come le vittime da sacrificare, o i sacerdoti. Per questi ultimi caratteristico appare l'uso di inserire nella corona, o nel d., le effigi delle divinità, cui può aggiungersi quella dell'imperatore nel caso che si tratti di culti imperiali; interessante è, a questo proposito, un tipo di d. esemplificato da un gruppo di sculture di Efeso di età imperiale (G. F. Hill, in Österr. Jahreshefte, ii, 1899, p. 245, figg. 131-35) oltre che da un d. vero e proprio, ma frammentario, della stessa provenienza. Esso è costituito da un cerchio di bronzo rigido che sul davanti sostiene 3 (originariamente 4) bustini di ugual metallo; questo oggetto reale risulta però particolarmente povero, anche perché manca della probabile doratura originaria, a confronto dei d. raffigurati nelle sculture già citate; in questi il numero dei busti è notevolmente superiore, mentre più accurata e ricca è tutta la struttura del monile, che inoltre si accompagna, quasi sempre, a una corona.
Se il d., come simbolo di consacrazione, si collega alla tradizione orientale, di tutti i tempi e di tutti i luoghi è, invece, l'uso di cingersi le chiome con un nastro od un monile a fini ornamentali. A non tener conto dei monili con catenelle di età preistorica (H. Bossert, Geschichte des Kunstgewerb., iii, p. 365, fig. 3) in quanto non ne è accertato l'uso come d., è probabile che molti dei nastri di lamina aurea di varia dimensione e decorati con stampigliature, che l'oreficeria di età micenea ci ha tramandato, fossero usati come bende da cingere le chiome, costituendo così il primo e più elementare tipo di d. ornamentale, che, a ben vedere, torna, più o meno modificato, in tutte le fasi dell'oreficeria antica. Ad esso si ricollegano infatti le fasce con rosette dell'oreficeria ionica e i varî d. del genere di cui abbiamo notizia; così un'hydrìa di stile severo (Mon. Ist., tav. xl; Ann. Ist., tav. xv, pp. 206-20) ci dà esempio di una fascia di lamina, decorata con globetti rilevati, che sul davanti si raddoppia: analogamente al British Museum troviamo un d. aureo dei principî del III sec. (da Santa Eufemia: Cat. Jew., n. 2113, fig. 7) costituito da una fascia di lamina, decorata con filigrana, che sul davanti presenta un rialzo triangolare.
Negli inni omerici (v, 7) compaiono due tipi di d. che ci saranno ampiamente documentati nelle loro differenti forme, in età classica, dai monumenti stessi: l'ἄμπυξ, portato dalle Horai, e la στεϕάνη di Afrodite. L'àmpyx (F. Hauser, in Österr. Jahreshefte, v, 1906, p. 111) è una striscia frontale, di metallo, che in origine può essere portata nell'acconciatura maschile o femminlle (Posidone la porta su un pìnax corinzio, cfr. Ant. Denkmäler, ii, tav. 30), ma che dal V sec. diviene un gioiello esclusivamente femminile assumendo sempre più ricche forme. Una larga documentazione ce ne è offerta dalle monete di Siracusa della seconda metà del V sec. a. C. e da quelle, più o meno contemporanee, di Terina in Magna Grecia; spesso, infatti, le testine vi appaiono acconciate con l'àmpyx che, più ampia sulla fronte, si restringe ai capi celati nella chioma, sulle orecchie, o agganciati ad una benda o ad una opistosphendòne che stringe dietro il capo la massa dei capelli. La superficie dell'àmpyx, talora liscia ed ornata solo nei bordi, è altra volta decorata con elementi sovrapposti, foglie e fiori applicati, o palmette ed altri motivi in filigrana.
Per la stephàne, che indica un cerchio di metallo che corre intorno al capo e, nel suo significato più ristretto, una corona frontale, si rimanda alla voce corona. L'uso di stephànai, tuttavia, è documentato in Attica già nella seconda metà del VI sec. a. C.
Un gruppo a parte è costituito poi da una serie di d., proprî dell'oreficeria ellenistica, di cui l'esempio più cospicuo è dato da un esemplare di Canosa (R. Bartoccini, in Iapigia, vi, 1935, fig. 16). Il gioiello è costituito da un largo nastro aureo, rigido e leggermente concavo verso l'esterno per accogliere una variopinta corona di vaghi fiori in oro e smalti, serto fiorito di incomparabile delicatezza e leggiadria. Di tutt'altro carattere, è invece, il tipo di d. rappresentato dall'esemplare del Museo Benaki ad Atene (B. Segall, Museo Benaki, n. 28) proveniente da un tesoro ellenistico di Tessaglia. Il monile, ricchissimo, è costituito da un nodo "erculeo" frontale, da cui si staccano, due per lato, 4 nastri di filo aureo intrecciato, che, chiusi da puntali di lamina, erano fermati da un nastro di stoffa sulla nuca; dal nodo, come dai nastri, si staccano dei pendenti di catenine auree e pietre che ricadevano sulla fronte, poiché il d. veniva portato con acconciatura alta. Il monile, ricchissimo, che si vale non solo dell'oro con elementi sovrapposti in filigrana, ma avviva l'effetto con inserzioni di corniole e di smalti in verde luminoso od in azzurro lapislazzulo, pare si ricolleghi ad un particolare tipo di d., proprio del mondo scito-iranico; va classificato quindi in quelle forme di oreficerie di influsso orientale, che, da Alessandro in poi, penetrano nel mondo greco, e si data al primo periodo ellenistico. Smesso nel medio e nel tardo ellenismo, il tipo di d. con pendenti deve tuttavia conservarsi nella oreficeria orientale se ancora ne troviamo il ricordo in un passo di S. Girolamo (Isaia, iii, 18) del 347-410.
Nel mondo romano la semplicità repubblicana prima, e le elaborate pettinature di età imperiale poi, riducono di molto l'uso del d. e ne impoveriscono le forme e i tipi; lo ritroveremo, ricco di smalti e pietre, con le imperatrici bizantine.
Bibl.: Steininger, in Pauly-Wissowa, VII, 1912, cc. 2109-50, s. v. Haartracht e Haarschmuck; pei singoli gruppi di oreficerie, oltre alla bibl. cit. nel testo, v. quella riportata nei Cataloghi delle principali collezioni: F. H. Marshall, Catalogue of Jewellery in the British Museum, Londra 1911; B. Segall, Museo Benaki, Atene 1938; L. Breglia, Cat. delle Oreficerie del Museo Naz. di Napoli, Roma 1941; G. Becatti, Oreficerie antiche, Roma 1955, con la più recente bibliografia P. E. Arias, in Antike Kunst, II, 1959, p. 16 ss. Per le testimonianze monetali si vedano le tavole di J. Babelon, Le portrait dans l'antiquité, Parigi 1942; G. E. Rizzo, Monete greche della Sicilia, Roma 1946; Regling, Terina, in Winckelmannsprogramm, LXVI, 1906.